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La follia dall'antichità al nostro tempo
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La follia dall'antichità al nostro tempo
E-book512 pagine7 ore

La follia dall'antichità al nostro tempo

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Info su questo ebook

La follia è un esilio dalla Storia, quindi esiste solo da quando è presente nella società umana la legge dei padri. Le varie civiltà l’hanno letta in modo diverso, vi hanno dato un’interpretazione demoniaca partita già dalla mitologia me- sopotamica, passata ai semiti e purtroppo arrivata in Europa col Cristianesimo. I Greci e i Romani videro nei folli o malati mentali dei portatori di un messaggio divino, da interpreta- re ma non da condannare. Le due mentalità si scontrarono, ma con la caduta dell’Impero Romano l’impostazione semita ebbe la meglio, supportata dalla Chiesa che voleva il demo- nio, producendo episodi cruenti come la caccia alle streghe e poi la reclusione perenne nei manicomi dei diversi. L’Illu- minismo cominciò a segnare un cambiamento di lettura del malato mentale. Ma solo nel XX secolo la psicoanalisi inter- pretò atteggiamenti diversi dal normale come prodotto di un inconscio turbato. Nella seconda metà del ’900 i diversi, detti folli, in alcuni Stati, come l’Italia, incominciarono a essere assimilati alle persone normali, con ruoli ad essi confacenti.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2024
ISBN9791223009727
La follia dall'antichità al nostro tempo

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    Anteprima del libro

    La follia dall'antichità al nostro tempo - Ferruccio Orusa

    - 1 -

    Perché la follia?

    Credo sia opportuno, anzitutto, considerare che questa patologia investe solo l’umanità, non gli animali dotati di semplice istinto. Il comportamento di ogni individuo appartenente alle specie animali che agiscono in senso etologico è simile, se non identico, in ciascuno di essi, risponde ad impulsi che non variano col tempo e rendono omogenee la razza o la specie. Le diversità sono indotte da mutamenti genetici più o meno favorevoli all’ambiente diverso, determinando una selezione naturale meccanica. Tali mutazioni sono ereditate dalle generazioni successive. Negli animali possono esserci danni fisici o celebrali che alterano il comportamento del singolo individuo; quando non ne provocano la morte ma ne rendono difficile la sopravvivenza, determinano comportamenti che tuttavia permettono al singolo di ritornare al gruppo o, per selezione naturale, lo portano ad essere più facile preda di altre specie.

    Fatti comuni questi anche a quella umana ma più o meno dannosi, se la civiltà è più esigente o se la pietà ha saputo fornire di strutture adeguate il contesto sociale. Non sempre la legge del padre nella famiglia è acquisita con fermezza, a volte si determinano conflitti, invidie che tendono ad emarginare i più deboli, come esseri portatori di un degrado che non la nobilita, sui quali si focalizzano i cattivi sentimenti vissuti. Nel genere umano all’interno delle varie specie succedutesi nei tempi o nelle razze presenti oggi, il cambiamento può essere prodotto da fattori genetici ma, essendo esse una specie evoluta, dotata di strutture sociali, e soprattutto organizzate intorno alla famiglia, da questa soprattutto derivano differenze psicologiche e fisiche notevoli che realizzano l’individuo, differenze che non figurano nel branco delle bestie allo stato brado.

    Questi rapporti peculiari della nostra specie, se ben impostati, portano allo sviluppo della civiltà, ma se gestiti malamente, già all’interno della famiglia, producono perversioni psicologiche e perdita del principio di realtà, quindi esilio dalla Storia. Ci sono individui diversi per carattere, soprattutto poiché è mononucleare. Dico soprattutto poiché già in una famiglia nella quale il padre era presente come autorità, ma la madre aveva un ruolo più determinante di quello che oggi ci appare, ovvero in una società che si reggeva sulla caccia e sulla raccolta spontanea di frutti, come quella presente nel Nord America ai tempi delle esplorazioni e delle conquiste da parte degli Spagnoli, dei Francesi, dei Portoghesi e degli Inglesi, tale diversità già esisteva. Ma la struttura familiare non comportava da parte dei figli tensioni con l’autorità patriarcale. Il legame tra madre e padre non era così vincolante ed il nome del padre verso i figli non era così autoritario. Anche nell’Africa subsahariana erano e tuttora sono presenti società con strutture familiari e sociali semplici, nelle quali non è ben chiaro di quale genitore sia il ruolo predominante. Esse sono più che altro un grande agglomerato parentale.

    Prima delle civiltà mediterranee, risalenti a 5.000 anni fa, anche in Europa era così. Comunque il passaggio da una società etologica ad una civiltà etica comporta in primo luogo il sopravvento della pulsione sull’istinto. Nell’individuo che deve accedere alla civiltà tale passaggio è d’obbligo: già dopo i primi due anni di vita il fanciullo scopre l’autorità legislativa all’interno del nucleo familiare che gli vieta il principio di piacere diretto con la madre, e lo induce alla sublimazione di esso nella pulsione, ovvero nel trasferimento di soddisfazioni alla conoscenza e conquista del mondo circostante.

