Erewhon
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Info su questo ebook
Questo denso piccolo libro che data 1872 è spaventoso nella precisione con cui parla di molti mali e ossessioni del nostro tempo. In alcuni capitoli la sua preveggenza è tale da far sorgere il dubbio che Butler sia stato una sorta di viaggiatore nel/del tempo e che la mitica Erewhon (anagramma di Nowhere) non sia una terra utopica/distopica che si erge oltre enormi montagne nebbiose del nuovo mondo, ma un modo occulto per parlare di uno strano e incomprensibile, a occhi ottocenteschi, futuro.
Il narratore è un giovane senza eccessiva arte né parte che lavora in una colonia inglese (quale non è dato sapere). Mentre lavora, anche a causa dei racconti di un bruttissimo indigeno, guarda con cupidigia le montagne circostanti, misteriose e inesplorate: è convinto che oltre le nebbie si celino terre che vale la pena di rivendicare, così un giorno parte.
Il servo lo segue, ma poi di colpo lo abbandona terrorizzato e dopo una serie di peripezie giunge a "Erewhon", una terra rimasta isolata dal resto del mondo dove si è sviluppata una civiltà dagli usi e costumi alquanto peculiari.
Gli abitanti di "Erewhon" sono tutti bellissimi (Butler per dire che sono splendidi continua a descriverli come magnifici italiani), in salute e relativamente giovani. Tra di loro non ci sono malati, disabili, persone eccessivamente anziane e il motivo è presto detto: ammalarsi o nascere cagionevole di salute a Erewhon è un vero e proprio reato.
Inoltre in questo misterioso Erewhon non ci sono macchine perché durante una guerra civile avvenuta centinaia di anni prima, la popolazione, incitata da un pensatore che scrisse un fondamentale pamphlet "Il libro delle macchine", distrusse la tecnologia molto avanzata di cui erano in possesso e che stava rapidamente prendendo possesso dei loro lavori e delle loro vite.
Quelle macchine che un giorno acquisiranno una sorta di coscienza e riusciranno persino a riprodursi, soppiantando l'uomo e rendendolo schiavo per poi eliminarlo al momento in cui sarà diventato completamente inutile.
Samuel Butler
Samuel Butler (1835–1902) was an English author whose turbulent upbringing would inspire one of his greatest works, The Way of All Flesh. Butler grew up in a volatile home with an overbearing father who was both mentally and physically abusive. He was eventually sent to boarding school and then St. John's College where he studied Classics. As a young adult, he lived in a parish and aspired to become a clergyman but had a sudden crisis of faith. He decided to travel the world and create new experiences fueling his literary career.
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Anteprima del libro
Erewhon - Samuel Butler
Samuel Butler
EREWHON
Distopie
KKIEN Publishing International
info@kkienpublishing.it
www.kkienpublishing.it
Ed. Originale, Erewhon, or Over the Range, 1872
Traduzione di Bruno Valli
Prima edizione digitale: 2019
ISBN 9788833260488
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Table Of Contents
CAPITOLO I
Terre incolte
CAPITOLO II
Nel capannone della lana
CAPITOLO III
Risalendo il fiume
CAPITOLO IV
Il valico
CAPITOLO V
Il fiume e le montagne
CAPITOLO VI
Erewhon
CAPITOLO VII
Prime impressioni
CAPITOLO VIII
In carcere
CAPITOLO IX
Verso la capitale
CAPITOLO X
Opinioni correnti
CAPITOLO XI
Qualche processo
CAPITOLO XII
Malcontenti
CAPITOLO XIII
Opinioni degli Erewhoniani riguardo alla morte
CAPITOLO XIV
Mahaina
CAPITOLO XV
Le Banche Musicali
CAPITOLO XVI
Arowhena
CAPITOLO XVII
Ydgrun e gli Ydgruniti
CAPITOLO XVIII
Atti di nascita
CAPITOLO XIX
Il mondo dei non nati
CAPITOLO XX
Che cosa significa per loro
CAPITOLO XXI
Le scuole dell’Irragionevolezza
CAPITOLO XXII
Le scuole dell’Irragionevolezza
(continuazione)
CAPITOLO XXIII
Il libro delle macchine
CAPITOLO XXIV
Il libro delle macchine
(continuazione)
CAPITOLO XXV
Il libro delle macchine
(continuazione)
CAPITOLO XXVI
Idee di un profeta erewhoniano sui diritti degli animali
CAPITOLO XXVII
Idee di un filosofo erewhoniano sui diritti dei vegetali
CAPITOLO XXVIII
La fuga
CAPITOLO XXIX
Conclusione
... τοῦ γάρ εἿναι δοχοΰντος άγαϑοΰ χάριν πάντα πράττονσι πάντες.
