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1984
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E-book401 pagine6 ore

1984

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Info su questo ebook

Cura e traduzione di Enrico Terrinoni
Edizione integrale

È in questo celeberrimo romanzo che diventa espressione comune “Big Brother”, simbolo e sinonimo di un potere dittatoriale interessato al controllo totalitario dei sudditi. 1984 è l’ultima opera di Orwell (fu pubblicato nel 1949; l’autore sarebbe morto nel gennaio del 1950) e il suo classico per eccellenza. Romanzo distopico, vede la storia di una società futuristica e disumanizzata, rigidamente divisa in classi e dominata da un’ideologia perversa che sovverte i valori basilari della civilizzazione, come anche i cardini della comunicazione, primo tra tutti il linguaggio. È, paradossalmente, sia una visione apocalittica dell’evoluzione del socialismo agli occhi di un autore anarchico, sia una feroce critica di tutti i capitalismi, colpevoli di proporre propagandisticamente visioni distorte della realtà.
George Orwell
è lo pseudonimo di Eric Arthur Blair, nato in India da una famiglia scozzese nel 1903 e morto a Londra nel 1950. Giornalista culturale, saggista, critico letterario, Orwell è oggi considerato uno dei maggiori autori di lingua inglese del Novecento. Partecipò alla guerra civile spagnola contro Franco; da posizioni socialiste, passò in seguito a una dura critica del regime staliniano. La Newton Compton ha pubblicato 1984, La fattoria degli animali e il volume unico I capolavori (La fattoria degli animali; 1984; Senza un soldo a Parigi e a Londra; Giorni in Birmania; Omaggio alla Catalogna).
Enrico Terrinoni
è professore ordinario di Letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia. È autore della monumentale traduzione dell’Ulisse di Joyce, pubblicata dalla Newton Compton con grande successo di critica. Ha tradotto, tra gli altri, Muriel Spark, Brendan Behan, G.M. Flynn, B.S. Johnson, John Burnside, Miguel Siyuco. Collabora con «Il Manifesto». È autore di Oltre abita il silenzio, saggio “eretico” di teoria della traduzione.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9788822753397
1984
Autore

George Orwell

George Orwell (1903–1950), the pen name of Eric Arthur Blair, was an English novelist, essayist, and critic. He was born in India and educated at Eton. After service with the Indian Imperial Police in Burma, he returned to Europe to earn his living by writing. An author and journalist, Orwell was one of the most prominent and influential figures in twentieth-century literature. His unique political allegory Animal Farm was published in 1945, and it was this novel, together with the dystopia of 1984 (1949), which brought him worldwide fame. 

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    Anteprima del libro

    1984 - George Orwell

    La profezia della parola

    L’8 giugno del 1949 uscì per la Secker & Warburg Nineteen Eigthy-Four di George Orwell. L’autore sarebbe scomparso poco più di sette mesi dopo. Il libro, ora un vero bestseller, ottenne all’inizio recensioni non sempre entusiaste. A pochi giorni dalla pubblicazione, ad esempio, sull’«Observer» Harold Nicolson causticamente scrisse: «Non convince. Non possiede né la forza immaginativa di Brave New World di Aldous Huxley, né la logica autosufficiente di Animal Farm dello stesso Orwell» ¹. Su «Nation» Diana Trilling qualche settimana dopo commentò: «Nineteen Eighty-Four è un romanzo brillante e affascinante, ma la natura della fantasticheria su cui si basa è talmente definitiva e implacabile che io non riesco a consigliarlo, se non con qualche riserva», aggiungendo poi: «la descrizione di Mr Orwell di come funzioni la dittatura è estremamente ingenua» ². Bisognerà attendere il numero di luglio 1949 della «Partisan Review» per leggere che il romanzo di Orwell «è il miglior antidoto alla malattia del totalitarismo mai prodotto da uno scrittore» ³. Tuttavia, qualche mese più in là il noto storico e filosofo tedesco Golo Mann definì Orwell un «fanatico paladino della libertà individuale» e un outsider della letteratura inglese . Quest’ultima definizione di certo colse nel segno.

