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Per la gloria di Roma
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E-book581 pagine8 ore

Per la gloria di Roma

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Info su questo ebook

Un grande romanzo storico

«Uno dei migliori scrittori di romanzi storici in circolazione.» 
Daily Express

77 d.C. 
Gaio Valerio Verre è un onorato membro della ristretta cerchia dei favoriti di Vespasiano, ma la sua inimicizia con il figlio dell’imperatore, Domiziano, rende persino Roma un posto poco sicuro per lui. Intanto, agli estremi confini dell’impero, in Britannia, il pericolo incombe. Il governatore Agricola si sta preparando a marciare verso nord con le legioni, e Valerio è tenuto a fare le sue veci: è l’occasione per portare la moglie e il figlio lontano dalle grinfie di Domiziano. 
Il massacro di una guarnigione romana getta scompiglio nei preparativi di Agricola: i suoi sospetti ricadono immediatamente su Mona e i druidi, che ancora sperano di liberare la Britannia dal giogo dell’impero. Ma per affrontarli, Agricola ha bisogno di qualcuno che guidi una delle legioni, un soldato abile e, soprattutto, fidato… 
Valerio è costretto così a brandire nuovamente la spada. Ma ben presto capisce che questa impresa non promette alcuna gloria… e che la sua famiglia si trova in mortale pericolo.

Un autore tradotto in 12 Paesi 

L’adrenalinico e coinvolgente ritorno di Gaio Valerio Verre

«Superbamente scritto, pieno di azione e con grande attenzione ai dettagli storici.» 
Sunday Express 

«La trama è tesa, i personaggi sono ben caratterizzati e le sequenze d’azione sono eccitanti, violente e drammatiche. Consigliato!» 
Historical Novels Review 

«Douglas Jackson riesce a ricreare la Roma imperiale con un realismo viscerale.» 
Daily Mail
Douglas Jackson
È un ex giornalista e nutre da sempre una grande passione per la storia romana. Vive in Scozia, con la moglie e tre figli. È autore, tra gli altri, dei romanzi Il segreto dell’imperatore, Morte all’imperatore!, L’eroe di Roma, Combatti per Roma, La vendetta di Roma, Nel segno di Roma, I nemici di Roma, La conquista di Roma, Per la salvezza di Roma e Per la gloria di Roma, pubblicati dalla Newton Compton. I suoi libri sono tradotti in 12 Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mag 2021
ISBN9788822757661
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    Anteprima del libro

    Per la gloria di Roma - Douglas Jackson

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    Capitolo XXII

    Capitolo XXIII

    Capitolo XXIV

    Capitolo XXV

    Capitolo XXVI

    Capitolo XXVII

    Capitolo XXVIII

    Capitolo XXIX

    Capitolo XXX

    Capitolo XXXI

    Capitolo XXXII

    Capitolo XXXIII

    Capitolo XXXIV

    Capitolo XXXV

    Capitolo XXXVI

    Capitolo XXXVII

    Capitolo XXXVIII

    Capitolo XXXIX

    Capitolo XL

    Capitolo XLI

    Capitolo XLII

    Capitolo XLIII

    Capitolo XLIV

    Capitolo XLV

    Capitolo XLVI

    Capitolo XLVII

    Capitolo XLVIII

    Capitolo XLIX

    Capitolo L

    Capitolo LI

    Capitolo LII

    Capitolo LIII

    Capitolo LIV

    Cenni storici

    Glossario

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    2897

    Dello stesso autore:

    La conquista di Roma

    I nemici di Roma

    Nel segno di Roma

    La vendetta di Roma

    Combatti per Roma

    L’eroe di Roma

    Per la salvezza di Roma


    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Questa è un’opera di fantasia e, fatta eccezione

    per le vicende storiche, qualunque analogia con persone

    reali, esistenti o esistite, è puramente casuale.

    Titolo originale: Glory of Rome

    Copyright © Douglas Jackson 2017

    Maps © Martin Darlison at Encompass Graphics 2017

    First published by Transworld Publishers, a division

    of the Penguin Random House group of companies.

    Douglas Jackson has asserted his right

    under the Copyright, Designs and Patents Act 1988

    to be identified as the author of this work.

    All right reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Carlotta Mele e Beatrice Messineo

    Prima edizione ebook: giugno 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5766-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Douglas Jackson

    Per la gloria di Roma

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    A mia nipote Lily,

    che ha donato nuova gioia alle nostre vite.

    Tale fu la rapidità di costoro che i nemici, sorpresi perché si aspettavano un esercito su navi e un’azione dal mare, conclusero che nulla fosse arduo e insuperabile per chi affrontava una guerra in tal modo.

    Publio Cornelio Tacito, Agricola

    Prologo

    Mona, 78 d.C.

    Owain Lawhir, re supremo degli ordovici, osservava la scena con malcelata agitazione. Anche se non era a suo agio in quel luogo, e non lo era mai stato, il capo guerriero si ergeva in tutto il suo splendore: una spanna più alto degli altri uomini, con una torquis dorata intorno al collo e la spada di ferro nella guaina d’oro appesa alla vita. I massi che delimitavano il cerchio spiccavano come denti marci immersi nella luce rosata di quel tramonto di inizio estate. Al centro esatto un’altra roccia, dello spessore di una spada e la lunghezza di quattro, giaceva in orizzontale, la superficie levigata dagli innumerevoli corpi che vi si erano dimenati sopra. Minuscoli frammenti di quarzo brillavano qua e là riflettendo la luce del crepuscolo, ma l’altare era perlopiù ricoperto dalla patina nera e opaca del sangue incrostato e puzzolente dei buoi sacrificati durante i riti di Beltane. Alle estremità, una coppia di anelli di ferro forgiata da un fabbro morto ormai da secoli.

    Di fronte alle colonne che delimitavano l’ingresso, si trovavano cinque druidi vestiti di bianco. Tre erano uomini nel fiore degli anni, alti e ostili, con i volti impassibili e duri e una posa solenne, spia della loro disciplina di ferro. Uno era un ragazzino che, nonostante gli sforzi per emulare i più anziani, tradiva un certo nervosismo dissipando ogni dubbio sul ruolo che avrebbe giocato all’interno della cerimonia. I quattro sacerdoti ne affiancavano un quinto che, paragonato a loro, non sembrava altro che un omuncolo grinzoso e rachitico. Era di spalle, aveva il volto coperto. Si vedeva soltanto la corona di capelli bianchi che gli circondavano la nuca come tanti raggi solari e la schiena esile e ingobbita da chissà quale peso.