ARISTOTELE, Politica
Non si dà azione che non si fondi su un equilibrio di considerazioni.
(Parafrasì)
PREFAZIONE alla prima edizione
L’Autore desidera mettere in chiaro che Erewhon va pronunciato come una parola di tre sillabe, tutte brevi - così: Ĕ-rĕ-whŏn.
CAPITOLO I
Terre incolte
Il lettore mi perdonerà se non dirò nulla dei precedenti della mia vita né delle circostanze che mi portarono ad abbandonare il mio paese d’origine; il racconto annoierebbe lui e sarebbe penoso per me. Basti sapere che lasciai la patria con l’intenzione di recarmi in una nuova colonia britannica e di trovare là, o forse anche di comprare, un pezzo di terra non coltivato, adatto all’allevamento del bestiame e delle pecore: pensavo così di potermi arricchire più rapidamente che in Inghilterra.
Si vedrà come non riuscii nel mio progetto, e come, nonostante le cose nuove e inusitate in cui mi imbattei, fui incapace di ricavarne il minimo vantaggio pecuniario.
È vero: penso di aver fatto una scoperta che, se potrò essere il primo a profittarne, mi compenserà più di tutto l’oro del mondo, e mi assicurerà una posizione che forse solo quindici o sedici persone hanno raggiunto fin dalla creazione dell’universo. Ma per questo dovrei poter disporre di una grossa somma: e non so come procurarmela se non tentando di interessare il pubblico alla mia vicenda e di convincere le anime caritatevoli a farsi avanti per aiutarmi. È con questa speranza che pubblico ora le mie avventure; non senza una grande riluttanza, tuttavia, perché temo si dubiti della mia storia se non la racconto per intero. Eppure questo non oso farlo, per paura che qualcuno, meno a corto di soldi, arrivi prima di me. Al rischio di vedermi scavalcare preferisco quello di non essere creduto, e perciò ho deciso di non rivelare dove ero diretto quando lasciai l’Inghilterra né da dove ebbe inizio la parte più pericolosa e difficile del mio viaggio.
Mi conforta soprattutto il fatto che la verità ha una sua impronta, e la mia storia convincerà per l’evidenza che scaturisce dalla sua stessa precisione. Nessun uomo onesto potrà dubitare che io pure lo sia.
Raggiunsi la mia destinazione in uno degli ultimi mesi del 1868, ma non oso dire la stagione per paura che il lettore intuisca in quale emisfero mi trovavo. I coloni, anche i più avventurosi, avevano cominciato a installarsi in quella terra da non più di otto o nove anni: prima, fatta eccezione per qualche tribù di selvaggi che si incontrava nella zona vicino al mare, essa era disabitata. La parte conosciuta dagli Europei consisteva in una fascia costiera lunga circa sette o ottocento miglia, con tre o quattro buoni porti, e in un tratto di terra che si estendeva per una profondità variante dalle duecento alle trecento miglia fino ai primi contrafforti di una catena di montagne altissime, che, coperte di nevi eterne, si vedevano di lontano innalzarsi sulla pianura. La costa era perfettamente conosciuta sia a nord che a sud del tratto descritto, ma in entrambe le direzioni non si trovava un solo porto per cinquecento miglia, e le montagne, che scendevano fin quasi al mare, erano coperte di foreste fitte, tanto che nessuno avrebbe pensato di andarvisi a stabilire.
Nella grande baia la situazione era diversa. C’erano porti sufficienti, e boschi, ma non eccessivamente folti. La regione, straordinariamente adatta all’agricoltura, conteneva anche milioni e milioni di acri dei più bei pascoli del mondo, ottimi per ogni tipo di greggi e di mandrie. Il clima era temperato e molto salubre; non c’erano bestie feroci, e gli indigeni non potevano far paura essendo pochi e di carattere mite e intelligente.
