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La farmacia di Epicuro: La filosofia come terapia dell'anima
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E-book247 pagine3 ore

La farmacia di Epicuro: La filosofia come terapia dell'anima

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Info su questo ebook

Fin dall’antichità, il pensiero di Epicuro fu paragonato
a un potente farmaco finalizzato a debellare i mali
dell’anima che da sempre tormentano l’uomo
impedendogli di vivere serenamente: ma sappiamo
che il termine greco pharmakon racchiude in sé i due
opposti significati di «medicina» e di «veleno » ; e, a
ben vedere, la stessa duplicità anima la filosofia di
Epicuro, che, nella misura in cui si pone come
medicina per l’anima umana, assume il carattere di
veleno che distrugge dall’interno la filosofia
tradizionalmente intesa come disinteressata
contemplazione della verità.
Ogni specifica articolazione della filosofia epicurea è
subordinata all’obiettivo di un’esistenza felice e in
nulla inferiore a quella propria delle realtà divine
LinguaItaliano
EditoreIl Prato
Data di uscita14 gen 2014
ISBN9788863362305
La farmacia di Epicuro: La filosofia come terapia dell'anima

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    Anteprima del libro

    La farmacia di Epicuro - Diego Fusaro

    1. Prefazione.

    «Pharmakon, pur significando rimedio, cita recita e fa leggere quello che nella stessa parola significa, in altro luogo e ad altra profondità della scena, veleno»¹.

    Il titolo di questo scritto si rifà in maniera evidente al titolo di un celebre libro di Jacques Derrida: La farmacia di Platone. Ma, almeno nelle intenzioni, l’analogia vuole andare anche oltre il titolo, coinvolgendo la sfera dei contenuti. Nel suo libro, Derrida, soffermandosi sull’analisi del Fedro, spiega come in Platone la scrittura sia un φάρμακον, una vox media che compendia in sé tanto il significato di «rimedio» quanto quello di «veleno»: e la scrittura, infatti, nell’ottica platonica nasce come rimedio per vincere l’oblio (mettendo per iscritto le cose, si evita che vengano dimenticate), ma rivela ben presto la sua natura opposta, il suo «supplemento pericoloso»² di veleno, poiché, una volta che si consolida la possibilità di mettere per iscritto le cose, viene meno il bisogno di sforzarsi di ricordarle.

    Anche la filosofia di Epicuro è, a ben vedere, un φάρμακον, anche se in tutt’altro senso: essa si propone come rimedio, oserei dire come «medicina» (e del resto l’immagine della filosofia epicurea come «quadrifarmaco» si affermò fin dall’antichità), agli affanni che da sempre travagliano l’uomo impedendogli di condurre un’esistenza serena, ma al tempo stesso è un «veleno» che corrompe la filosofia quale era stata sempre intesa dai Greci, vale a dire come rapporto eminentemente teoretico tra il soggetto e l’oggetto. Con la sua filosofia, Epicuro apre una nuova direzione al pensiero occidentale, che da quel momento non potrà non misurarsi – nei termini ora di un proficuo confronto, ora di un rifiuto senza possibilità di appello, ora di una battaglia senza tregua – con questo nuovo indirizzo di pensiero pratico e interessato, più che all’oggetto conosciuto, al soggetto e alla sua esistenza. In altri termini, per poter curare gli animi, la filosofia deve inevitabilmente mutare natura, divenendo qualcosa di ben diverso da quel che era prima. E questo mutamento di natura a cui Epicuro sottopone la filosofia – che si trasforma significativamente in «prassi filosofica» – è destinato ad esercitare una grande influenza sulla nostra tradizione, fino a trovare nel pensiero di Karl Marx il suo punto di incontro più ricco di conseguenze: chi scava in profondità nelle origini e nelle fonti del pensiero marxiano non può non rinvenire Epicuro, al quale la «concezione materialistica della storia» deve sicuramente più di quanto gli studiosi non siano finora stati disposti a riconoscere.

    L’idea generale che fa da stella polare a questo lavoro è che Epicuro abbia compiuto quella che anacronisticamente possiamo definire, memori della Critica della ragion pura kantiana, una «rivoluzione copernicana» della filosofia, o, come avrebbe detto Gaston Bachelard, una «rottura epistemologica» con l’intera tradizione greca: una rivoluzione che consiste nell’aver posto al cuore della riflessione filosofica l’uomo e la sua condizione esistenziale, per poi elaborare un sistema filosofico interamente funzionale all’uomo stesso e al suo benessere. Di qui la concezione terapeutica della filosofia a cui allude il sottotitolo di questo lavoro, La filosofia come terapia dell’anima.