    Per precisare la differenza tra concetto d’istinto e di pulsione, è necessario riprendere la definizione che ne dà il dottor Freud, definendoli un rappresentante tra il fisico e lo psichico, che raccolgono gli stimoli che arrivano dall’interno del corpo, motivati da impulsi esterni, che li trasferiscono alla psiche. Sono composti da quattro parti fondamentali: fonte, spinta, oggetto, meta. Per spinta s’intende l’elemento motorio di queste, la somma di forze e la misura delle operazioni richieste che essa rappresenta. La meta è il soddisfacimento che può essere raggiunto sopprimendo lo stato di stimolazione alla base. Oggetto è l’obiettivo al quale si giunge per il soddisfacimento. La fonte corrisponde al desiderio, al bisogno provato e conseguito. Anche nell’istinto quindi esiste un altro cui accedere, ma è un piccolo altro, solo per la soddisfazione del piacere, non legislativo come sarà per la pulsione quando il piccolo essere umano conoscerà l’autorità legislativa del padre e dovrà trasferire progressivamente la propria fonte del piacere dalla madre alla conoscenza del mondo circostante, secondo le modalità che il padre col simbolico insegnerà al figlio.

    La pulsione, presente negli umani, imposta la soddisfazione dei bisogni primari, poiché proviene dalla psiche che la sa elaborare in funzione di questi bisogni con la madre o Altro, ma a differenza degli animali, deve fare i conti con un grande Altro, che nel mondo animale, non dotato di famiglia patriarcale, non esiste. Il grande Altro è l’autorità che, nella famiglia, nega la fonte del piacere primario ai bambini, intorno ai due anni di vita, ed imponendo tale legge ne va formando poco per volta la coscienza. Così l’individuo si sente progressivamente staccato dalla madre, con la quale pensava di fare una unità sola. Desiderandola, richiedendola dopo il primo anno di vita esprime la parola. Ma quando questo apprendimento della parola si verifica avviene progressivamente la percezione del proprio corpo diverso da quello della madre. Vedremo con Lacan l’esperienza dello specchio.

    Se la legge del padre non è accettata, o se il rapporto di piacere con la madre non è stato sufficientemente gratificante, si incorre in qualche forma di follia. Ecco perché questa è propria dell’umana specie, proprio perché la famiglia patriarcale è privilegio degli umani. Per tale ragione ho pensato bene di separare il mondo degli umani da quello dei semplici animali, dove non esiste la follia.

    Sono da tenere in grande considerazione le capacità fisiche e neurologiche della nostra specie nell’acquisire, nel gestire e formulare in modo articolato il linguaggio proprio per possedere il mondo. Anche i particolari, che con l’avanzare della civiltà si fanno più complessi, richiedono capacità di adeguamento cerebrale al ritmo evolutivo delle tecniche, selezionando ed emarginando coloro che in un contesto più semplice si sarebbero potuti inserire, quindi rischiano la marginalità e stati di depressione. L’evoluzione ha permesso un adeguamento progressivo all’ambiente col linguaggio e attività manipolatorie, capacità già precedenti nella specie ma ulteriormente sviluppate. Pertanto senza la parola l’homo non sarebbe Sapiens ma solo habilis. Purtroppo più è Sapiens come specie maggiormente corre il rischio di far incorrere nella follia alcuni del proprio gruppo, proprio perché si incorre in essa quando si è incapaci di organizzare o possedere il mondo circostante col simbolico o linguaggio.

    Non è semplice il percorso che il bambino deve compiere uscendo da un tutt’uno con la madre, dal grembo materno dopo la nascita, percorrendo i primi due anni di vita, per acquisire la coscienza di una sudditanza verso l’autorità del padre nella famiglia, che poi diverrà il referente di tutte le autorità, che ne saranno sintomi e che incontrerà nella società o civiltà evoluta.

    La pulsione di vita può essere sovrastata dalla pulsione di morte, per vicissitudini personali, soprattutto per cattivi rapporti vissuti dal soggetto coi genitori dai quali è educato.

    Di qui la follia. Ovvero la pulsione di vita, il desiderio al soddisfacimento del piacere, può essere inibita, quindi nel soggetto emergono caratteri sadici e masochistici, con atteggiamenti di aggressione verso il mondo, che si pensa avaro, fonte di perenne delusione, con allucinazioni e paranoia. Oppure la mancanza di affetto primario determina un narcisismo salvifico, ovvero la persona cerca di salvarsi nell’immaginario, non sapendo bene in chi identificarsi, creandosi un mondo a propria immagine e somiglianza riparandosi da temuti pericoli, rifiutando successivamente ogni offerta di piacere. In casi come questo rimane anche il problema dell’identificazione sessuale. Il rifiuto, la freddezza, l’indifferenza, che, se ritualmente ripetuti, lasciano frustrazioni, fobie, coazione a ripetere, azioni inutili e deleterie, rituali, sudditanze. Tutti indici di atteggiamenti rabbiosi per rifiuti ricevuti, tendenze all’esclusione dalla vita sociale, malinconia, odio, paranoia, psicosi, follia.

    Già il poeta romantico Nicolò Foscolo, detto Ugo, si rese conto dell’importanza del culto della famiglia e della società patriarcale per la formazione di una persona sana. Infatti così descrive nel carme I Sepolcri dai v.v. 91 ai v.v. 103:

    Dal dì che nozze e tribunali ed are

    Diero alle umane belve esser pietose

    Di sé stesse e d’altrui, toglieano i vivi

    All’etere maligno ed alle fere

    I miserandi avanzi che Natura

    Con veci eterne a’ sensi altri destina.