È facile capire che gli Europei, appena messo piede in quel territorio, non tardarono a sfruttarne le risorse. Portarono greggi e mandrie, e organizzarono rapidamente gli allevamenti. Occuparono cinquanta, centomila acri di terra, spingendosi uno dietro l’altro verso l’interno, finché in pochi anni non rimase un solo acro disponibile fra il mare e la prima fila di montagne, e per tutta la regione sorsero allevamenti di pecore e di bestiame più grosso a una distanza di venti, trenta miglia l’uno dall’altro. La prima fila arrestò per qualche tempo la marea dei coloni; si pensava che ci fosse troppa neve per troppi mesi dell’anno, che le pecore si potessero smarrire, che il terreno fosse troppo accidentato per custodirle, che la spesa per trasportare la lana giù ai bastimenti avrebbe divorato i profitti, e che l’erba fosse troppo dura e acida per far prosperare le greggi; tuttavia, uno dopo l’altro decisero di tentare l’esperimento, e la riuscita fu sorprendente. I coloni si spinsero sempre più avanti nelle montagne, scoprendo così un vasto tratto di terra al di là della prima catena, fra questa e un’altra ancora più alta, la quale tuttavia non era la più alta di tutte, quella grandiosa, coperta di neve, che da tanto lontano si scorgeva dominare sulla pianura. La seconda fila di montagne sembrava segnare il confine estremo della terra da pascolo; e là, in un piccolo allevamento creato da poco, venni assunto prima come volontario e ben presto con un impiego fisso. Avevo solo venticinque anni.
Ero entusiasta del paese e della vita che vi si conduceva. Ogni giorno (in ciò consisteva il mio compito) salivo fino alla vetta di un alto monte, ridiscendendo poi a valle lungo uno dei contrafforti, per controllare che nessuna pecora avesse oltrepassato i confini del pascolo. Dovevo sorvegliare le pecore, ma non occorreva che mi avvicinassi o le radunassi in gregge; bastava mi accertassi che esse fossero a gruppi sparsi ma abbastanza numerosi, per rassicurarmi che tutto andava bene; cosa non troppo difficile, del resto, perché saranno state sì e no ottocento; e siccome avevano tutte i piccoli da allattare, se ne stavano piuttosto tranquille.
Molte le conoscevo, come due o tre pecorelle nere, un paio di agnelli anch’essi neri, e alcune altre che si potevano distinguere per qualche segno particolare. Cercavo quelle, con lo sguardo, e se le scorgevo tutte, e il gregge nell’insieme appariva abbastanza numeroso, potevo star sicuro che tutto andava bene. È sorprendente come l’occhio si abitui presto ad accorgersi se su due o trecento pecore ne mancano una ventina. Avevo un cannocchiale e un cane, e portavo sempre con me pane, carne e tabacco. Mi mettevo in cammino alla prima luce dell’alba e finivo il mio giro al cadere della notte perché la montagna su cui dovevo andare era molto alta. D’inverno si copriva di neve, e non occorreva sorvegliare il gregge dall’alto. Se mi fosse capitato di vedere sterco o impronte di pecore giù per l’altro versante della montagna (dove si apriva una valle con un torrente: un semplice cul-de-sac) avrei dovuto seguirne la traccia per cercare gli animali smarriti; ma non ne trovai mai, perché esse scendevano sempre dal loro versante, in parte per abitudine, e in parte perché vi trovavano pascolo abbondante, saporito e dolce: era stato bruciato all’inizio della primavera, poco prima del mio arrivo, e ora cresceva verde e folto che era un piacere, mentre sull’altro versante, dove non l’avevano bruciato, era ispido e tutt’altro che tenero.