    Ma cosa avvenne in Italia? Quali furono le prime reazioni nel nostro Paese? Quando nel 1950 uscì, nella collana La Medusa di Arnoldo Mondadori Editore, la traduzione di Gabriele Baldini del suo ultimo romanzo, ovvero di questo testamento letterario e politico di Orwell, prontamente, sul numero di novembre-dicembre di «Rinascita», fu pubblicata una dura critica scritta di proprio pugno dal leader comunista Palmiro Togliatti, sotto lo pseudonimo di Roderigo di Castiglia . Il titolo è quantomai lapidario: Hanno perduto la speranza. L’argomentazione di Togliatti è tutt’altro che semplicistica, ma per certi versi pregiudiziale. A ben vedere, però, e col senno di poi, appare quasi in linea con molte risposte critiche future all’opera di Orwell, le quali, alla luce della renitenza atavica dello scrittore a farsi inquadrare in qualunque movimento o partito ufficiale, seppur rimanendo, com’è chiaro, all’interno del panorama della sinistra internazionale, hanno identificato nei suoi scritti una disillusione generale, un pessimismo e persino un disincanto verso l’idea stessa di rivoluzione.

    Quella rivoluzione in cui Orwell aveva creduto profondamente e sinceramente nei primi mesi spagnoli, e verso la quale aveva maturato un sentito scetticismo col protrarsi dell’esperienza al fianco delle forze repubblicane, era stata infine stigmatizzata in maniera allegorica, sarcastica, ironica e tagliente nella favola Animal Farm del 1945. E adesso, cosa aveva tentato di fare? Assestare un ulteriore colpo alle speranze del socialismo con questo suo romanzo finale? A distanza di settant’anni dalla morte dell’autore, e a quasi sessanta da quella del recensore, vale la pena di tornare sulle parole di Togliatti, non per individuare in quelle il germe di un’incomprensione di fondo, poiché la sua lettura probabilmente fu strumentale alla causa politica integrata allo schieramento filosovietico, quanto per coglierne le ragioni in senso analitico e con l’aiuto e il sostegno della distanza storica che da quelle parole poco empatiche oggi ci separa.

    Iniziamo col dire che il Migliore la prende diciamo quasi sul personale, convinto che il romanzo di Orwell miri a proporre senza alcun filtro letterario, senza alcuna allegoricità, senza alcuna retorica del parossismo, una sorta di ritratto realistico e fedele, per così dire, delle condizioni di vita in uno Stato comunista. Preso da questo abbaglio iniziale, Togliatti per poco non ricorre all’insulto nei confronti dello scrittore inglese, colpevole d’aver «accumulato con la maggior diligenza tutte le più sceme fra le calunnie che la corrente propaganda anticomunista scaglia contro i Paesi socialisti». Tra queste, Togliatti annovera, mostrando una certa ingenuità critica, «il divieto ch’è fatto ai membri di sesso diverso della gerarchia dirigente di amarsi e congiungersi con amore», che nel libro è un mantra esasperato inteso a regolare le relazioni tra i membri dell’Inner Party.

    Sempre preso dal furore di un fazioso stroncatore che non ha in mente di farne passare una a Orwell, il leader comunista sceglie sin dal principio di etichettare il romanzo quale portavoce della «cultura borghese, capitalistica e anticomunista, dei nostri giorni» che grazie a quest’opera avrebbe «aggiunto al proprio arco sgangherato un’altra freccia: un romanzo d’avvenire». La borghesia capitalistica e anticomunista di cui Orwell porterebbe alto il vessillo sarebbe «convinta oramai, in sostanza, che la propria fine è possibile e vicina» ed è per questo che è «decisa… alle ultime difese»: 1984 sarebbe il suo ultimo colpo di coda, quello «di chi ha perduto qualsiasi speranza, di chi è intento a spegnerla là dove ne sia rimasta traccia alcuna».