    Fuori dal cerchio di pietre, attendevano centinaia di uomini. Loro non avevano il permesso di entrare, la disobbedienza sarebbe stata punita con la morte. I mantelli eleganti, le spade di ferro e i cerchi dorati intorno al collo tradivano la loro identità: erano l’élite, i re degli ordovici e i vari comandanti di tribù e sottotribù. In un’altra circostanza avrebbero dato il sangue per essere al posto di Owain. Ma non oggi.

    Un merlo ruppe il silenzio serale con il suo canto acuto, che presto fu rimpiazzato dai bisbigli concitati dei comandanti e da uno stridore metallico. La folla si schiuse, lasciando passare i cinque prigionieri svestiti – quattro uomini e una giovane donna – incatenati mani e piedi e sostenuti dalle guardie. Avevano la bocca tappata con delle cinghie di pelle, ma erano gli occhi sgranati a urlare di terrore. Il sacerdote con i capelli bianchi sollevò una mano e il minuscolo corteo si fermò all’istante. Il vecchio inclinò il capo verso il druido alla sua sinistra. Dopo qualche bisbiglio, l’uomo più alto annunciò: «Lei non serve. Portate gli altri».

    Gli occhi della donna scomparvero nelle orbite. Sarebbe crollata a terra, se le guardie non l’avessero retta e trascinata via. Gli altri prigionieri furono spinti verso l’altare, dimenandosi invano contro le loro catene. Consapevoli dell’orribile sorte che li attendeva, uno se la fece addosso, schizzando di feci gli stinchi dei carcerieri che gli inveirono contro.

    Owain sentì le viscere attorcigliarsi come un serpente. Ma non per la pena: non provava alcuna compassione per le vittime sacrificali. Erano simpatizzanti dei romani, traditori della loro gente, e meritavano la morte. Ciò che lo preoccupava era l’indubbio esito di quel cerimoniale, e le conseguenze che sarebbero gravate su di lui e la sua tribù.

    Uno dei sacerdoti doveva aver dato una specie di segnale segreto, perché le guardie iniziarono a trascinare il primo prigioniero verso l’altare. Si trattava di un uomo basso e grasso, con i capelli incrostati di sangue e una ferita allo scalpo che sanguinava fino alla guancia. Per la paura gli si erano ritirate le parti basse, ora scomparse sotto le pieghe della pancia.

    I cinque druidi intonarono una cantilena sommessa e acuta che rimbombava tra le rocce. Man mano che le guardie si avvicinavano alla roccia, il canto cresceva d’intensità così come la resistenza del prigioniero. Agitava braccia e gambe con una furia indescrivibile, tanto che Owain era sicuro che le catene si sarebbero spezzate da un momento all’altro. Ma i due carcerieri lo reggevano sicuri ed esperti. A un certo punto il più grosso gli rifilò un pugno in testa, inebetendolo per il tempo sufficiente a legare le catene agli anelli di ferro.

    L’uomo abbandonò ogni resistenza non appena la sua schiena toccò l’altare. Fu una cosa insolita: forse il cervello sconvolto dalla paura alla fine era riuscito a capire che non c’era più niente da fare. Oppure lo sgomento aveva finito per risucchiargli tutte le energie. La cantilena si spense e i cinque druidi si concentrarono sulla vittima. Fu allora che Owain ebbe modo di scorgere il volto di quell’esile figura al centro. La vista lo fece rabbrividire, nonostante fosse preparato. Per un attimo gli sembrò che Gwlym, capo dei druidi di Elfydd, gli stesse guardando attraverso, dritto nell’anima. Ci volle un po’ perché la sua mente elaborasse che quei due occhi scintillanti non erano altro, in realtà, che delle orbite rosse e piene di pus. Quel pensiero si fece ancora più inquietante quado ricordò la storia o la leggenda che si celava dietro la mutilazione: Gwlym si era strappato gli occhi da solo per non lasciarsi distrarre dai piaceri terreni. Il capo dei druidi credeva che la sua cecità lo avvicinasse agli dèi e gli permettesse di avere la mente sgombra e pronta a interpretare il loro volere. Sollevò la mano, posandola sulla spalla del sacerdote più giovane.

    «Comincia, Bedwr».

    Il ragazzo respirò a fondo e fece un passo avanti, ergendosi sulla vittima sacrificale. L’uomo incatenato all’altare teneva gli occhi chiusi. Stringeva i pugni così forte che le unghie dovevano essergli penetrate nella carne. I muscoli erano rigidi, aspettavano in tensione il loro destino. Bedwr estrasse un coltellino a mezzaluna dalla manica della tunica, sollevando la lama sul petto grasso e scosso dai brividi dell’uomo.

    Gwlym e i suoi accoliti ripresero a cantare, una nenia ritmica che offriva l’anima della loro vittima a Taranis. La tensione nell’aria era palpabile e Owain si ritrovò con il fiato sospeso. Il canto cessò di colpo. La lama affondò nella carne con un unico sinuoso movimento che smembrò l’uomo dal petto all’inguine. Un grido sommesso e agonizzante s’infranse contro il bavaglio, mentre il corpo squarciato si contorceva nelle catene.

    «Aymer».

    Bedwr si fece da parte, lasciando il campo al secondo druido che separò i lembi di carne scoprendo le spirali insanguinate al loro interno. Un terzo sacerdote immerse la mano nelle budella della vittima, provocando una nuova ondata di convulsioni e contorcimenti, e iniziò a muovere sapientemente le dita alla ricerca del suo obiettivo. Nel giro di pochi istanti, sollevò una massa scura e viscida: il fegato del sacrificato, ne dedusse Owain. Gwlym prese fra le mani il grumo di interiora grondanti e il terzo druido si fece avanti per tagliare la gola della vittima con una lama identica alla precedente. Il sangue scuro schizzò in aria e, dopo un ultimo sussulto, il corpo non si mosse più.

    Mentre le guardie portavano via il cadavere martoriato, la seconda vittima sacrificale veniva già condotta all’altare.