Conducevo una vita monotona, ma molto sana; e quando uno sta bene non si cura gran che del resto. Non si può immaginare la grandiosità della regione. Quante volte mi sono seduto sul pendio della montagna a contemplare i declivi ondulati, le due macchie bianche delle capanne in lontananza, e il piccolo quadrato del giardino dietro di esse; il prato con la chiazza verde lucente dell’avena, a monte delle capanne; i recinti e i capannoni per la lana sulla spianata, a valle; tutto visto come in un telescopio rovesciato, tanto limpida e splendente era Paria, o come su di un plastico colossale o una carta topografica spiegata in basso, sotto di me. Dalla parte opposta si apriva una pianura che scendeva fino a un largo fiume, al di là del quale si elevavano altre montagne dove la neve dell’inverno non si era ancora del tutto dissolta. Risalendo il fiume, che correva sinuoso con le sue ramificazioni in un letto ampio quasi due miglia, vedevo la seconda grande catena, dove riuscivo a scorgere una stretta gola in cui il fiume si ritirava scomparendo. Sapevo che ancora più oltre c’era un’altra fila di monti; ma era completamente nascosta e si intravvedeva soltanto da un punto vicino alla vetta della mia montagna. Anche da lì, comunque, quando non c’erano nubi, vedevo un unico picco incappucciato di neve, distante da me miglia e miglia, e, mi pareva, alto come le montagne più alte del mondo. Non dimenticherò mai la solitudine assoluta di quel paesaggio - solo la piccola fattoria lontana mostrava il segno del lavoro dell’uomo - la vastità delle montagne e della pianura, del fiume e del cielo; i meravigliosi effetti dell’atmosfera, le montagne ora nere contro un cielo bianco, o, dopo il freddo, bianche contro un cielo nero, ora intravviste tra squarci e turbini di nuvole; a volte, e questo mi piaceva più di tutto, salivo nella nebbia che avvolgeva la mia montagna fino ad arrivare su, dove era limpido; continuando a salire potevo scorgere sotto di me un mare di bianco, da cui spuntavano, come tante isole, innumerevoli vette.
Sono là, ora, mentre scrivo; mi sembra di rivedere i declivi, le capanne, la pianura, e il letto del fiume, quel torrenziale sentiero di desolazione, con il rombo lontano delle acque. Stupendo! Stupendo! Così solitario e solenne, col grigio triste delle nubi in alto e non un suono, solo un agnello sperduto che bela sul versante della montagna, come se il suo piccolo cuore si spezzasse. Poi ecco arrivare trotterellando una pecora vecchia e brutta, dal corpo magro, vizzo, che ha abbandonato il ghiotto pascolo e chiama con un belato roco; ora ispeziona questo o quel fossato, ora si ferma in ascolto col muso in aria, per sentire il lamento lontano, e ubbidirgli. Ah! si vedono e si corrono incontro. Ahimè! si sono sbagliati tutti e due; quella madre non è la madre dell’agnello, non sono nemmeno parenti, non hanno simpatia l’uno per l’altro e si separano freddamente. Ognuno di loro deve piangere più forte, e continuare a vagare; che la fortuna li assista entrambi e faccia sì che ritrovino i loro cari prima di notte. Ma questo è solo un sogno, e devo andare avanti.
Non potevo fare a meno di chiedermi che cosa ci fosse lassù, dove il fiume scompariva, e dietro la seconda catena di monti. Soldi non ne avevo, ma se solo avessi trovato una terra da sfruttare, avrei potuto popolarla di bestiame con denaro preso a prestito e fare la mia fortuna. È vero, le montagne erano immense e sembrava impossibile trovare una strada per passare dall’altra parte lungo le gole o risalendo i pendii; ma nessuno le aveva ancora esplorate, ed è sorprendente come si riesca ad aprire un sentiero (e persino una mulattiera) in luoghi di ogni sorta che da lontano sembrano inaccessibili. Il fiume era così ampio che doveva convogliare le acque di un bacino interno, almeno così pensavo; e benché tutti dicessero che sarebbe stata una follia tentare di portare le greggi più avanti, sapevo che solo tre anni prima avevano fatto le stesse obiezioni sulla zona dove ora era installato l’allevamento del mio padrone. Non riuscivo a scacciare questi pensieri, mentre riposavo sul pendio della montagna. Mi tornavano in mente durante i miei giri quotidiani e mi dominavano sempre di più, finché decisi di non esitare oltre: dopo la tosatura avrei sellato il mio cavallo, preso con me quante provviste potevo, e sarei andato a vedere io stesso.