    Difficile immaginare, oggi, la ratio di una lettura critica del genere, che però, a onor del vero, si propone anche di abbozzare un’analisi quasi strutturale del testo, identificandone i difetti, tra cui «la totale assenza di fantasia» allorché lo scrittore tenta, come dovrebbe fare, di «dare una giustificazione della catastrofe». È qui che Togliatti dà il meglio di sé nel mostrare di non comprendere gli aspetti profondamente e dolorosamente satirici di 1984. Vale la pena di leggere per intero il passaggio in cui, accusando Orwell di «ripetere i più banali argomenti della più vecchia delle polemiche contro il socialismo», propone quello che è per lui il motivo di fondo, la ragione principale del romanzo:

    La tesi è che non è possibile creare e mantenere la uguaglianza, perché, fatti i primi passi in questa direzione, si ricostituisce un gruppo dirigente e questo, non volendo abbandonare il potere, mantiene la grande massa degli uomini lontana dalla ricchezza. Se non facesse così, i suoi privilegi, – asserisce l’Orwell, – andrebbero perduti. Il potere, poi, per essere mantenuto, richiede la organizzazione gerarchica di un ceto dirigente, e in questa organizzazione gerarchica quegli uomini che ne fanno parte perdono ogni personalità, libertà, dignità, sono sottomessi alla volontà tirannica di un capo o di un gruppo di capi supremi, che li riducono a essere semplici strumenti passivi e inconsapevoli di qualsiasi abiezione.

    Al di sotto della gerarchia dirigente, la grande maggioranza degli uomini vive nell’abbrutimento e nella miseria, e per impedire che i beni ch’essa produce in grande quantità servano a elevarne le condizioni, gli stessi beni sono sistematicamente distrutti in una guerra ininterrotta, nella quale si affrontano i tre grandi Stati in cui è divisa la Terra, senza che alcuno di essi mai vinca, però, e senza che le gerarchie dirigenti nemmeno desiderino la vittoria, poiché questa potrebbe porre fine al loro potere.

    Questo resoconto tematico, che pure coglie tratti fondamentali dell’organizzazione della EngSoc e del suo Inner Party, porta Togliatti a definire il romanzo di Orwell «primitivo, infantile, logicamente non giustificato». Tralasciamo la questione per cui a un romanzo politico-distopico di questo tipo la categoria della giustificazione logica non dovrebbe applicarsi, se non con ingenue forzature teoriche. Togliatti vede nel testo di Orwell uno strumento controrivoluzionario raccomandato «dai preti e Benedetto Croce», e ispirato sì alle esperienze del vissuto dello scrittore, ma non a quelle che l’hanno formato politicamente. Ecco infatti il sunto, questo sì del tutto pregiudiziale, proposto della vita dell’autore: «la sua carriera si apre nella polizia imperiale inglese della Birmania, di cui è funzionario per sette anni; poi lo si incontra in altre colonie e in qualche centro di vita internazionale; scoppia la guerra di Spagna, ed eccolo in Catalogna, il funzionario della polizia inglese e, naturalmente, tra le file degli anarchici».

    Queste le esperienze che avrebbero guidato, dunque, la composizione di un testo come 1984, ma senza inventare nulla, poiché «il mezzo ch’egli conosce è uno solo, quello che si adopera contro gl’indigeni in Birmania e altrove, le botte, il calcio negli stinchi, la mazzata nel gomito, la tortura con la corrente elettrica, e poi lo spionaggio, s’intende, ch’è sempre il cavallo di battaglia». Da «poliziotto coloniale», altro vissuto non avrebbe a cui attingere se non la necessità e la pratica di «picchiare gli uomini, per espellere dal cuore e dalla mente loro la passione per la libertà, la giustizia, l’uguaglianza; la passione per la generosa utopia. Picchiateli, torturateli, riduceteli un mucchio d’ossa e di carni sanguinolente; allora sarete sicuri di mantenere su di essi all’infinito il vostro potere».

    Va da sé che la lettura a tratti buffa di Palmiro Togliatti non ci spiega molto se non di indelebili pregiudizi nei confronti del libro di Orwell, il quale a ben vedere propone una realtà e una speranza del tutto opposte a quelle intraviste dall’allora leader del comunismo italiano. Per spiegarlo, mi si consenta di partire dal finale, ma non dal finale del romanzo; piuttosto, da come questo finisce, ovvero, con l’Appendice.