    Testimonianza a’ fasti eran le tombe,

    Ed are a’ figli; e uscìan quindi i responsi

    De’ domestici Lari, e fu temuto

    Su la polve degli avi il giuramento:

    Religïon che con diversi riti

    Le virtù patrie e la pietà congiunta

    Tradussero per lungo ordine d’anni.

    La follia, quindi, non è una degenerazione fisica di cellule organiche del tessuto nervoso, ma è soprattutto determinata da noncuranza d’affetti subita, oppure da trasgressione delle leggi impartite nel mondo familiare, quand’esso è mal gestito, così da creare ansia o angoscia. L’antipsichiatria contemporanea ha infatti dimostrato che si nasce psicologicamente sani ed i folli non hanno lesioni celebrali. Tutto un insieme di comportamenti diversi, assunti dal soggetto, definiti come patologici, in grado da procurare disturbo, o sofferenza, al portatore degli stessi come a chi sta loro di presso. Era già presente nell’antichità, quando la famiglia stava incominciando ad avere delle regole morali che andavano mutando in funzione dei modelli di produzione. Ne è testimonianza il mitico scontro tra Caino e Abele, anche se esemplifica solo lo scontro tra civiltà sedentarie e società transumanti. A differenza degli animali, cosiddetti feroci, carnivori che per sopravvivenza si nutrono degli altri erbivori o anche carnivori meno dotati, assumendo atteggiamenti propri della loro specie, solo per la soddisfazione dell’essere non per il superfluo, gli umani sovente si comportano in modo crudele verso i propri simili non per bisogno di sopravvivenza, ma per patologie acquisite, non volute, da un’educazione che ha lasciato nel loro carattere paura verso il diverso, verso il mondo e li induce a comportamenti sadici verso i deboli, facili ad essere offesi, per sensi di colpa dovuti a peccati mai commessi. Frutto solo di cattiva educazione.

    Negli animali, quindi, non è crudeltà, non piacere di procurare sofferenza, è semplicemente bisogno e capacità di avere il necessario per l’essere, non per l’avere. Tale atteggiamento è destinato al vivere quotidiano, alla sopravvivenza, per la propagazione della specie, non all’accumulo di ricchezza, per lo sfruttamento indiscriminato di altri al proprio profitto. Anche tra le specie o razze umane che si affacciarono sulla Terra nei millenni passati e una dopo l’altra si sostituirono per capacità superiori, ovvero per abilità delle quali le precedenti non erano dotate, secondo gli antropologi non vi fu un conflitto, come negli ultimi millenni abbiamo dovuto assistere nella Storia, tramandati da poemi, da annali, da Historiae di vari autori e poi ancora da documenti ben più precisi nei secoli o decenni scorsi. Questo bisogno della sopraffazione, dettato dalla follia, cioè dalla volontà di avere senza prendersi cura degli altri, perché è intrinseco dell’Homo sapiens e non fa parte delle specie precedenti?

    - 2 -

    Testimonianze del formarsi della follia

    nelle società antiche

    L’archeologia rupestre ha ormai ben evidenziato come cerimoniali, rituali, lavacri e altri atti ripetitivi, più o meno simbolici, compaiano molto precocemente nel comportamento dell’Homo sapiens, sicuramente fin dal Neolitico. Infatti, l’analisi dei dipinti delle grotte di Lascaux e di Altamura come pure lo studio dei graffiti della valle delle Meraviglie sopra Tenda e i più tardivi della Val Camonica indicano come sussista una interdipendenza tra i simboli magici o mistici rappresentati e la psicologia di chi li ha dipinti o li vive da spettatore. Rappresentare immagini della Natura nella quale solitamente si vive significa già prenderne le distanze, ovvero realizzarla come un Altro da sé. Come un bambino che si stacca dalla madre con la parola. Praticamente queste raffigurazioni o manufatti dimostrano che l’individuo non si vive più immerso nella Natura ma, con il sistema che organizza la sua vita, la produzione, il sistema sociale, le gerarchie di comando, si è venuto a stabilire un ordine voluto dall’uomo. Per comunicare in questi sistemi è necessario il linguaggio e queste rappresentazioni ne dimostrano l’esistenza. A queste immagini si attribuiscono ancora proprietà divinatorie, capaci di influire sul destino della comunità, data la povertà di tecniche umane ancora primitive. Abitudine rimasta ancora viva fino ai decenni scorsi e per alcuni forse tuttora. Noti sono i vudu, o statuine rappresentative di persone sulle quali esercitare in modo magico maledizioni. Riti questi ancora in uso solo pochi secoli fa in Europa.

    Tutte le civiltà seguenti, da quelle sumeriche, babilonesi, egiziane, romane e via così furono impregnate di tale abitudine, che solo con l’Illuminismo andò notevolmente attenuandosi o quasi scomparire. L’indulgenza divina, per essere ottenuta, richiese sempre capri espiatori o sacrifici collettivi. Lo sappiamo dalle tristi abitudini dei sacrifici dei primogeniti presso i semiti o altre popolazioni indoeuropee. Tali necessità derivate da presunti peccati che avrebbero procurato modalità coercitive nel corso dei secoli, riproducendosi nelle generazioni fino al momento in cui la ripetizione compulsiva dell’evento doloroso troverà una risoluzione liberatoria nell’indulgenza divina o sostituendo il primogenito con un animale. Infatti presso gli Ebrei verrà sostituito un capro, quest’ultima abitudine è ancora in uso presso i musulmani ossequienti al Corano, che rigorosamente sacrificano un agnello nella data di Pasqua. Presso i Greci famose furono le ecatombi o i sacrifici delle vergini narrate anche da Omero. A Ifigenia, figlia di Agamennone, che doveva essere sacrificata perché le navi achee potessero partire alla volta di Troia, Artemide sostituì una cerbiatta. Anche in Africa nella Repubblica Sudafricana ed in America nel Perù sono state rinvenute in questi anni fosse comuni con evidenti significati di riti espiatori, probabilmente per redimersi da misfatti da cui erano derivate malattie infestanti, carestie, o altre calamità naturali, vissute come castigo divino.