    Man mano che le loro anime si spegnevano, il cielo diventava sempre più scuro e l’aria s’impregnava della puzza di sangue ed escrementi. Gwlym e gli altri druidi studiarono il loro cruento raccolto sotto la luce tremolante di una dozzina di torce. Alla fine, sollevarono il capo.

    «Gli dèi hanno parlato». La voce rauca di Gwlym squarciò la notte come una sega arrugginita su una quercia nodosa. «Gli invasori devono essere scacciati dalla terra di Elfydd. Questo è il loro volere».

    Il druido parlò a voce alta per farsi sentire anche dagli uomini al di là delle rocce, ma Owain sapeva che quelle parole, in realtà, erano rivolte a lui. Così come sapeva che qualunque cosa gli dèi avessero comunicato tramite i sacrifici, scacciare gli invasori dall’isola era soprattutto il volere del capo dei druidi. Nessuno odiava i romani quanto lui. Era stato Gwlym ad assicurare alle tribù del territorio di avere l’appoggio degli dèi, esortando i guerrieri dobunni, cornovii e coritani a unirsi a Budicca, regina degli iceni, e insorgere con lei contro i detestati invasori. Proprio Gwlym, che era al suo fianco mentre il Tempio di Claudio bruciava. Gwlym che aveva esultato per il massacro del popolo di Londinium e aveva visto il loro sangue macchiare le acque del potente Tamesa. E sempre Gwlym che, nell’ultima battaglia della regina, aveva guardato le spade romane falciare le vite dei campioni di Budicca come grano maturo, soffrendo in prima persona per una ferita allo stomaco che lo aveva fatto invecchiare prima del tempo nel giro di una sola notte.

    «Se è la volontà degli dèi», disse Owain con cautela, «così sia».

    «I presagi sono favorevoli», continuò Gwlym come se Owain non avesse mai parlato. «Ma agli dèi serve un altro sacrificio. La libertà del nostro popolo andrà pagata con il sangue». Quelle parole suscitarono trambusto fra i capi dei vari clan, da cui si levò un brusio concitato. «Osate mettere in dubbio il volere degli dèi?»

    «Non dubitiamo di loro», rispose Owain. «Ma abbiamo vissuto abbastanza per ricordare i sacrifici del passato. Mio padre si è lasciato convincere dalle parole allettanti di Carataco, che si è autoproclamato re dei siluri, e ci ha supplicato di aiutarlo con la promessa di liberare l’isola dal presidio romano. Ma la sua testa è finita su un palo a Viroconium. Budicca aveva ricevuto la grazia di Andraste», al che Gwlym sollevò di scatto la testa, fissando il re con le sue orbite cave, purulente e raccapriccianti, «e disponeva di un esercito numeroso come i granelli di sabbia in una spiaggia. Eppure i suoi soldati morirono a migliaia, portandosi dietro la loro regina. Svetonio Paolino ha ridotto le terre degli iceni, dei dobunni, dei coritani e dei cornovi in una landa desolata».

    «Budicca è stata tradita!», sibilò Gwlym. «Solo così Paolino poteva sapere da quale direzione sarebbe arrivato l’attacco. E in questo modo è riuscito a schierare i suoi uomini nell’unica maniera in grado di sconfiggerla».

    «Gli dèi…».

    «Lei credeva che gli dèi volessero l’attacco, ma la decisione finale è stata sviata dall’unica divinità che non è riuscita a ingraziarsi. Una dea molto più potente del loro Giove o Marte. La Dea Madre. E noi non ripeteremo lo stesso errore». Gwlym parlò con una voce aggressiva e intensa, e Owain si sentì come se gli avessero appena trafitto la schiena con una lancia. «I messaggi che gli dèi ci mandano sono una scintilla in grado di accendere un fuoco che può dare vita all’inferno. I popoli di Elfydd sanno che i romani continueranno ad arrivare. Tutti voi rischiate di fare la stessa fine di Budicca o dei trinovanti, a cui è stata sottratta la terra che ora viene coltivata dagli invasori. Alle nostre genti serve soltanto un segno: devono sapere che gli dèi sono con loro. Solo così si uniranno e affogheranno i romani nel loro stesso sangue. Tu, Owain Lawhir, sei stato scelto per dare quel segno».

    «Il mio popolo…». Ma le parole gli morirono in gola. Gli stava frullando qualcosa in testa: gli pareva di sentire una voce, la sua voce. Owain Lawhir, ti chiamano. Owain Pugno Sicuro la cui forza e capacità incutono paura e rispetto. Ma ultimamente ti hanno affibbiato un nuovo nome, anche se fai finta di niente. Owain Cadomedd, l’uomo che rifugge la battaglia. Era vero: i pettegolezzi erano arrivati anche alle sue orecchie. Aveva ordinato ai suoi di non attaccare le pattuglie romane che perlustravano regolarmente le terre degli ordovici. Avrebbero ottenuto una piccola vittoria e mozzato qualche testa nemica, è vero: ma alla fine avrebbero perso degli uomini validi e, peggio ancora, rischiato di innescare una vendetta che gli sarebbe costata molto di più. Ma ai più giovani prudevano le mani, non vedevano l’ora di poter impugnare la spada, e sapeva di non poterli tenere a bada ancora a lungo. Nessuno osava disobbedirgli. Per ora. Ma la gente mormorava, ed erano tanti quelli che puntavano ad animare le fiamme del dissenso.

    «Guiderai i tuoi uomini e insieme distruggerete il forte a Tal-y-Cafn». Owain sbatté le palpebre, rendendosi conto che Gwlym aveva di colpo ricominciato a parlare. «Il luogo che i romani chiamano Canovium. Uccidete tutti, comprese donne e bambini, e cancellate le loro tracce da quella terra».

    «Si vendicheranno. Il nuovo governatore…».

    «Tu non mi ascolti, re», lo interruppe il druido. «Gli dèi hanno parlato. Se non distruggiamo i romani, saranno loro a distruggere noi. Vent’anni fa, al suo arrivo, l’opera di Svetonio Paolino fu interrotta da Budicca. La nostra sopravvivenza ha dato un senso al suo sacrificio, ma i romani torneranno. Gli dèi ci stanno fornendo un’opportunità. Tu ne sarai lo strumento. Massacrare i loro uomini attirerà altre legioni nelle nostre vallate, e lì troveranno la tomba. Soccomberanno come agnelli fra i lupi, quando li attaccheremo dall’alto».