    L’Appendice è parte integrante del testo, e una sua lettura attenta fa comprendere come, al di là delle realtà di finzione proposte nel libro, Orwell abbia creato, non già soltanto un romanzo d’avvenire come dice Togliatti, ma un romanzo di un futuro possibile eppure passibile d’essere sventato. Dirò di più. La scelta evidente nell’Appendice di parlare della EngSoc come di qualcosa che non ha concluso la propria missione – e ce lo dimostra la dichiarata non adozione del Newspeak come lingua in grado di sostituire l’inglese – è un chiaro segno dell’ottimismo di Orwell, altro che disillusione. Il romanziere Thomas Pynchon, nella sua Introduzione a un’edizione del libro, aveva suggerito come proprio l’Appendice, ovvero "I princìpi del Newspeak", fossero la dimostrazione di come quel che poteva esser letto come un finale tristemente pessimista venga invece a illuminarsi «rispedendoci nelle strade della nostra personale distopia, al sibilo di un motivo lievemente più allegro» . Il critico Peter Edgerly Firchow ce lo spiega senza mezzi termini, sottolineando l’evidente doppio binario di tutta la narrazione:

    L’Appendice, proprio come gran parte del romanzo che la precede, ha un senso manifesto e uno latente. Il fatto d’esser scritta al passato, si può argomentare costituisca la prova che Oceania non operi più come viene descritto nel romanzo. Il romanzo stesso, dopotutto, è scritto al passato. Si potrà obiettare che l’Appendice non appartenga al romanzo, ma che sia stata intesa chiaramente proprio in quanto appendice; in altre parole, segue la parte principale del libro e presumibilmente aiuta a chiarirne alcune sezioni. È importante la circostanza per cui la sua forma non sia narrativa ma discorsiva. Potrebbe, dunque, e dovrebbe esser scritta al presente, il tempo della maggior parte dei saggi descrittivi come questo qui. Il fatto di non esserlo, suggerisce che Orwell avesse un motivo ulteriore ⁸.

    Sui binari, invece, del romanzo d’avvenire conviene soffermarsi un poco. Il libro di Orwell, infatti, è stato letto, ce lo ricorda il grande critico orwelliano Bernard Crick, come una «profezia deterministica, un qualche tipo di fantascienza distopica, una proiezione condizionale del futuro, una satira umanistica di eventi contemporanei, una protesta socialista libertaria – quasi anarchica – contro le tendenze totalitarie e gli abusi di potere nella sua e in altre possibili società»; tuttavia, va rimarcato, «gran parte delle letture negative o parziali non tengono conto del contesto del periodo – l’immediato dopoguerra» . Secondo Crick, la satira orwelliana, diretta tanto allo stalinismo quanto al nazismo, è guidata dall’assioma che la gerarchia sempre uccide la fraternità. Di qui la ricostruzione, ovviamente non realistica, o forse, para-realistica, di un mondo al contrario ¹⁰.

    Non tutti i critici della sinistra, però, come ho ricordato, concordano con una lettura ottimistica del romanzo finale di Orwell. Tra questi Raymond Williams, pur comprendendo la critica agli «intellettuali remissivi e bugiardi» con cui Orwell aveva avuto a che fare, non lascia però passare l’idea per cui l’unica alternativa a una classe intellettuale complottista e assetata di potere siano «gli stupidi e ignoranti, protetti dalla stupidità e dall’ignoranza» ¹¹. Secondo Williams, l’assioma per cui Orwell considera la sete di potere in grado di appannare il giudizio politico, poiché questa conduce quasi inevitabilmente a credere che il presente non muterà ¹², finisce per renderlo assuefatto a quella stessa convinzione infelice e disfattista, portandolo ad «abbassare la testa, dal punto di vista immaginativo, di fronte alla sua inevitabilità» ¹³.