    Con tale sottotitolo, inoltre, intendo richiamarmi all’eccellente opera di Giovanni Reale La filosofia di Seneca come terapia dell’anima³, nel tentativo di mettere in luce come anche Epicuro, non meno di Seneca, attribuisca alla filosofia una valenza terapeutica: ma ci riesca, a mio giudizio, in modo molto più efficace nella misura in cui fa salva la libertà dell’agire e in funzione di essa costruisce ogni parte della sua filosofia; invece, lo Stoicismo a cui Seneca si richiama, come tutte le filosofie che azzerano il libero agire umano riducendolo nella migliore delle ipotesi a «libera necessitas», non può mai conquistare un’autentica serenità, ma, tutt’al più, una forma di pacifica rassegnazione di fronte all’occorrere degli eventi.

    2. Una filosofia in cerca della felicità.

    «Medita, dunque, questi precetti e quelli ad essi affini, giorno e notte, fra te e te e anche con colui che è simile a te stesso, e mai, né da sveglio né in sogno, sarai turbato, ma vivrai come un dio tra gli uomini»⁴.

    Invertendo l’ordine con cui abitualmente si procede, partiremo dalla fine e termineremo con l’inizio. Più precisamente, concluderemo il nostro lavoro rendendo conto della vita di Epicuro e degli sviluppi successivi del suo pensiero e lo apriremo prendendo le mosse da quello che il nostro autore presenta come un compendio e, in certa misura, un punto d’arrivo della sua prospettiva filosofica: la Lettera a Meneceo, che può essere letta come un agile manuale per chi vuol essere felice. Questo modo di procedere, che a tutta prima potrà sembrare bizzarro, può essere fin da ora spiegato dicendo che nessun altro filosofo più di Epicuro mise in pratica i propri precetti, rivelando una singolare coerenza e una mirabile armonia tra vita e filosofia; a tal punto che non è scorretto affermare che la sua vita non fu altro che la messa in pratica della sua filosofia, con una coerenza che è davvero rara tra i filosofi di ieri non meno che tra quelli di oggi.

    La straordinaria importanza della Lettera a Meneceo, di questo «messaggio di cultura e di amore dell’umanità»⁵, risiede, oltre che nell’inesauribile attualità dei temi che tratta, nel fatto che esso rappresenta il punto d’arrivo della filosofia di Epicuro e il raggiungimento finale dell’obiettivo per cui essa era sorta, quanto meno per quel che possiamo ricostruire dai suoi frammenti: il conseguimento di un armonico equilibrio interno, un allontanamento delle troppe paure che attanagliano il nostro animo e che ci impediscono di condurre una vita serena. Tutte le varie tappe (teoria della conoscenza, teologia, teoria dei corpi celesti) in cui il filosofo greco ha scandito la sua ricerca rivelano nella Lettera a Meneceo la loro effettiva destinazione: la filosofia, quale l’ha concepita Epicuro, non è che un portentoso farmaco contro l’infelicità e le molteplici forme in cui essa ci attacca, ora come insofferenza verso la vita, ora come tristezza, ora come timore della sofferenza e di ciò che sfugge alla nostra conoscenza. È soprattutto su quest’ultimo punto che fa leva Epicuro: ciò che più di ogni altra cosa ci sconvolge, impedendoci di essere felici, è il turbamento che deriva dalla nostra ignoranza; temiamo il dolore, paventiamo la morte, siamo terrorizzati da quelli che ci appaiono come imperscrutabili voleri degli dèi e dall’imprevedibile direzione che sembra in grado di assumere la sorte. Tutto ciò ci rende infelici. Il miglior modo per scacciare queste paure sta nel mostrarne l’infondatezza attraverso un’indagine razionale: a questo deve provvedere la filosofia, che con Epicuro assume la funzione pre-illuministica di distruzione dei pregiudizi, della superstizione e dei residui mitici che sbarrano la via che porta alla verità e, con essa, alla felicità.