    Forse l’odio gli aveva fatto perdere il senno, pensò Owain. La verità era che Paolino si era limitato a respingere gli ordovici per raggiungere Mona, evitando i loro attacchi come si evitano delle semplici piccate di ortica. Cosa era cambiato da allora? Ma non poteva fingere di non vedere la minaccia annidata fra quelle parole. Re o no, se si fosse rifiutato di obbedire agli ordini di Gwlym si sarebbe trovato di fronte a un altro sacrificio: il suo, con ogni probabilità. Un coltello che gli affondava nella gola durante il sonno.

    «E gli dèi quando mi consigliano di attaccare?». Fece fatica a trattenere l’amarezza.

    «Al prossimo novilunio», rispose Gwlym con un tono sprezzante. «Ti restano tre settimane».

    Owain Lawhir, re supremo degli ordovici, raccolse l’elmo di ferro che giaceva ai suoi piedi e si allontanò dal cerchio di rocce superando i corpi mutilati delle vittime sacrificali. Gli dèi avevano parlato. La luna nuova avrebbe portato sangue, fuoco e morte a Canovium e ai romani.

    I

    Fidene, vicino Roma

    Tre ragazzini se ne stavano accovacciati lungo la riva del fiume, la fronte contratta mentre scrutavano lo specchio d’acqua. Portavano solo un indumento intimo, e la loro pelle bronzea brillava di salute sotto il sole estivo. Avevano in mano un bastone ciascuno, della lunghezza di una spatha e con la punta ben affilata.

    Gaio Valerio Verre li osservava da sopra una collinetta affacciata sul corso d’acqua. Sapeva che fra le ombre della riva nuotavano delle trote scaltre e, per esperienza, sapeva anche che erano difficili da pescare. Per una qualche legge naturale, nota forse solo al suo amico Plinio, il pesce vero e proprio non si trovava esattamente nel punto in cui appariva. Nuotava pochi centimetri più in là, ma non era così scontato intuirlo. Il torrente era profondo in quel punto, nell’area più remota della sua proprietà di Fidene – città a qualche chilometro a nord da Roma – e i ragazzini avevano il divieto categorico di avvicinarcisi. Ma la prospettiva di doverli bastonare non gli impedì di sorridere di fronte a quel sereno idillio.

    Ma di colpo si levò un grido. Proveniva dal più piccolo del trio, un bambinetto di circa quattro anni con i capelli arruffati, magro e agile come un levriero. Avevano avvistato qualcosa di davvero interessante, forse una di quelle rare trote giganti che serpeggiavano nelle profondità del torrente e che dall’alto sembrava solo un’ombra scura nel fondale. A un bimbo di quell’età un pesce del genere doveva sembrare grosso come il coccodrillo che l’imperatore Nerone aveva custodito nel suo zoo. Acciuffarlo e portarlo al cuoco della villa voleva dire scampare alla punizione.

    Si misero tutti in posizione ma, in virtù di una specie di velata autorità, il più piccolo dei tre fu il primo a partire. Valerio trattenne il fiato: il bambino sollevò il bastone in alto, stretto e sicuro come un guerriero con la sua lancia, la punta bianca e intagliata che scintillava sotto la luce del sole. Il piccolo aspettò con la freddezza istintiva di un cacciatore, senza mai staccare gli occhi dalla sua preda, e poi colpì.

    Forse il pesce nuotava più a fondo di quanto si aspettasse, o magari per l’eccitazione aveva preso troppo slancio, ma finì per perdere l’equilibrio, sporgendosi troppo dalla sponda del fiume. Gli amici cercarono in tutti i modi di afferrarlo, ma era troppo tardi. Precipitò nell’acqua con un tonfo pesante, urlando a squarciagola.

    In un batter d’occhio, Valerio sfrecciò lungo la collina verso gli altri due ragazzini rimasti pietrificati. Li spinse da parte e scrutò il fondale finché non vide una coppia di occhietti terrorizzati che gli restituivano lo sguardo con un’espressione costernata. Fece un respiro profondo e si tuffò nel fiume. La corrente fredda lo lasciò senza fiato, ma l’acqua gli arrivava solo fino alle spalle. Immerse la testa sotto la superficie, allungando la mano sinistra verso il bambino che affogava. Il piccolo si dimenò fra le sue braccia, sputando e annaspando finché Valerio non lo lanciò come un sacco di grano sulla riva del fiume. E lui rimase lì, con gli occhietti chiusi e il petto ansimante.

    Valerio uscì dall’acqua sotto lo sguardo sconvolto degli altri due compari. «Claudio. Milo. Tornate a casa. Sapete già che dovete dirlo ai vostri padri al ritorno dai campi, vero?»

    «Sì, signore», risposero mesti i due, risalendo il fiume verso casa. Solo di tanto in tanto si voltavano a lanciare un’occhiataccia alla causa dei loro guai.

    Valerio si erse sopra il bambino, che se ne stava ancora steso a terra con gli occhi chiusi. «E tu lo sai che significa questo, vero, Lucio?», chiese con un tono severo.

    «Sì, padre. Cinque bastonate sulla schiena».

    «E ne valeva la pena?».

    Il piccolo aprì un occhio solo e nel visetto scuro comparve un sorrisino scaltro. «Se avessi mirato bene, sì».

    Valerio prese in braccio il figlio e lo rimise in piedi, tirandogli un buffetto sulla guancia. «Quant’era grosso?».

    Lucio spalancò le braccia a più non posso.

    «Bene, allora più tardi torneremo con l’amo e le piume e vedremo se riusciamo a prenderlo, ma nel frattempo…».

    «Sì, padre?»

    «Visto che siamo entrambi bagnati fradici», afferrò Lucio per la vita e lo prese in braccio, «è ora di insegnarti a nuotare». E, scoppiando a ridere, lanciò il bambino al centro del fiume tuffandosi dietro di lui.

    Valerio guardava sua moglie filare seduta accanto alla finestra che dava sui giardini. Magra, di una bellezza esotica e orientale che ancora lo lasciava senza fiato, Tabitha si muoveva con un’inconsapevole grazia, facendosi scivolare il fuso tra le dita. La donna percepì il suo sguardo e sollevò gli occhi con un sorriso.

    «Non dovresti occuparti dei registri, marito?»