    Ma Orwell, profeta o meno, di sventure o meno, resta innanzitutto uno scrittore, e la materia con cui hanno a che fare certi scrittori sono spesso sogni e visioni. Se poi questi vengano letti anche come profezie è questione pertinente al futuro, ai futuri esiti di una narrativa in grado di circolare a sufficienza da influenzare in qualche modo i propri lettori. E infatti, Keith Ferrell, nel suo studio sulla scrittura politica di Orwell ¹⁴, ritiene necessario specificare a più riprese che l’autore non intendeva il suo romanzo quale profezia, ma come una storia dotata di personaggi e trama, basata tanto sul vissuto, sull’interpretazione dell’esperienza, quanto sull’immaginazione. E ci tiene anche a sottolineare un peculiare trait d’union tra la fine di 1984 e quella di Animal Farm: questo fil rouge sarebbe da individuare proprio nell’assenza – quasi beckettiana aggiungo io – di qualunque direzione, di qualunque obiettivo, in una vita condotta senza un qualche credo a cui affidarsi: saremmo dunque di fronte alla nota sfiduciata di uno scrittore che in precedenza mai si era arreso. Visione opposta quella proposta da Loraine Saunders che invece, definendo Orwell «un romanziere proletario», giudica il finale di 1984 decisamente ottimista, e per gli stessi motivi delineati da Pynchon ¹⁵. E, d’altro canto, non era stato forse Orwell stesso ad ammonire che «il mio romanzo recente non è inteso come attacco al socialismo o al British Labour Party (che sostengo)», ma alla perversione totalitaria insita nelle economie pianificate? L’autore ci tenne, prima di morire, a specificare che il libro non andava letto quale profezia, ma come arma da usare nella presente battaglia contro la tirannia: «la morale che dobbiamo trarre da questa pericolosa situazione da incubo è semplice: Non lasciamo che succeda. Dipende da te».

    È innegabile, a mio modo di vedere, che esista nell’Orwell di 1984 una nota solipsistica, come è innegabile il fatto di scovare echi ironici, forse satirici, dall’idealismo di Berkeley, in quel ripetuto incoraggiamento a credere che due più due possa fare cinque e non quattro. Ed è proprio questo, credo, il sintomo di una scrittura visionaria, immaginativa, in grado di vedere tra le armi nascoste del realismo anche quella della riproposizione di una realtà parallela, futuribile, possibile, ma non scontata. La battaglia di Orwell è e rimane sempre la stessa, dalle esperienze sul fronte aragonese alla dedizione disperata all’ultimo libro, un libro definitivo: mentre era alle prese con una malattia fatale si mostrò comunque impegnato fino in fondo nel tentativo di far intravedere del mondo una versione diversa, migliore, anche denunciandone la latente stortura, anzi, soffermandovisi senza sosta.

    *

    L’aggettivo forse più adatto a descrivere la distopia orwelliana è a mio avviso straniante, e mi si permetta di aggiungere che i grandi scrittori visionari, da Blake a Pynchon, a Joyce, puntano tutto o quasi tutto sull’effetto di straniamento. Un effetto che ritengo sia da perseguire – lo dico da umile traduttore – anche nelle versioni in lingue diverse dall’originale. Di qui, dunque, le scelte della presente edizione, miranti a proporre al lettore italiano lo stesso smacco destinato a quello anglofono, tramite l’invenzione di fake words – se mi è consentito rifarmi alla tipologia pseudogiornalistica della fake news. Nelle fake news, infatti, esiste sempre, non un elemento di verità, ma uno di credibilità: una plausibilità capace di renderle incredibilmente insidiose. E così accade per le parole del Newspeak, che appaiono inglesi ma non lo sono; o almeno, lo sono soltanto in parte. Lo sono, in definitiva, i loro costituenti, ma non la loro risultante semantica. E poiché il Newspeak è presentato, nel bene e nel male, come un’evoluzione dell’inglese, ho scelto di non renderle con l’invenzione di un altro italiano, né di lasciarle così com’erano nell’originale. Ho optato invece per soluzioni ibride, in cui al senso delle nuove parole il lettore italiano potesse pervenire più facilmente rispetto agli originali, pur mantenendo quella loro estraneità, quel loro straniamento legato al dato di fatto di dipendere inevitabilmente dalla lingua inglese e da un contesto ancor più preciso e cogente: l’istituzione della EngSoc che sta per English Socialism. L’esempio chiave che mi sento di proporre per presentare i princìpi di questa mia traduzione è il sintagma Thought Police. Se è vero che il secondo termine, Police, è chiaramente comprensibile a chiunque anche non anglofono, non è detto ciò valga anche per il primo, Thought. E allora, la mia soluzione è di tradurlo con Mental Police, in cui, per ironia della sorte, l’aggettivo inglese mental rimanda persino, come bonus meaning ¹⁶, alla follia. Stessa cosa per Crimestop divenuto Criminalt, con allusione neanche troppo velata al termine criminale. Resta invece invariato il Big Brother, questo per evitare confusioni fuorvianti con trasmissioni televisive oramai tristemente in voga.