    La religione, ovvero la sottomissione ad una autorità terrena o trascendente, implica un cerimoniale sovente capace di soffocare la persona, senza però che questa se ne accorga, proprio perché disposta a farsi annichilire per sensi di colpa. Questa si può definire una nevrosi ossessiva, tendente all’autopunizione per un reato mai commesso ma solo desiderato. Come il complesso edipico, presente solo nella civiltà patriarcale.

    Lo sviluppo patologico della nevrosi ossessiva è direttamente riconducibile ad un insolito rifiuto della pulsione di vita, pulsione espressa dal soggetto che riceve un rifiuto dal mondo esterno, già in famiglia, agenti questi che predispongono a un’elevata irascibilità dell’offeso, e che determinano la formazione di un senso di colpa inconscio, come dire che cosa ho fatto per meritarmi questi rifiuti ripetuti?. In natura infatti non esistono motivi per tale rifiuto. La richiesta del beneficio o del benessere dal genitore e il diniego di tale soddisfazione, è già di per sé potentemente traumatico, soprattutto quando avviene durante le prime fasi della educazione, è terreno fecondo per l’insorgere di una nevrosi ossessiva, con la coazione a ripetere e di una insoddisfazione perenne, inducendo una strategia autopunitiva. Il soggetto traumatizzato si crede in colpa per il piacere negato e continua a punirsi. Lo scontro conduce quindi ad elaborare molto precocemente schemi espiatori di un peccato mai commesso, certo solo desiderato: l’accesso alla madre, negato dal padre. Questa è nevrosi poiché si vorrebbe eludere la legge del padre.

    - 3 -

    La follia nel Medioriente

    In una primitiva religione elohista, varie divinità come Astarte e Baal accompagnarono il popolo ebraico nella fusione col monoteismo mosaico che richiedeva un solo principio creatore ed organizzatore dell’universo. Tracce di questo politeismo sono state ritrovate dagli archeologi nelle case degli Ebrei ritornati dall’Egitto. A queste divinità si unirono anche quelle della religione babilonese, con la quale il popolo ebraico venne a contatto durante il periodo di cattività. Non solo, ma su di essa ebbe influenza quella di Zarathustra che poneva la dualità dei principi divini in Angra Maynu, spirito del male ed Ahura Maynu, spirito del bene. Anche se poi il monoteismo mosaico fu ripristinato, mettendo per iscritto la storia del popolo di Israele presumendo che la religione mosaica sia sempre stata propria del popolo ebraico. Questo su iniziativa dei sacerdoti, ed essa oggi prevale.

    Nel monoteismo mosaico non si parlò di giudizio universale, solo nell’Avesta di Zarathustra questo comparve, e lo ritroviamo nel Nuovo Testamento, con caratteristiche diverse più drammatiche, in uno scritto che non tutte le religioni cristiane condividono, l’Apocalisse dell’apostolo Giovanni. Dall’esperienza babilonese derivò la nuova figura dello spirito del male che possiede i diversi, i folli e li fa vivere come posseduti dal demonio. La religione semita condivide che lo spirito del male si impadronisca della persona, ma pone il giudizio del soggetto come possibilità a resistere a tali spiriti anche inviati da Dio.

    I significati per il termine follia si devono ricercare nella lingua greca e latina, già con radici sanscrite, e si ritrovano nella parola follis, che significa in greco mantice, ed in latino borsa vuota, da cui testa vuota, che prosegue con significati analoghi nel provenzale ed in italiano. Dato l’andamento che il sacco vuoto o folle assume, il termine è usato per denominare strumenti meccanici come il follone, che nelle concerie si muoveva in modo irregolare per battere la canapa o la lana, onde rendere facili alla lavorazione le fibre della materia prima per la filanda. La dementia è, invece, di facile interpretazione, poiché indica un declino delle capacità mentali, una mancanza progressiva della mente. L’insania, parola molto semplice, esprime la mancanza di sanità mentale. La mania deriva dal verbo greco mainomai, che significa mi agito, m’infurio. Anche il termine matto ha radici indoeuropee, risalenti al sanscrito madu, che ritroviamo poi nel greco mataios che significa vuoto, vano, quindi nel provenzale matau ed in italiano nel significato che conosciamo.

    La mania, nell’età moderna, è considerata uno stato di esilio dal controllo della normalità. Quindi, in psicologia, psichiatria e nel senso comune il termine follia denota una condizione psichica, nella quale il soggetto si viene a trovare con disadattamento nei confronti dell’ambiente di vita, dimostrati con il suo comportamento, manifestato nelle relazioni interpersonali e gli stati psichici ed emotivi alterati. Ma questa situazione può realizzare condizioni d’integrazione diverse nella società circostante, dato il grado di maggiore o minore alterità, ed il contesto sociale in cui si viene a trovare. Oggi è, infatti, considerato folle qualcuno che nell’età classica fu, invece, normale o privilegiato. Come nel Medioevo, la caccia alle streghe fu un’usanza che dall’Illuminismo andò a perdersi, mentre il diverso subì un’emarginazione accentuata nell’età moderna, per riprendere toni di dignità umana o apparente normalità nel secolo scorso. Ovvero il concetto di follia è un prodotto dovuto alla cultura del momento storico, non oggettivo.