    In quest’ottica, l’invito che il filosofo del Giardino rivolge all’amico e discepolo Meneceo, affinché segua i precetti della filosofia e possa così vivere serenamente, diventa, tra le righe, un invito rivolto a tutti noi, che non meno di Meneceo siamo alla disperata ricerca della felicità. Che sarebbe tuttavia facilmente raggiungibile, se solo non si frapponessero, tra noi ed essa, mille paure immotivate che solo il filosofo, armato del grimaldello della ragione, può scardinare una dopo l’altra. Compiuta con buoni esiti quest’operazione, e dunque guadagnato un sereno stato di imperturbabilità, ci si può proclamare felici, a patto che, accanto all’animo, si abbia anche il corpo sgombro da ogni dolore.

    E così, rivolgendosi all’amico Meneceo, Epicuro si sta rivolgendo anche a noi, che lo leggiamo dopo più di duemila anni: che ciascuno ricerchi senza sosta questo fantasma che ha nome «felicità» e che mai si lascia afferrare, è provato dall’esperienza quotidiana che facciamo nel mondo: vogliamo ora arricchirci, ora goderci una vacanza in luoghi esotici, ora stare in compagnia degli amici. Tutte queste attività, evidentemente, non sono fini a se stesse, ma mirano al conseguimento di un qualcosa di superiore, che possiamo etichettare come «felicità»: esse non sono che le strade che dovrebbero condurci ad una condizione esistenziale felice. Già Aristotele aveva diffusamente insistito su questa tematica, mettendo in luce con particolare efficacia la natura strumentale dei tanti beni che cerchiamo di acquisire in vista della felicità⁶. La loro ragion d’essere risiede nella loro funzionalità al raggiungimento della felicità: invece quest’ultima, dal canto suo, non può essere razionalmente spiegata, in quanto risponde a un desiderio innato dell’uomo, che potremmo in certo senso definire come istintuale. Così, a chi ci domanda perché vogliamo andare in vacanza, non esitiamo a rispondere che lo facciamo per essere felici; ma non possiamo nascondere un certo imbarazzo quando ci viene chiesto perché vogliamo essere felici e, soprattutto, in che cosa effettivamente risieda la felicità. Sappiamo con certezza che cosa vogliamo, ma non siamo in grado di motivare perché lo vogliamo. In altri termini, la felicità «la scegliamo sempre per se stessa e mai in vista di altro, mentre onore e piacere e intelligenza e ogni virtù li scegliamo, sì, anche per se stessi […] ma li scegliamo anche in vista della felicità, perché è per loro mezzo che pensiamo di diventar felici. La felicità, invece, nessuno la sceglie in vista di queste cose, né in generale in vista di altro»⁷.

    Se il tema non era propriamente nuovo sul panorama filosofico, sicuramente innovativa è la soluzione che ad esso prospetta Epicuro: Aristotele concludeva che la vita felice, per l’uomo, consiste nel vivere secondo ragione e che il piacere stesso è uno strumento tra i tanti per accostarsi alla felicità. La sua restava un’ottica eudemonistica, senza però essere edonistica. Ora, per Epicuro la filosofia ha eminentemente una funzione terapeutica, ossia volta a curare i mali che albergano nell’anima umana precludendoci il raggiungimento della felicità. Così intesa, l’indagine filosofica non è che una strada – la più efficace – per essere felici: ed essere felici significa innanzitutto possedere un animo sgombro da paure e da false credenze che possano turbarlo. Ne deriva, allora, che una filosofia che decriptasse il mondo senza però riuscire a mitigare l’animo dell’uomo, scacciando le paure che lo occupano, andrebbe gettata a mare in quanto inutile sul piano della prassi. E, di fatto, all’intera filosofia greca, dai cosiddetti Presocratici fino ad Aristotele, era imputabile esattamente questo errore, nella misura in cui aveva posto l’accento – ora con grande enfasi, ora in maniera più moderata – sul primato della teoresi, rispetto alla quale l’etica risultava un momento secondario e di minor valore.

    La «rivoluzione copernicana» compiuta da Epicuro sta appunto nel mutare il punto di vista del pensiero greco, ponendo al centro dell’indagine filosofica non già la verità, bensì la libertà e la felicità, rispetto alle quali la filosofia stessa viene intesa come uno strumento. L’oggetto cede il passo al soggetto, il mondo all’uomo, la verità alla felicità. Questo punto nodale è stato colto con particolare efficacia da Francesco Adorno:

    «Il filosofare, inteso come riflessione sulla realtà, ha un senso in quanto aiuti l’uomo, attraverso la comprensione del mondo in cui vive, a rendersi conto della propria natura e delle proprie possibilità restituendo sé a se stesso, liberandosi dai timori e dalle apprensioni di una realtà soprannaturale»⁸.