    La lingua inventata di Orwell è diversa per ambizioni da quella di un Tolkien, o anche di un Joyce. Ma con quest’ultimo l’autore perlomeno condivide l’afflato politico improntato al bisogno di trovare nuove parole per nuovi mondi, consapevole come sempre si è – ce lo spiega Wittgenstein in una delle sue frasi più citate – che i limiti del nostro linguaggio indicano i limiti del nostro mondo. E allora, se di limiti davvero qui si parla, non se ne discuta soltanto dalla prospettiva disfattista di esserne limitati e delimitati, ma anche da quella ottimista di saperli o volerli valicare. Se è vero infatti che in ballo, nel libro, non c’è soltanto il passato, ma la sua memoria, la sua archiviazione, affidata agli apparati di una fantomatica memoria collettiva del partito, è altrettanto vero che la lotta è quella contro ogni limitazione, alla memoria e alla mente, una mente strutturata secondo parametri linguistici. Ciò perché ogni limitazione alla mente è innaturale e artificiale, artificiosa e fallace.

    Un’ultima parola vorrei spendere sulla dimensione spirituale del testo come profezia. Nulla sembra esistere, nell’universo disegnato dalla EngSoc e dagli altri poteri planetari, al di fuori della sfera umana, se non la sua sublimazione malsana nel corpo invisibile del partito collettivo e del Big Brother. Il Big Brother, come un totalitario Wizard of Oz, è un simulacro, un totem, ma viene percepito e adorato alla stregua di un Dio. La resistenza di Winston, però, gli sfugge, almeno fino alla prova finale della paura ancestrale: e comunque, anche nel finale, Winston prova sempre a sottrarsi a questo tentativo di sottomissione. Non cede, in soldoni, all’assuefazione di massa, e resta convinto di una fede, una fede nell’uomo, nella razionalità, nella realtà tangibile. Ma anche una fede nella speranza – mal riposta, se vogliamo, come argomentò Raymond Williams, ma sempre un anelito al cambiamento. Un cambiamento capace di superare la dittatura delle immagini, e anche la violenza invisibile del sistema. E se parte di questa invisibile violenza risiede proprio nel tentativo di uccidere le parole prima ancora di uccidere le persone, questo accade per la consapevolezza, da parte degli apparati autoritari del potere, che uccidere le parole significa non poter più nominare le cose, le persone, le entità. E, come sa qualunque bravo esorcista, per sconfiggere il demonio bisogna tirargli fuori il nome, bisogna che lo spirito del male sia costretto ad autonominarsi.

    Il Newspeak intende diminuire, non estendere, la sfera del pensiero e dello scibile, e un numero inferiore di parole pare essere la soluzione migliore per ottenere questo infausto risultato. Ma non è, questa, che la prima fase: la seconda è scomporre e ricomporre le parole, creare nuove connessioni in grado di vaporizzare i significati precedenti, assemblandone insieme anche di incommensurabili. In questo Orwell dimostra di essere davvero profetico. E infatti basta analizzare uno qualunque dei discorsi dei vari leader populisti di oggidì per comprendere la relazione di causa-effetto tra la scarsità di lessico e la semplificazione (con relativa efficacia) di un messaggio. Non solo. Applicare i termini in maniera imprecisa aiuta spesso assai più che un loro uso accorto e più avveduto, ed è anche questo un tratto fondamentale dell’eloquio di dittatori o aspiranti tali.