    Diventa necessario considerare le ragioni del contrasto tra la cultura semita e quella classica sull’interpretazione o diagnosi della follia, soprattutto perché, dopo la caduta dell’Impero romano, avendo preso potere temporale la Chiesa cristiana o cattolica, i diversi o indemoniati incominciarono ad essere trattati con diffidenza. Coloro che dalla cultura classica erano sopportati o addirittura visti portatori di un messaggio divino e quasi privilegiati rispetto ai normali, qui incominciano ad essere emarginati. Non dai veri cristiani, non dai Concili ma dai falsi propagatori di una nuova religione che si rifaceva a credenze mediorientali, che andarono a fomentare le masse alla caccia verso le streghe o i posseduti dal demonio secondo Codici inventati di sana pianta, passati come prodotti dei primi Concili ecumenici. I semplici di spirito furono invece privilegiati, come figura nelle Lettere di Paolo di Tarso. Vedremo a suo tempo il problema, ora consideriamo solo le radici di tale ideologia.

    Si sapeva già che nella cultura classica queste figure esistevano, ma solo grazie ad un ritrovamento di circa 30.000 tavolette compilate da esperti al servizio del re assiro Sardanapalo (669-626 a.C.), provenienti dalla biblioteca scoperta a Ninive nel 1841 ad opera di Henry Layard, si è potuta intuire la concezione della salute e della malattia presso tale civiltà in quel periodo. Così pure si sono potute intendere le tecniche mediche utilizzate da guaritori professionali. Di tutte queste tavolette circa 800 sono specificamente dedicate alla medicina, e tra loro si trova la descrizione della prima ricetta conosciuta. Interessante è la concezione soprannaturale della malattia, interpretata come un castigo divino imposto da diversi demoni, praticamente una sanzione morale. In quest’ottica la prima cosa che doveva fare il medico era stabilire quale, tra circa 6000 demoni, quello che causava il problema. Per questo utilizzavano tecniche divinatorie basate sullo studio del volo degli uccelli, osservavano la posizione degli astri per verificare se vi fossero incroci tra gli stessi che portassero sfortuna, oppure consideravano il fegato di alcuni animali sacrificati, onde vedere quali malattie o reazioni in esso si potevano notare. Praticamente la follia era interpretata come un castigo per un peccato, un’impurità morale, che aveva scatenato l’ira divina. Qualsiasi divinità poteva provocare le infermità mediante intervento diretto, l’abbandono dell’uomo alla sua sorte, o attraverso incantesimi eseguiti da stregoni. Durante la cura, tutte queste entità superiori potevano essere invocate e richiamate tramite orazioni e sacrifici per ritirare la loro influenza nociva e permettere la cura dell’uomo infermo. La diagnosi includeva inoltre una serie di domande rituali per determinare l’origine del male.

    Curiosa la seguente che vuole indagare nevrosi o contrasti con l’autorità familiare, da rispettarsi per la sana crescita della persona, e per verificare il corretto comportamento del paziente nella collettività: Ha avuto contrasti il padre contro il figlio, oppure il figlio contro il padre? Ha mentito? Ha ingannato sul peso della bilancia?. In queste domande su probabili conflitti familiari si vede che si dà già importanza all’origine di eventuali traumi psicologici derivati da conflitti con l’autorità familiare.

    Anche i trattamenti non sfuggivano a questo padronato culturale: esorcismi, preghiere ed offerte sono rituali frequenti che cercano di ingraziare il paziente con la divinità o per liberarlo dal demonio che è in agguato. Ma anche degno di nota è una collezione importante di erbe raccolte in diverse tavolette: circa duecentocinquanta piante curative si riflettono in loro, così come l’uso di alcuni minerali e diverse sostanze di origine animale. Come avverrà nei monasteri medioevali. Come per esempio con l’elleboro, il giusquiamo, la mandragola, la belladonna, l’oppio ecc. Nonostante ciò, nella maggior parte delle culture antiche, anche in diverse di quelle odierne, i folli non erano classificati come dei malati e la causa dei loro squilibri mentali non era somatica, ma spirituale: possessione demoniaca, maleficio o violazione di un tabù. La cura era affidata ad uno stregone-esorcista e all’intera collettività che s’impegnavano nella purificazione e nella reintegrazione del malato spirituale nella comunità

    Così anche l’ebraismo, essendo venuto a contatto durante l’esilio a Babilonia con questa scuola di pensiero e con la religione di Zarathustra, subì queste influenze sulla lettura della follia che trasmise al Cristianesimo. Si pensò, infatti, che il maligno attentasse alla salute delle anime degli uomini già qui sulla Terra. Così con quest’ultima religione che si diffuse nel Mediterraneo, nelle sue varie correnti, avvenne che i malati di mente assumessero il significato di posseduti dallo stesso, in alcuni casi si pensò che non avessero avuto le capacità di resistergli. Ci fu incertezza se attribuire responsabilità, disponibilità o meno da parte del posseduto nel farsi irretire dalle trame del male. Ma col tempo il giudizio gravitò sulla responsabilità del soggetto. E tale rimase nella mentalità popolare fino all’età moderna, anche i Concili già dall’età medioevale si pronunciarono per una libertà di giudizio del soggetto nei confronti del demonio provocatore.