    «Possono aspettare», disse, continuando a oleare gli ingranaggi della lama nascosta nel pugno di legno che ora gli serviva da mano destra. L’originale l’aveva perduta durante la ribellione esplosa in Britannia sotto il regno di Nerone, ma nel corso degli anni si era talmente abituato al nuovo rimpiazzo che oramai non sentiva più la differenza. Tabitha sapeva che riordinare i registri era la parte della vita da proprietario terriero che gli piaceva di meno. Poteva assumere qualcuno perché se ne occupasse, ma il padre di Valerio aveva sempre sostenuto che un uomo che non sa badare ai propri affari è un uomo che non merita la sua terra. «Stavo solo pensando che non sono mai stato così felice».

    «Allora lo sono anch’io», rispose la moglie, la sincerità delle parole confermata dal lieve rossore che le colorò le guance. «Ma temo di non poter dire lo stesso di Lucio».

    «Gli avevi proibito di avvicinarsi alle Piscine Naturali», ribatté Valerio. «Sapeva quali sarebbero state le conseguenze».

    «Vero», annuì Tabitha. «Eppure riesce sempre a convincere gli altri a bambini a seguirlo nelle sue malefatte. Una qualità ereditata da suo padre, direi». Sorrise, le labbra increspate in una smorfia ironica.

    «Certo, ma suo padre non si sarebbe mai fatto beccare», scherzò Valerio, chiudendo il discorso. Ma le parole di sua moglie contenevano un barlume di verità. A soli quattro anni Lucio era un bambino avventuroso, alla costante ricerca di nuovi posti da vedere ed esperienze, sebbene quasi sempre pericolose, da fare. Di avventure suo padre ne aveva vissute abbastanza: Valerio aveva combattuto come soldato fra le montagne della Britannia e le pianure dell’Armenia, servito come spia per imperatori e principi e scampato la morte più spesso di quanto gli facesse piacere ricordare. Ma ora basta.

    Il fato era stato clemente con lui negli ultimi quattro anni. Aveva avuto modo di sistemarsi e godersi una vita tranquilla assieme alla sua famiglia. L’ascesa al potere di Vespasiano aveva recato prosperità agli uomini della sua stimata cerchia, di cui con sommo onore faceva parte anche Valerio. Quella villa, con i suoi terreni verdeggianti carichi di ulivi, i campi coltivati e i vigneti che correvano lungo i pendii, era un regalo dell’imperatore. Più a sud c’era un’altra tenuta di famiglia, occupata da sua sorella Olivia e il marito, mentre a nord sorgeva il vasto palazzo appartenuto al filosofo Seneca, un tempo proprietario di tutte quelle terre. In seguito al suicidio coatto del letterato, Nerone aveva affidato le proprietà a Tigellino, suo funzionario nonché spia più fidata. Anni dopo, però, durante la tremenda guerra civile passata alla storia come l’Anno dei quattro imperatori, a Tigellino era toccato un destino simile a quello di Seneca, per volere di Marco Salvio Otone. Tito, figlio maggiore dell’imperatore, nonché amico e protettore di Valerio e comandante della guardia pretoriana, era al suo sesto consolato e vantava una benemerita reputazione d’onestà e competenza che prometteva bene per il futuro dell’impero.

    Valerio, dal canto suo, trascorreva il tempo mandando avanti la proprietà e partecipando alle sedute del Senato in cui raramente prendeva la parola: era lì come sostenitore dell’imperatore o di Tito e, di tanto in tanto, si occupava di qualche caso di alto profilo nel tribunale che rientrava nelle sue competenze.

    «Hai deciso se difendere o meno Tullio?». Le parole di Tabitha gli servirono da promemoria: uno dei suoi clienti gli aveva chiesto aiuto per un caso. Di norma, Valerio non avrebbe esitato ad accettare. Un uomo onesto aveva la responsabilità di supportare i suoi seguaci. Ma…

    «Non posso». Tabitha non l’avrebbe mai giudicato per questo, ma voleva bene a Tullio e a sua moglie e la delusione era palese. «Rustico, la controparte, è vicino a Domiziano. Tito mi ha chiesto di non fare nulla che possa inimicarmi ancora di più il fratello».

    Ed eccola lì, l’ombra che gravava sulla loro placida e semplice esistenza.

    Tito Flavio Domiziano, figlio minore di Vespasiano, era nemico giurato di Valerio da quando aveva cercato di portargli via una vecchia amante, Domizia Longina Corbulone. E il fatto che alla fine Domiziano era riuscito ad averla in sposa non aveva cambiato un bel niente. Anzi, il figlio dell’imperatore lo aveva addirittura accusato di tradimento, costringendolo all’esilio. Da allora, Valerio era sfuggito a diversi tentativi di omicidio: tutti ordinati dalla stessa persona, senza dubbio. Aveva sperato che il favore di Tito e l’ammirazione di Vespasiano guadagnati durante l’assedio di Gerusalemme potessero mettere fine a tali pericoli, ma la potenziale minaccia rappresentata da Domiziano aleggiava sulla villa come la nuvola di fumo di un vulcano. Valerio era persino convinto che all’interno della servitù si celasse più di una spia al servizio del rivale. Per fortuna lui e sua moglie avevano familiarità con quel mondo clandestino, e Tabitha aveva venduto lo schiavo su cui nutrivano più sospetti. Ma le spie erano facilmente rimpiazzabili, e Valerio lo sapeva bene.

    «Non può farti del male senza danneggiare sé stesso. Almeno non finché Tito e Vespasiano saranno ancora in vita».

    La voce soave di Tabitha tradiva una rara nota di disprezzo. Ai suoi occhi, Domiziano non era altro che un codardo che pagava altri uomini per portare avanti il suo volere. Ogni minaccia a Valerio era una minaccia a tutta la loro famiglia, e in quella figura esile si annidava un’anima di ferro. Tabitha era una principessa di Emesa, uno Stato orientale dilaniato da divisioni politiche e religiose e minacciato dagli stati vicini. In circostanze normali lo zio, il re, l’avrebbe concessa in sposa per sancire un’alleanza dinastica o rinforzarne una già esistente. Tuttavia, il forte legame d’amicizia tra Tabitha e l’amante di Tito, la regina Berenice di Cilicia, le aveva permesso di sposarsi per amore. Aveva lasciato amici e famiglia per seguire Valerio in una terra aliena, eppure non si era mai lamentata. La sua bellezza celava l’oscura abilità che aveva nel tessere intrighi e inganni. Valerio era consapevole che, potendo fare a modo suo, Tabitha non avrebbe esitato un istante a liberarsi di Domiziano. Ma si trattava del figlio dell’imperatore a cui lui aveva giurato fedeltà.