Ma su tutti gli altri dominava il pensiero della grande catena. Che cosa c’era al di là? Ah! chi poteva dirlo? Nessuno al mondo ne aveva la più pallida idea, salvo coloro che stavano dall’altra parte, se pure ci stava qualcuno. Sarei riuscito ad attraversarla? Sarebbe stata la più grande vittoria che potessi desiderare: troppo grande però, per pensarci in quel momento. Avrei tentato di superare la catena più vicina per vedere fin dove potevo spingermi. Anche se non trovavo terra da sfruttare, chissà se non potevo trovare oro, o diamanti, o rame, o argento? A volte, quando mi sdraiavo a terra per bere a un ruscello, scorgevo tra la sabbia dei granellini gialli: era oro? La gente diceva di no; ma la gente dice sempre di no finché non scopre che ce n’è in abbondanza. C’era molta ardesia e molto granito, e sapevo che essi indicano sempre la vicinanza dell’oro; e anche se là non si trovava in quantità che valesse la pena, poteva essercene molto nelle catene principali. Avevo sempre la mente occupata da questi pensieri, che non riuscivo a scacciare.
CAPITOLO II
Nel capannone della lana
Finalmente venne il tempo della tosatura; fra i tosatori c’era un vecchio indigeno che chiamavano Chowbok, benché il suo vero nome fosse, credo, Kahabuka. Era una specie di capo indigeno, parlava un po’ d’inglese, e i missionari l’avevano in gran simpatia. Non faceva un lavoro preciso nella tosatura, ma fingeva di dare una mano qua e là nei recinti, mentre in realtà il suo vero scopo era quello di procurarsi un po’ di acquavite, che durante la tosatura veniva sempre distribuita con più liberalità. A lui ne davano poca, perché bastava un goccio per ubriacarlo, e quando era ubriaco tendeva a diventare pericoloso. Di tanto in tanto, però, riusciva a procurarsela; era il miglior regalo che gli si potesse fare se si voleva ottenere qualcosa da lui. Decisi di interrogarlo per strappargli tutte le informazioni possibili. Così feci. Tutto andò bene finché mi limitai a chiedergli notizie sulle montagne più vicine: lui non c’era mai stato, ma secondo le notizie tramandate nella sua tribù esse, in realtà, non offrivano né terra da pascolo né altro fuorché boschi rachitici e qualche tratto pianeggiante lungo il letto del fiume. Raggiungerle era molto difficile, ma i valichi non mancavano. Vi si poteva arrivare, ad esempio, risalendo il nostro fiume, non però proprio lungo le sponde, perché la gola era impraticabile. Lui non conosceva nessuno che ci fosse stato: non mi bastava tutta la terra che avevamo a disposizione dalla nostra parte? Ma appena accennai alla catena principale, mutò atteggiamento di colpo. Sembrava a disagio; cominciò a tergiversare, a mostrarsi evasivo. Capii ben presto che anche su quell’argomento esistevano notizie tramandate nella sua tribù, ma non riuscivo a cavargli una sillaba. Infine gli feci balenare il miraggio dell’acquavite e parve convinto a vuotare il sacco. Ma appena se la fu scolata, cominciò a far la parte dell’ubriaco, e si addormentò, o finse di addormentarsi. Ebbi un bel prenderlo a calci: non si spostò di un millimetro.
Me ne andai furioso, perché ci avevo rimesso l’acquavite e non gli avevo cavato una parola. Decisi quindi che il giorno dopo non gli avrei dato un bel nulla finché non avesse parlato: altrimenti io avrei lasciato all’asciutto.
Perciò, quando venne la notte e mentre i tosatori, lasciato il lavoro, stavano cenando, misi la mia razione di acquavite in un piccolo boccale di metallo e feci cenno a Chowbok di seguirmi nel capannone della lana. Non si fece pregare, e mi venne dietro alla chetichella, senza che nessuno se ne accorgesse. Arrivati al capannone accendemmo una candela di sego e, infilatala in una vecchia bottiglia, ci sedemmo su delle balle di lana e ci mettemmo a fumare. Un capannone per la lana è un posto dove lo spazio non manca, costruito un po’ secondo la pianta di una cattedrale, con le due ali laterali piene di stalli per le pecore, una grande navata alla cui estremità lavorano i tosatori, e, più in là, una parte riservata a quelli che scelgono la lana e la imballano. Tutto ciò mi dava sempre una piacevole sensazione di antico (preziosa in un paese nuovo) benché non ignorassi affatto che i capannoni più vecchi risalivano al massimo a sette anni prima, mentre quello in cui mi trovavo aveva appena due anni. Chowbok fingeva di aspettarsi che gli dessi subito da bere, mentre sapeva benissimo le mie intenzioni, come io sapevo le sue. Dovevamo giocare d’astuzia, lui per strapparmi l’acquavite, io per strappargli le notizie.