    Fatta valere una simile concezione della filosofia, non stupisce se sono messi al bando da Epicuro tutti i grandi sistemi metafisici che pretendono di disvelare una volta per tutte l’essenza del mondo nella sua enigmatica interezza: infatti, ciò a cui deve mirare la filosofia non è decifrare il mondo in via definitiva, ma, più modestamente, conseguire la felicità per il singolo individuo. Per questo motivo, il filosofo del Giardino non si stanca mai di ripetere che la parola del filosofo è vana, se non allevia qualche sofferenza umana.

    Quanto fosse decisivo per Epicuro il primato dell’etica su ogni altra branca della filosofia è del resto provato dalla struttura stessa della Scuola filosofica che egli aveva fondato ai margini della città di Atene nel 306 a.C.: una sorta di comunità di amici (uomini e donne, senza discriminazioni di genere) che conducevano in comune la ricerca della felicità filosofando in un giardino – in greco Κ πος, da cui la scuola prese il nome –, lontani dalla città e dagli affanni ingenerati dalla vita politica.

    Secondo Epicuro, i grandi sistemi filosofici edificati dai filosofi del passato – in primo luogo da Platone e Aristotele – hanno attribuito un’importanza decisiva all’indagine metafisica, finendo per scordarsi o, nella migliore delle ipotesi, per concedere poco spazio ai problemi materiali dell’esistenza del singolo individuo e dei suoi dilemmi d’ogni giorno, che più che riguardare la struttura dell’universo o del sovrasensibile, sono diretti a tematiche quotidiane e, forse, più prosaiche, come la morte, la sofferenza o il potere degli dèi sulle vicende umane. In questo primato assegnato all’etica e alla vita quotidiana, in opposizione ai grandi quesiti metafisici – astratti e lontanissimi dalla vita reale – che avevano contraddistinto le generazioni filosofiche immediatamente precedenti, Epicuro è figlio del suo tempo, di quell’età che Gustav Droysen⁹ ha molto appropriatamente etichettato come Ellenismo; a Droysen va tra l’altro il merito di aver chiarito che l’Età ellenistica non fu affatto un’epoca buia e di declino quale era stata fatta ingiustamente passare dalla tradizione umanistica. La misteriosa unità del reale, colta e spiegata dai pensatori presocratici attraverso l’individuazione di un’unica ἀρχή («principio»), era stata frantumata in due mondi distinti (quello trascendente e quello sensibile, pallida e imperfetta copia del primo) dalla serrata dialettica di Socrate e, soprattutto, di Platone.

    Con la sua riflessione, Aristotele aveva tentato di ricomporli, ma con il poco confortante risultato di una riproposizione, seppure con diverse sembianze, della medesima dicotomia. Ora, i filosofi della nuova stagione ellenistica, poco propensi alla trattazione di problemi metafisici, preferiscono cercare viatici che possano sorreggere l’uomo nel suo peregrinare terreno lungo gli insondabili sentieri tracciati da una Tύχη capricciosissima, che può senza alcun motivo razionale mandare in rovina chi ha precedentemente elevato a signore del mondo e porre sul trono chi inizialmente era stato condannato al ruolo sociale di poveraccio. Così si spiega il primato che all’etica accordano tutti i filosofi ellenistici, pur nella variegata pluralità delle soluzioni prospettate: di fronte alla caoticità di un mondo ossessionato da paure e inquietudini d’ogni genere, tutti aspirano al raggiungimento di uno stato di equilibrio interno coincidente con l’«autosufficienza» (αὐτάρκεια) e con un’incrollabile serenità spirituale. Quest’ultima è declinata ora come «imperturbabilità» (l’ἀταραξία di marca epicurea), ora come «impassibilità» (l’ἀπάθεια degli Stoici), ora come «indifferenza» agli accadimenti (l’ἀδιαφορία tematizzata da Pirrone di Elide): tutte queste varianti confluiranno poi nella latina «tranquillitas animi» tematizzata da Seneca. Il comun denominatore di queste diverse concezioni etiche dev’essere anzitutto ricercato nella costante presa di distanza dal mondo, liquidato ora come ininfluente sul soggetto (lo Stoicismo), ora come sede dell’incertezza (lo Scetticismo); dal canto suo, Epicuro si differenzia dai pensatori del suo tempo e cerca di dominare gnoseologicamente il mondo più che di liquidarlo come realtà di poco conto.