    «Questo è vero», concesse, «ma resta un uomo alquanto pericoloso. Ulteriore motivo per cui Lucio non dovrebbe andarsene in giro con i suoi amici».

    Tabitha annuì. «Lo lascerò in punizione nelle sue stanze per il resto della giornata. Un piccolo castigo in più per aver spaventato a morte la sua povera mamma».

    Valerio scoppiò a ridere: insieme avevano affrontato lance e coltelli, rischiato di annegare e persino di bruciare vivi. Ma non l’aveva mai vista spaventata. «Forse è ora che gli troviamo un precettore?», suggerì.

    Tabitha sollevò il mento delicato e nei suoi occhi Valerio vide splendere una luce che pareva suggerirgli che non avrebbe ceduto facilmente. «Ma è così giovane. Sarebbe come mettere in gabbia un cucciolo di volpe».

    «Così non gli resterà il tempo di mettersi nei guai», borbottò Valerio. «Due o tre ore al giorno a risolvere i paradossi di Zenone finiranno per tarpare le ali del nostro piccolo falco. E poi Olivia ha già un precettore per i ragazzi. Ci penserò. Nel frattempo, deve imparare a comportarsi bene».

    «Mi assicurerò che lo capisca», rispose con arrendevolezza. Fin troppa.

    Ripensare a Domiziano gli aveva peggiorato l’umore. Ecco un altro motivo per odiare quel bastardo manipolatore. A quarant’anni e con le cicatrici e i capelli bianchi a darne prova, Valerio aveva di meglio da fare che perdere tempo con lui. Si alzò in piedi.

    «Vado a controllare i roseti sul versante meridionale. Voglio vedere come se la cavano con i canali di scolo. Se becco di nuovo Attico a dormire sotto le reti degli ulivi, lo vendo a Verecondo, quello che raccoglie gli escrementi».

    «E fai bene», concordò Tabitha, nonostante sapesse che Valerio non avrebbe mai diviso una famiglia e che Attico era il padre della figlia della sua cara e devota serva Elena.

    L’umore di Valerio migliorava a ogni passo, sul sentiero frammentato che serpeggiava fra gli ulivi e i vigneti. A metà strada verso la cima, si voltò a guardare dall’alto la villa e gli stabili intorno. Era almeno il doppio di quella in cui era cresciuto lui, qualche chilometro più a sud, e sorgeva proprio nella curva più ampia del fiume Tevere. La vallata era ricoperta da un tappetto di campi rigogliosi e maturi che cedevano infine il passo agli uliveti e ai vigneti che risalivano i pendii. Ricordava quando da bambino passeggiava insieme a suo padre tra i frutteti come quelli, discutendo degli alberi e del loro potenziale. Meglio piantarne venticinque iugera o il terreno era abbastanza fertile da ospitarne cinquanta? Bisognava potare questi rami? E quegli altri? Quando diventava troppo vecchio un albero? Valeva la pena piantare una vigna sotto la chioma di un fusto più grande, dove il sole passava a malapena? Discutevano di quelli e di tutti gli altri problemi che un proprietario terriero doveva affrontare. Se non si piantava abbastanza, non si guadagnava. Come mai tutti i parassiti di questo mondo adoravano l’uva o perché le erbacce crescevano molto più in fretta di qualsiasi altra pianta utile per l’uomo.

    I ricordi lo fecero sorridere e si rimise in marcia. Il figlio portava il nome di suo padre: Lucio Valerio Verre. Un giorno tutte quelle terre sarebbero state sue e doveva imparare ad averne cura. In fondo il suo vecchio glielo aveva ripetuto sempre, nella buona e nella cattiva sorte: Ricorda questo, Valerio: noi traiamo guadagno dalla terra, ma non ne siamo che i custodi.

    Quando raggiunse l’area designata per gli scavi, trovò Attico e la sua squadra che lavoravano senza sosta con le vanghe e i picconi. Valerio aveva stabilito che un fossato in quel punto avrebbe giovato al drenaggio dell’acqua. Agli alberi e agli arbusti serviva tutta l’idratazione possibile, ma poteva capitare che i temporali provocassero frane e allagamenti. Meglio incanalare l’acqua e farla scorrere lungo il pendio, senza permetterle di trascinare giù il terreno rosso e sottile. Aveva come la sensazione che non fossero al lavoro da molto, ma non aveva importanza. Stare lì lo faceva sentire meglio. Parlava con tutti, fra un comando e l’altro. Come stava la famiglia? Avevano cibo a sufficienza? Qualcuno aveva delle lamentele?

    Nessuno ovviamente, come al solito. Solo Didio, un giovane garzone un po’ tardo ma con le spalle di un toro, che temeva che uno dei supervisori si approfittasse di sua madre. Valerio promise di risolvere subito la situazione e Didio lo ringraziò con una solenne serietà. Quando poi se ne andò, gli parve di sentire le pale che affondavano nel terreno con un rinnovato vigore. Uno schiavo lavorava meglio quando lo si trattava con umanità. Valerio era il loro signore e padrone e poteva decidere della loro vita così come della loro morte. Temevano lui e la sua ira, ma lo rispettavano anche, e non era affatto scontato. Ogni schiavo riceveva una tunica nuova ogni anno, un mantello e degli zoccoli ogni due. Lavoravano sodo, ma venivano ben nutriti e celebravano le feste come la famiglia. Catone il Vecchio aveva invitato gli agricoltori a: «Vendere tutto ciò che non è più utile, come il bestiame sfinito, le pecore malate e gli schiavi vecchi e deboli». Ma gli uomini di Valerio sapevano che una volta divenuti anziani e inadatti al lavoro pesante, avrebbero avuto sempre un tetto sopra la testa e un orticello a cui badare, e che Tabitha avrebbe riservato loro dei compiti più semplici da svolgere in casa o nella fattoria. Serpenzio gli avrebbe riso in faccia, definendolo uno smidollato. Ripensare all’ ex-gladiatore ridestò la leggera melanconia che provava sempre quando si ricordava del suo vecchio amico. Ma si consolava pensando che Serpenzio sarebbe andato fuori di testa per la noia, lì con loro. Se avesse potuto, avrebbe ringraziato gli dèi di essere morto con la spada in mano e non come un vecchio decrepito in un letto umido del suo stesso piscio.