    - 4 -

    La follia nella Grecia antica

    Al tempo di Omero si pensava alla psiche come ad un respiro di vita, ad una forza quasi palpabile che fa vivere l’uomo. Lo dice la stessa parola greca, ψυχή, onomatopeica in sé poiché si pronuncia come un soffio, un soffio vitale. Si riteneva che le passioni di cui gli eroi erano portatori, per esempio l’ira di Achille, fossero indotte temporaneamente dall’esterno, e come si manifestavano così svanivano con altrettanta facilità. Ovvero non erano un prodotto dell’uomo. Fu infuso ad Achille, dalla divinità, il coraggio per combattere contro i troiani; fu elargita dagli dei la fedeltà a Penelope che non volle risposarsi, pure a Telemaco fu donata l’audacia quando, per la prima volta, parlò coraggiosamente contro i Proci per opera della dea Atena, e quando lo stesso si oppose ai pretendenti del trono del padre. Questo anche perché gli eroi si differenziarono dalla massa come semidei.

    Nei poemi omerici anche nella stessa mitologia o politeismo le passioni agitano le divinità. Gli dei descritti da Omero, da Esiodo o da altri, si comportano come comuni mortali. In essi la divinità consiste solo nell’immortalità, proiezioni infantili della potenza delle figure genitoriali. Anche nella Bibbia i sentimenti agitano il Dio che gli Ebrei vorrebbero unico ed incorruttibile, ma che si rivela già nei primi libri un padre terribile e sanguinario. Nella mitologia greca e romana solo le Parche, che scandiscono il tempo per i mortali, possono decidere in modo autonomo, indipendentemente dal parere di divinità. Forse figure che, pur dinanzi all’onnipotenza dei genitori, possono decidere sulla vita e morte dei parenti lasciando negli astanti sentimenti di cordoglio.

    Queste esperienze che il bambino vive sono ben rappresentate come divinità. In latino Parcae, nella mitologia romana, sono il corrispettivo delle Moire greche, assimilabili anche alle Norne norrene.

    Esse, figlie di Zeus e Temi, la Giustizia, stabilivano il destino degli uomini. Furono assimilate alle Moire (Cloto, Lachesi ed Atropo) e divennero le divinità che presiedono al destino dell’uomo. La prima filava il filo della vita, la seconda tessendo dispensava i destini, assegnandone uno a ogni individuo, e la terza, l’irremovibile, tagliava il filo della vita al momento stabilito ovvero ne stabiliva la durata. Le loro decisioni erano irremovibili, neppure gli dèi potevano cambiarle. Venivano chiamate anche Fatae, ovvero coloro che presiedono al Fato, dal latino Fatum ovvero destino, responso da fari, verbo latino che significa dire. Il personaggio in questione è totalmente sovrannaturale, cioè non ha nulla di umano se non l’aspetto. Il termine fata deriva appunto da Fatae, l’altro nome latino delle Parche. La fata è un essere magico, una sorta di spirito della Natura.

    Sotto queste divinità, pur con sentimenti che le parificano agli umani, si muovono gli eroi protagonisti dei poemi, come pure il popolo che non aveva ancora nome, e si trovava immerso in una scarsa percezione di sé stesso. Gli individui che lo compongono non si distinguono, sono un volgo disperso che nome non ha, che segue le regole ben precise di chi lo comanda, come folla operosa alla costruzione della vita sociale, anche di città, della civiltà, ignorandone il valore, suddito dei potenti. Siamo ancora, infatti, al tempo degli eroi, dei re, del poema di Gilgamesh, dei primi libri della Bibbia, tramandati oralmente, o dell’Avesta o dei poemi classici greci, dell’Iliade o dell’Odissea, non ancora dell’Eneide dove, tuttavia, la situazione sarà simile.

    Tutto ciò che di più insondabile e oscuro si agita nell’anima di un essere umano fu, infatti, tra i temi centrali della tragedia, o del capro espiatorio, che ricorda il rito di uccisione dell’agnello al posto di Isacco per sacrificio a Dio, da parte del padre Abramo. O già prima Abele che sacrificava gli agnelli a Iddio, per riconoscenza. Il termine greco trago(i)día deriva dall’unione delle radici di capro, trágos, e canto, odé, e significherebbe dunque canto dei capri, in riferimento al coro dei satiri, o canto per il capro. L’esigenza di tali sacrifici da parte degli abitanti dei villaggi greci come delle tribù semite, portati avanti dai Cartaginesi, sui primogeniti, sino alla conquista dei Romani, è dovuta ad un senso di colpa verso il padre, per aver dato luogo ad una nuova famiglia. La donna sposata è il sintomo della madre e, pertanto, il legame affettivo rimane col senso di colpa e l’antagonismo da espiare. L’ira terribile delle divinità, soprattutto semite, condiziona il comportamento del popolo.

    Nella tragedia greca la situazione non è diversa, il timore del dio chiede espiazione. Il termine tragedia significa dunque canto dei capri, essi sono attori mascherati da capri, che sarebbero da intendersi come primizia da offrire, come bene del quale l’uomo si priva in un momento sacro, quando venga offerto al dio stesso come vittima sacrificale, per ingraziarsi la divinità o farsi perdonare. E si ricordi che il capretto è animale sacro a Dioniso, che esso sia premio consegnato al vincitore dell’agone tragico che si svolgeva durante le feste in onore di Dioniso.