    Ho lasciato intuire in precedenza che uno scrittore, un artista delle parole, conduce le sue battaglie sul piano del linguaggio, ed è su questo piano che dobbiamo reperire il senso della battaglia di Orwell: nella capacità mitopoietica di proiettare ombre su uno sfondo noto o percepito in quanto tale, lo sfondo della narrazione realistica. Ma bisogna comprendere che farlo implica anche una sublimazione del messaggio, e dunque la creazione di un mondo, un mondo di parole, in grado di parlare in maniera obliqua e a volte contraddittoria; ma sempre e comunque di parlare, di dire, di testimoniare. Testimoniare, come credo che Orwell abbia inteso sempre fare, il senso profondo di una rivoluzione permanente.

    ENRICO TERRINONI

    1 Harold Nicolson, First Bites: Nineteen Eighty-Four, «The Observer», 12 June 1949, p. 7.

    2 Diana Trilling, 1984, «Nation», 25 June 1949, pp. 716-7.

    3 Philip Rahv, The Unfuture of Utopia, «The Partisan Review», July 1949, pp. 743-9.

    4 Golo Mann, Zu George Orwells utopistischem Roman eines totalen Staates, in «Frankfurter Rundschau», 5 November 1949, p. 6.

    5 Roderigo di Castiglia (Palmiro Togliatti), Hanno perduto la speranza, in «Rinascita», anno

    VI

    , nn. 11-12, Novembre-Dicembre 1950.

    6 Ma a dirla tutta, a qualunque romanzo, poiché anche i più realisti rispondono alla regola aurea della fiction secondo cui nei testi di narrativa finzionale, per la loro stessa natura, «non si può né dire la verità, né mentire, né fare errori»: da Terry Eagleton, After Theory, Penguin, London 2004, p. 89. Si veda anche su questi aspetti: Enrico Terrinoni, James Joyce e la fine del romanzo, Carocci, Roma 2015, pp. 12-4.

    7 Thomas Pynchon, Introduction to George Orwell, Nineteen Eighty-Four, Penguin, Harmonsdworth 2003, p.

    XXIV

    .

    8 Peter Edgerly Firchow, From Animal Farm to Nineteen Eighty-Four, in Harold Bloom, George Orwell’s Animal Farm (New Edition), Bloom’s Literary Criticism, New York 2009, pp. 125-50, p. 143.

    9 Bernard Crick, Nineteen Eighty-Four: context and controversy, in John Rodden, The Cambridge Companion to George Orwell, Cambridge University Press, Cambridge 2007, pp. 146-59, p. 146.

    10 Ivi, p. 149.

    11 Raymond Williams, Nineteen Eighty-Four in 1984, in Harold Bloom, George Orwell’s 1984 (New Edition), Bloom’s Literary Criticism, New York 2006, pp. 9-30, p. 27.

    12 George Orwell, The Collected Essays, Journalism and Letters, 4 voll., Sonia Orwell and Ian Angus, Secker & Warburg, London 1968-70, vol. 4, p. 174.

    13 Williams, Op. cit., p. 29.

    14 Keith Ferrell, George Orwell. The Political Pen, M. Evans, Plymouth 1985.

    15 Loraine Saunders, The Unsung Artistry of George Orwell, Ashgate, Burlington 2008, pp. 9-26.

    16 Per la spiegazione di cosa sia un bonus meaning in traduzione, si rimanda a: Enrico Terrinoni e Fabio Pedone, «Nota dei traduttori», in James Joyce, Finnegans Wake

    III

    , 1-2, Mondadori, Milano, 2017, p.

    LXIII

    .

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1903. Eric Arthur Blair nasce a Motihari, nel Bengala, il 25 giugno, dove il padre è impiegato nell’amministrazione coloniale.

    1904. Torna con la madre e la sorella in Inghilterra, e si stabiliscono a Henley-on-Thames, nell’Oxfordshire. Sarà il primo di una lunga serie di traslochi.