    Era quello il destino che invece attendeva Valerio? Non doveva sentirsi rammaricato, e lo sapeva, perché questo stava a significare che avrebbe trascorso ancora innumerevoli notti insieme a Tabitha, che avrebbe guardato Lucio crescere e, se gli dèi l’avessero voluto, avrebbe avuto altri figli.

    Sempre che Domiziano non riuscisse nel suo intento.

    Si accorse del trambusto non appena arrivò in prossimità della villa. Grida acute e urla di bambini che erano a metà tra l’eccitazione e la paura. Le voci arrivavano dagli alloggi padronali e Valerio corse a perdifiato fra i corridoi finché non trovò un gruppetto di schiavi e servi riuniti fuori dalle stanze di Lucio.

    «Fatevi da parte», gridò. Gli uomini si divisero come di fronte a un esercito schierato a testa di cinghiale e Valerio marciò dritto verso la porta. Lucio era in piedi sul letto che saltava in preda all’eccitazione mentre al suo fianco, Tabitha, con in mano una caliga e in faccia un’espressione omicida, scrutava il pavimento. Gli ci volle un secondo per individuare il motivo di tutta quella furia.

    Quaranta o cinquanta scorpioni correvano per terra con i pungiglioni ricurvi sollevati e pronti a colpire. Trasalì quando Tabitha lanciò il sandalo su uno che si era avvicinato troppo, schiacciandolo con uno schiocco e lasciando la chiazza del carapace infranto sulle mattonelle del pavimento. Lei fece un passo avanti per ucciderne un altro ma Valerio, allarmato, si accorse che sua moglie era a piedi nudi.

    «Tabitha, ferma».

    L’ordine gli provocò un’occhiataccia, ma lei obbedì. In teoria, gli scorpioni che abitavano le colline di Fidene non rappresentavano un vero pericolo: erano piccoli e neri, capaci con le loro punture di arrecare soltanto un dolore e un gonfiore localizzato. Ma questi avevano qualcosa di diverso, notò Valerio.

    Superò le chele agitate avvicinandosi all’esemplare più grosso fra i presenti. Lo scorpione in questione era lungo quasi quanto il suo dito medio e dello stesso colore giallastro dell’orzo maturo. Si chinò e lo tirò su stringendolo proprio sotto il pungiglione, in modo che gli penzolasse dalle dita. Gli schiavi guardavano la scena con il fiato sospeso.

    Lo mostrò a Tabitha. «Lo riconosci?».

    Tutto il colore le scomparve dal viso. «Il Sicario. Ma, come?».

    Valerio l’aveva già incontrato in Siria e in Giudea, e Tabitha era cresciuta con un sano rispetto per quella specie. Una delle poche le cui punture risultavano fatali. Ne bastava uno soltanto, nascosto nello stivale o fra le tue lenzuola, per farti morire nel giro di una settimana in un’atroce agonia. Questo cambiava tutto. All’inizio credeva che si trattasse della vendetta di uno schiavo contrariato o di uno scherzo degli amichetti di Lucio. Ma la faccenda era ben diversa. Chiunque avesse liberato quegli scorpioni in camera di suo figlio, l’aveva fatto per ucciderlo. Qualcuno aveva cercato di farlo fuori.

    «Marco». La sua voce raschiava come la lama di una spada sul coperchio di una tomba. Persino Tabitha trattenne il fiato di fronte alla ferocia del tono. «Portami la frusta. Quella grande, non il giocattolo che uso di solito. E raduna tutti i servi nel fienile. Fino all’ultimo, intendo. Gli anziani, i malati, i garzoni della cucina e le cameriere. Tutti».

    II

    Trenta persone fra schiavi, servi e supervisori si strinsero in una nervosa calca all’interno del fienile sotto lo sguardo feroce di Gaio Valerio Verre e di due suoi fidati ex-legionari che ora lo servivano come guardie del corpo. Alle spalle di Valerio, Tabitha scrutava la scena con un volto impassibile e Lucio stretto al fianco, gli occhi che brillavano come quelli di un falco appollaiato sul portico.

    «Helena?». La cameriera di Tabitha fece un passo avanti, le mani giunte per placarne il tremore. «Dove ti trovavi fra le sette e le otto?».

    Valerio conosceva già la risposta, ma Tabitha si era detta d’accordo con lui: Helena doveva essere interrogata insieme agli altri, e fu proprio da lei che il padrone decise di iniziare.

    «Ero con la padrona, signore. Sono certa che lei potrà confermarlo».

    Valerio si voltò verso la moglie, che annuì subito. «Puoi rientrare, allora. Julia…». La cuoca della villa fece un passo avanti, staccandosi dal mucchio e sfidando il padrone a mettere in dubbio la sua lealtà con il suo volto rugoso e paonazzo.

    Valerio partì escludendo coloro di cui si potevano ricostruire i movimenti con facilità. Riuscì a ottenere la conferma della loro innocenza in prima persona o dal resto dei colleghi. Il gruppo si assottigliò in maniera sorprendentemente rapida: ne restarono solo otto o nove. Ci volle un po’ per risalire a chi si trovasse dove, ma pian piano riuscì a escluderne altri. Alla fine rimase con due. Cassio, l’amministratore della tenuta, che sosteneva di trovarsi nel tablinum a preparare i resoconti da sottoporre alla visione di Valerio, ma che non aveva nessuna prova a sostegno della sua tesi ed era vicino alla stanza di Lucio. E Rautio, un supervisore, che se si fosse trovato davvero nella cantina a contare le amphorae, sarebbe stato troppo lontano per liberare gli scorpioni nella stanza di Lucio.

    Valerio li studiò a fiondo, mentre Tabitha emetteva versi di disgusto. Uno di loro gli restituiva uno sguardo impenitente, l’altro invece se ne stava in disparte con il volto contratto per lo sdegno o la paura. Valerio batté la frusta sul pavimento sporco, lasciando che la corda di pelle si spiegasse fra i due accusati. Lunga e sinuosa, correva per tre metri e terminava in tre punte annodate che celavano frammenti di metallo. Quando c’era ancora suo padre, aveva visto con i suoi occhi come poteva ridurre la schiena di uomo.