    La comunità del villaggio, come nella commedia che significa appunto canto del villaggio, Kome odé, raccontava i propri conflitti emotivi sul palco, sulla piazza davanti alle icone sacre, rappresentanti di capostipiti della famiglia o simboli che la rappresentavano, come verrà a realizzarsi anche nel Medioevo e nel Rinascimento, per il desiderio araldico espresso nella poesia cavalleresca. Quest’ultima sarà solo per i casati nobiliari, mentre per il momento religioso che stiamo considerando nella Grecia classica i totem delle famiglie erano tutti rappresentati. Anche gli antenati meritano devozione, forse perché le generazioni successive hanno osato andare oltre il loro insegnamento.

    In queste manifestazioni religiose collettive, che richiedevano al popolo e alle famiglie di prostrarsi all’autorità, per impetrare perdono, onde lenire i sensi di colpa verso i progenitori, recitando o confessandosi, si impone sottomissione di gruppo, un rituale come la messa cristiana di oggi. Questa sottomissione troverà risposta nelle divinità che allevieranno i patimenti subiti dalle popolazioni, ad opera delle Furie e delle Erinni. Così le singole unità familiari che vi partecipano ricevono benedizione e si acquietano nella pace interiore.

    Dopo gli eroi della Grecia classica, diversamente da come avvenne nella società semita, si andò verso l’organizzazione razionale dell’agorà, nella quale la critica, il discorso, le leggi, la partecipazione attiva alla polis, e soprattutto l’ironia socratica faranno emergere l’individuo come soggetto staccato dalla natura madre, diremmo in un rapporto sancito dal padre che, con la civiltà, mette da parte il pericolo dell’anonimato. Ma così non fu in Israele, anche dopo il ritorno da Babilonia, perché la partecipazione al potere fu sempre riservata a caste di eletti.

    La trasformazione in virtù dei moventi passionali dell’onore, dell’ira e della sublimazione degli istinti richiederà una lunga, complessa e controversa elaborazione, che troverà sbocco, in età periclea e successiva, in diverse manifestazioni del coraggio di espressione politica, tutte evidentemente legate ad un’intenzione di integrazione e di controllo delle pulsioni animose di omerica memoria. La specificità di questa sintesi di passioni, sotto l’egida della polis, sta nel fatto che esse siglano lo spazio affettivo in cui l’uomo antico si vede e si colloca in relazione agli altri. Esse incidono direttamente sul senso di sé e indirettamente sui moventi dell’azione sociale. Di qui deriva il concetto di uomo, diverso naturalmente da quello presente nelle monarchie mediorientali. Concetto che, appunto, non è quello semplicemente di specie, ma quello selettivo che concerne il tipo umano dotato delle caratteristiche sociali per aspirare al riconoscimento di valore dei suoi simili. L’etica degli antichi ha la sua prima matrice in questa esigenza di disciplinare l’animosità dei più forti, nel riconoscere i diritti degli altri alla partecipazione, limitare l’ira funesta, la passione irrefrenabile, e renderle funzionali alla dimensione relazionale e civile della polis.

    Di qui, a mio avviso, la ragione di una diversa lettura della follia, ovvero il concetto di uomo non è semplicemente un essere che si confonde nella massa e può essere preda di esseri malvagi superiori, ma è un cittadino dotato di una individualità, sintesi di passioni e di volontà personali che hanno dato un contributo alla Storia, pur nei suoi moventi oscuri che già Eraclito aveva riconosciuto.

    La scienza in Grecia pose sempre l’accento sul limite dello scibile umano, non fu mai dogmatica come la religione. Di qui la filosofia. Pure sul potere dell’inconscio ebbe dei riguardi, anche se su di esso non vi era ancora indagine psicologica, e dello stesso ebbe sempre timore e reverenza. Infatti, come scrisse Eraclito in un suo famoso frammento: Per quanto tu cammini per ogni via, i confini dell’anima non li troverai. Eraclito di Efeso in un altro frammento lascia scritto ho indagato me stesso, ciò sta ad indicare che la verità va cercata in primo luogo dentro di noi, perché l’uomo non è che una parte del tutto, come ogni cosa che ci circonda. Solo chi se ne è impadronito può dirsi saggio veramente; consapevole è quindi colui che abbandona il mondo ingannevole delle apparenze e impara a vedere nella propria anima, cioè a guardare il mondo con la ragione.

    La follia, quindi, fu una questione lasciata in sospeso, sulla quale la cultura classica non ebbe la presunzione di indurre il sospetto fosse opera del maligno. Alla cui iniziativa le religioni mediorientali come quella semita, soprattutto dopo l’esilio babilonese, ritenevano fosse da imputarsi. Questa diversità di punti di vista avrà conseguenze nei secoli e nei millenni a venire, fino ai giorni nostri.

    La civiltà greca cercava di possedere la realtà esterna e interna all’uomo, come abbiamo visto nel filosofo Eraclito, attraverso forme di racconto nell’ambito della letteratura e, a tale scopo, utilizzavano quel tipo particolare di narrazione che è il mito. Per Platone, come dirà nel dialogo intitolato Fedro, la nozione di follia, intesa come mania, andava oltre la dimensione della patologia: La follia è tanto superiore alla sapienza in quanto la prima viene dagli dei, la seconda dagli uomini.