    Cedendo il passo all’etica, nell’Età ellenistica la metafisica viene detronizzata ed è fatta oggetto di un sostanziale agnosticismo da parte dei nuovi pensatori, che appuntano la loro attenzione su categorie immanentistiche e, spesso, materialistiche che fanno tutte capo al mondo della φύσις. In particolare, Wilhelm Dilthey notava che in tutte le epoche storiche del pensiero vi sono stati momenti nei quali sono intervenute modificazioni a tal punto profonde e radicali che le mutate condizioni d’esistenza non si lasciavano più comprendere alla luce dei sistemi vigenti¹⁰: è in questi periodi di metamorfosi del pensiero che sorgono nuove forme di filosofia, le quali, rinunciando alla prospettiva sistematica e onnicomprensiva, manifestano un soggettivismo attento al problema dell’esistenza; e nel novero di queste filosofie, alle quali dà il nome di «filosofie delle vita», Dilthey non esita ad ascrivere quelle dell’Età ellenistica, con particolare attenzione per lo Stoicismo e per Epicuro. E, prima di Dilthey, già Karl Marx aveva messo in luce come, per quel che riguarda la storia delle idee, dopo i grandi sistemi (quelli di Platone e Aristotele nell’antichità e quello di Hegel nell’Età moderna) che imprigionano nelle loro categorie astratte la realtà, sorgono puntualmente forme di pensiero che, più modestamente, sottopongono al centro della loro riflessione il reale e il problema dell’esistenza¹¹, scendendo dal cielo alla terra.

    Questo mutato punto di vista che si ha con la filosofia ellenistica dev’essere sicuramente messo in relazione anche con la particolare situazione storica che la Grecia del IV secolo a.C. stava vivendo: dopo le grandi conquiste di Alessandro Magno, l’uomo greco si trova proiettato in un mondo senza confini, che spazia dall’Ellade all’India e all’Egitto e, dinanzi a questo universo sterminato e caotico, il cui baricentro non coincide più col rassicurante perimetro dell’άγορά cittadina, egli prova un misto di fascino e sgomento; e se da un canto non può non sentirsi cittadino del mondo, di cui coglie, al di là dei diversi costumi vigenti presso i diversi popoli, l’unità strutturale, dall’altro tende ad arroccarsi entro se stesso e a cercare nella propria interiorità l’equilibrio smarrito sul piano esterno, facendo del proprio interno la fonte più sicura di ogni certezza; in questo senso, è stato rilevato che «il mondo alessandrino è la vera patria dell’Epicureismo»¹².

    Per poter trovare in sé la fonte di un armonico equilibrio, il greco si vede costretto a sostituire agli antichi valori collettivi tipici della πόλις, quelli più legati alla sfera individuale. In tal modo, cosmopolitismo e individualismo finiscono, paradossalmente, col coesistere in quanto manifestazioni ad un tempo opposte e complementari della stessa condizione spirituale: come i Greci si trovavano improvvisamente proiettati in un mondo senza confini e a tale sconfinatezza rispondevano ripiegando sulla propria interiorità, così gli Stoici si proclamano a gran voce cittadini del mondo, rivendicando una cittadinanza che si spinge ben al di là del recinto chiuso della πόλις classica, mentre Epicuro riconduce l’esistenza umana a una sfera più genuinamente individuale e appartata, pur riconoscendo nell’amicizia, e dunque nella convivenza coi propri simili, il bene supremo: ma anche l’individualismo epicureo, come vedremo, non rinuncia certo all’universalità, nella misura in cui si pone come messaggio rivolto a ogni uomo del mondo.

    La domanda fondamentale a cui la filosofia, in questa specifica temperie storico-culturale, è dunque tenuta a rispondere è la seguente: come ci si deve comportare in un tale contesto politico, culturale e sociale? Che atteggiamento assumere per poter essere felici?

    Le risposte avanzate variano non solo a seconda della scuola filosofica di riferimento, ma anche da pensatore a pensatore della medesima scuola. Al di là del ventaglio di risposte fornite, quel che è certo è che tutti i pensatori di quest’Età concepiscono la mèta etica che si prefiggono in termini per lo più negativi: chi come assenza di turbamenti, chi come assenza di passioni, chi come assenza di dolore. Ma se l’obiettivo da raggiungere è l’assenza di turbamenti, di passioni o di dolore, ciò significa che,

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