    «Cassio. Hai cercato di uccidere mio figlio con quei mostri?».

    L’amministratore della tenuta non batté ciglio. «Non farei mai del male a Lucio, padrone. Se credi il contrario, molla la frusta e prendi il pugnale. Mi taglierò i polsi io stesso».

    Valerio annuì. «Come pensavo. Puoi andare».

    Cassio superò Valerio, lanciando un’ultima occhiata piena d’odio all’altro servitore. Tabitha lo seguì fuori dal fienile con Lucio al seguito, proprio mentre Julia, la cuoca, piombava dentro trascinandosi dietro uno dei garzoni della cucina.

    «Devi ascoltarlo, padrone», disse.

    «No, signore», implorò Rautio con la voce rotta dalla disperazione. «Devi credermi. Non ho niente a che fare con questa faccenda. Ero nella cantina. Il ragazzino te lo confermerà».

    «Questo è quello che mi ha detto di dire». Le parole acute del bambino si trasformarono in un vero e proprio gridolino quando la cuoca gli piegò il braccio incitandolo a sputare il rospo. «L’ho incrociato fra la sala da pranzo e le stanze padronali. Ha detto che sarebbe finito nei guai se qualcuno l’avesse scoperto, perciò dovevo dire a tutti che l’avevo visto nella cantina. Mi ha pagato con un denarius d’argento».

    «Padrone, ti prego…».

    Ma a Valerio tornò in mente che era proprio Rautio il supervisore accusato di approfittarsi della vedova. Lei aveva il compito di pulire le stanze padronali, inclusa quella di Lucio: per questo doveva essere a conoscenza di ogni spostamento del bambino. «Dammi un solo motivo per cui non dovrei frustarti a morte, Rautio».

    «Io non…».

    Valerio scoccò la frusta, che con le sue punte annodate sfiorò l’orecchio di Rautio. Il supervisore crollò sulle ginocchia, scosso dai singhiozzi. «Comincia a dirmi chi è stato a ordinarti di farlo».

    «Un uomo», mormorò Rautio. «Ha detto che mi avrebbe scorticato vivo se non l’avessi fatto».

    «Vitalis». Valerio gridò il nome di una guardia. «Controlla i suoi alloggi, con attenzione, mi raccomando, e portami tutto ciò che non appartiene a questa casa». Poi rivolse di nuovo tutta la sua attenzione al supervisore. «Da quanto tempo lavori per lui?».

    Al ritorno di Vitalis, Rautio aveva già spifferato tutto e si era messo a strisciare per terra fra i singhiozzi. Ma la descrizione che gli aveva fornito poteva corrispondere a quella di centinaia di altri uomini. Non conosceva quel nome, ovviamente, ma Valerio non aveva dubbi su chi fosse la fonte dei suoi problemi. Mollò la frusta, sollevato di non essere stato costretto a usarla, ma tutta la compassione che poteva aver provato nei confronti del supervisore si dissipò quando Vitalis gli cacciò in mano un sacchettino di pelle. «Li aveva nascosti sotto una mattonella».

    Valerio lo soppesò sulla mano, ricavandone una stima provvisoria prima di sciogliere i lacci di pelle con la bocca e rovesciarne il contenuto sul pavimento.

    «Cinquanta aurei d’oro». Valerio smosse le monete con il piede. Cinquemila sestertii. La paga di sei mesi da legionario. Appena coniate, poi, con il volto realistico di Vespasiano e il naso aquilino non smussati dall’utilizzo. L’ennesima prova che i suoi sospetti non erano errati. «Per un uomo prudente è quanto basta a rifarsi una vita. Ma per quello dovrei essere morto io. Quanto ti hanno promesso per uccidere anche me? Sono curioso, davvero. Quanto vale la mia testa?».

    Ma Rautio sapeva che qualsiasi risposta l’avrebbe cacciato ancora di più nei guai, e fu abbastanza saggio da tenere la bocca chiusa.

    «Rinchiudetelo nella cantina e lasciatelo lì tutta la notte: che rimugini sul destino che lo aspetta. Assicuratevi che nessuno gli faccia del male, ma domattina lo voglio trovare legato alla sella del mio cavallo migliore. Non gli serviranno i sandali per l’occasione».

    «E l’oro, signore?».

    Valerio raccolse una moneta tra la polvere e la lanciò a Vitalis. Sorridendo, la guardia l’afferrò al volo. «Fate una ciascuno. Il resto, portalo a Cassio. Dieci aurei per il fondo che mette da parte per il suo affrancamento, e quello che rimane lo divida tra gli schiavi. È giusto che traggano profitto dai loro guai, almeno. Oh, e digli di essere generoso con Julia. Avrà anche una faccia capace di inacidire il latte, ma è più brava di me come inquisitrice».

    III

    «Credi davvero che sia saggio?», chiese Tabitha il mattino seguente, mentre Valerio si preparava a partire. Era il seguito di una discussione che era andata avanti per quasi tutta la notte. Si trovavano nell’atrium, le spalle di Tabitha avvolte in uno scialle contro il freddo mattutino. Valerio la stringeva tra le braccia, cullando su una spalla il viso di sua moglie.

    «Non posso permettere che si senta libero di minacciare la mia famiglia senza che io faccia niente».

    «Lo so, ma la reazione dell’imperatore…».

    «È imprevedibile», concordò Valerio, «ma è un uomo onesto, con poche illusioni».

    «Allora, sii prudente, marito mio». Tabitha sollevò il capo e lo baciò sulle labbra, mormorando: «Io mi preparerò al tuo ritorno con estrema cura».

    Una scintilla calda gli accese tutto il corpo. Quelle parole erano un codice, una promessa. «Se è così, tornerò il prima possibile. Nel frattempo assicurati che Lucio non se ne vada a zonzo».

    «Ha imparato la lezione», rispose lei. «Credo sia stato istruttivo per lui guardare suo padre in tutta la sua gloria e ferocia. Padrone della vita e della morte».

    «E sua madre», sorrise Valerio. «Mi hai spaventato tanto quanto quegli scorpioni. Ma se non ci fossi stata tu…».

    «Promettimi che non succederà ancora».

    «Hai la mia parola. Manderò un messaggio così forte oggi, che persino gli

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