    Ovvero la follia era una via di comunicazione con gli dei, come l’epilessia che sarà definita dai romani morbus sacer, strumento attraverso il quale l’Olimpo aveva da comunicare qualcosa d’importante agli umani. Platone indica che siano positive quelle che segnano una via privilegiata della comunicazione con le divinità, come l’estasi, la poesia, l’amore, che porta l’anima vicino alla sua vera natura.

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    L’amore e la follia

    L’amore è determinato dall’illusione di colmare un vuoto lasciato da una figura primaria, la madre, dalla quale il padre ci staccò, o dal padre a seconda del sesso del quale l’amante è portatore. Ma il reale che ci ha insegnato i rudimenti del linguaggio e che si deve abbandonare per accedere al simbolico rimane solo un vago ricordo, una traccia che ci ispira i sogni, l’arte, le passioni, i sentimenti e talora la follia se non sappiamo o possiamo accettare o accedere alla legge del padre.

    Omero non aveva posto ancora l’accento su ciò che sarà la psyché; che è un’idea che nascerà più tardi, con il pensiero orfico-pitagorico o i culti misterici, e sarà esplicitata con la filosofia di Platone. È questo un mondo irrazionale sul quale cala il mistero e solo i miti sanno darne una rappresentazione in chiave fabulistica. L’amore, come spiega Lacan, è una forma di psicosi, nel senso che il soggetto vive senza rendersi conto che l’altro ci sia, si appropria senza una legge del corpo dell’altra persona come fu nel rapporto primigenio con la madre, seppure in un’esperienza momentanea, cui segue una delusione poiché quel rapporto non si può ripristinare. Lo vedremo meglio nei poemi cavallereschi del Rinascimento, anche se nei poemi omerici Achille già ce ne ha dato un valido esempio nella sua ira funesta, che infiniti lutti addusse agli Achei.

    Quando l’eroe emerge dalla norma, staccato dal volgo, sono ancora da considerarsi le varie forme di passioni, che lo forgiarono già nel nucleo familiare, e ne prepararono le capacità d’azione ed i sentimenti che esibirà in pubblico, come protagonista. Si vedano le imprese e gli amori che vissero gli eroi assedianti la città di Troia. I grandi agirono per compiere gesta eroiche, ma sempre mossi da sentimenti, quindi la follia li tenne in pugno in momenti particolari, come sarà per tutti gli umani. Di queste gesta Omero parla molto e in diversi modi. La fanciulla desiderata, che fece andare in collera Achille contro l’Atride Agamennone, in un conflitto insanabile, fu Briseide. Nel primo libro dell’Iliade si narra che Criseide fu fatta prigioniera da Agamennone, re degli Achei, ed egli la volle come bottino di guerra rifiutandosi di restituirla al padre, sacerdote di Apollo. Il dio scatenò così una pestilenza tra l’esercito greco, per fermare la quale Agamennone fu costretto a rinunciare a lei; in cambio però pretese Briseide, schiava di Achille, atto che offese il guerriero a tal punto da indurlo a rifiutarsi di proseguire la guerra contro Troia. Di qui derivò un rovinoso declino delle forze achee di fronte a quelle troiane. Le sorti muteranno solo con la restituzione di Briseide.

    La mitologia e la religione classica ci hanno trasmesso dunque un’idea non malvagia della follia, con il compito per la scienza successiva di indagare un mondo misterioso che d’altronde, ancor oggi, è solo un abbozzo di conoscenze. Fu considerata solo il sonno della ragione, come il rifiuto di Achille a partecipare alla guerra dopo l’affronto subito, che infiniti lutti addusse agli Achei, molte anzi tempo all’Orco generose travolse alme d’eroi, e di cani e d’augelli orrido pasto lor salme abbandonò (così di Giove l’alto consiglio s’adempìa), da quando primamente disgiunse aspra contesa il re dei prodi Atride ed il divo Achille.

    Era anche un momento adatto per esplorare le manifestazioni estreme e inquietanti della natura umana, su cui ebbero da riflettere la filosofia e la religione pagana, ma su di essa trovarono argomenti anche la tragedia e la letteratura.

    Vedremo altri esempi di amore nei quali i personaggi perderanno il senno, dal Medioevo al Rinascimento all’età moderna.

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    Il peccato della conoscenza

    Nella mitologia greca, con significato analogo alla cacciata dal Paradiso terrestre per il desiderio della conoscenza del bene e del male, privilegio del padre, fu elaborato il mito di Pandora, che col suo vaso distribuì i mali su tutta la Terra per una punizione che investì l’umanità. Pandora in greco antico significa "tutto dono oppure tutti i doni": fu, infatti, creata su ordine di Zeus con un preciso scopo. Ciò avvenne, essendo il re degli dei infuriato perché Prometeo donò ai mortali, onde alleviarne le cure, il fuoco divino, dopo averlo rubato affinché essi potessero accedere alla conoscenza e alla civiltà. Zeus decise, allora, di punire lui e l’umanità. Prometeo, che significa colui che sa già prima, aveva plasmato l’umanità su suo ordine, ma non avrebbe però dovuto donarle il fuoco, giacché sacro, volendo Zeus mantenerla in umili condizioni. Per riaversi sugli uomini che erano stati dotati del fuoco che era loro utile sulla via del progresso, il re degli dei ordinò ad Efesto di creare una bellissima fanciulla, Pandora, alla quale gli

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