    1911-16. Viene ammesso alla St Cyprian’s Preparatory School in Sussex.

    1912. Il padre torna in Inghilterra e la famiglia si trasferisce momentaneamente a Shiplake, nell’Oxfordshire.

    1914. Pubblica la prima poesia, Awake! Young Men of England.

    1917-21. Frequenta il famoso college privato di Eton.

    1922-27. È agente della Indian Imperial Police in Birmania.

    1927. Durante un periodo di congedo in Inghilterra rassegna le sue dimissioni dalla polizia imperiale indiana, che divengono effettive nel gennaio del 1928. Nell’ottobre, traendo ispirazione da Il popolo dell’abisso di Jack London, compie le prime esperienze nell’East End londinese condividendo la vita dei barboni.

    1928-29. Vive nei sobborghi proletari di Parigi dando ripetizioni di inglese e facendo per un periodo il plongeur. Inizia a scrivere Down and Out in Paris and London e Burmese Days.

    1929. Prime avvisaglie di tubercolosi. Passa un periodo in ospedale dopo episodi di tosse con sangue.

    1930-31. Vive lunghi periodi di vagabondaggio e gira l’Inghilterra facendo lavori umili e saltuari tra cui la raccolta di luppolo.

    1932-33. È insegnante in una scuola privata nel Middlesex.

    1933. Down and Out in Paris and London viene pubblicato da Victor Gollancz.

    Insegna francese al Frays College, nel Middlesex.

    1934. Burmese Days viene pubblicato da Harper & Brothers, a New York.

    1935. A Clergyman’s Daughter viene pubblicato da Gollancz.

    1936. Keep the Aspidistra Flying viene pubblicato da Gollancz.

    Sposa Eileen O’Shaughnessy.

    Partecipa alla Guerra Civile spagnola per difendere la repubblica dal colpo di Stato fascista.

    1937. Si avvicina al

    POUM

    (Partido Obrero de Unificación Marxista) con cui combatte sul fronte d’Aragona.

    The Road to Wigan Pier viene pubblicato da Gollancz.

    Viene colpito alla gola da un cecchino franchista a Huesca e portato in vari ospedali prima di essere ricoverato in un sanatorio fuori Barcellona. Intanto, dopo il tentativo degli stalinisti di sopprimere il

    POUM

    , nel giugno scappa dalla Spagna con Eileen e in treno raggiungono la Francia, per poi riparare a Wallington.

    1938. Homage to Catalonia viene pubblicato da Secker & Warburg dopo il rifiuto di Gollancz.

    Si iscrive all’Independent Labour Party.

    1939. Coming Up for Air viene pubblicato da Gollancz.

    Lascia l’

    ILP

    per le posizioni di contrarietà all’ingresso in guerra.

    1941. The Lion and the Unicorn viene pubblicato da Secker & Warburg.

    1941-43. Lavora alle produzioni radiofoniche della Indian section della

    BBC

    ’s Eastern Service.

    1943. Lascia la

    BBC

    e diventa literary editor per il «Tribune».

    1945. Diventa corrispondente di guerra dalla Germania e dalla Francia per l’«Observer» e il «Manchester Evening News».

    Muore la moglie Eileen Blair. Nel 1944 la coppia aveva adottato un figlio, Richard.

    Animal Farm viene pubblicato da Secker & Warburg.

    1946. Critical Essays viene pubblicato da Secker & Warburg.

    1947. Viene ricoverato per tubercolosi in un ospedale nei pressi di Glasgow.

    1948. Vive nella fattoria Barnhill, a Jura, nelle Ebridi.

    1949. È ricoverato in un sanatorio del Gloucestershire per l’aggravarsi della tubercolosi.

    Nineteen Eighty-Four viene pubblicato da Secker & Warburg.

    Viene trasferito allo University College Hospital di Londra.

    Sposa Sonia Brownell.

    1950. Muore di tubercolosi polmonare il 21 gennaio. Viene sepolto col nome di Eric Arthur Blair nel cimitero di All Saints a Sutton Courtenay, nel Berkshire.

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