Fu una battaglia dura. Per più di due ore cercò di confondermi raccontandomi un sacco di bugie, di cui non credetti una sola sillaba. Per tutto quel tempo, apparentemente, lottammo senza che nessuno dei due si assicurasse il minimo vantaggio. Alla lunga, però, capii che avrebbe finito per cedere e che, con un altro po’ di pazienza, sarei riuscito a strappargli il suo segreto. Come in certe giornate fredde d’inverno si mesta e si rimesta inutilmente nella zangola (e quanto avevo rimestato io!) senza che il latte accenni ad accagliarsi, e poi, improvvisamente, dal rumore diverso, si capisce che la crema sta posando, e poco dopo, ecco, viene il burro, così io rimestai Chowbok finché mi accorsi che era ormai giunto al punto della posatura e che, continuando a esercitare una certa pressione, dolce ma ferma, avrei vinto la partita. Senza una parola di preavviso, fece ruzzolare al centro della stanza due balle di lana (era fortissimo), e ce ne piazzò sopra un’altra di traverso. Poi, agguantato un sacco vuoto se lo gettò sulle spalle a guisa di mantello, con un salto balzò sulla balla più alta, e vi si appollaiò. In un momento la sua figura subì una completa trasformazione. Le sue spalle diritte caddero spioventi; incollò i piedi uno contro l’altro, calcagno contro calcagno, alluce contro alluce; abbandonò le braccia lungo il corpo, le mani piatte lungo le cosce; levò la testa in alto, tutta dritta, guardando fisso davanti a sé con una smorfia orribile e un’espressione veramente demoniaca. Anche nei momenti migliori Chowbok era molto brutto, ma ora la sua mostruosità superava tutti i limiti. La bocca gli arrivava quasi da un orecchio all’altro, in un ghigno orrendo che gli scopriva tutti i denti; gli occhi, pur restando completamente fissi, fiammeggiavano, mentre il più malevolo dei cipigli gli corrugava la fronte.
Temo che la mia descrizione renda solo il lato ridicolo del suo aspetto, ma ridicolo e sublime si toccano, e in quel momento la maschera demoniaca e grottesca di Chowbok sfiorava, se addirittura non raggiungeva, il sublime. Cercai di riderne, ma sentivo come un brivido corrermi dalla radice dei capelli lungo tutto il corpo, mentre lo guardavo chiedendomi che cosa mai volesse dire. Rimase così per quasi un minuto, tutto diritto, immobile come una statua, con quella grinta atroce. Poi, dalle labbra gli uscì un gemito sordo, come un mugolio di vento, che saliva e scendeva in una gamma di gradazioni minime finché divenne quasi uno strillo; dopodiché si affievolì e si spense. Allora Chowbok balzò giù dai sacchi, e tese le mani con le dita aperte come chi voglia dire « Dieci ». Ma io, in quel momento, non capii.
Ero rimasto a bocca aperta per lo stupore. Chowbok fece ruzzolare rapidamente le balle al loro posto e mi stette dinanzi tutto tremante, come in preda a un grande spavento. Sul suo volto si leggeva l’orrore - del tutto involontario, adesso —, come il panico istintivo di chi ha appena commesso un orrendo crimine contro potenze ignote e sovrumane. Scoteva la testa borbottando parole incomprensibili e indicando più volte col dito in direzione delle montagne. Non volle nemmeno assaggiare l’acquavite, ma, dopo pochi istanti, si precipitò verso la porta e fuggi dal capannone nella notte illuminata dalla luna. Quando finalmente riapparve, il giorno dopo, all’ora di cena, mi venne intorno avvilito e scodinzolante, trattandomi con abietta deferenza.
Non capivo il significato di tutto ciò. Come avrei potuto? Certo aveva in mente qualcosa che lo terrorizzava, qualcosa che per lui non era una mera fantasia. Il pensiero che mi avesse confidato tutto quello che sapeva e a cui teneva di più mi bastava, esaltava la mia immaginazione più che se, nell’ora trascorsa insieme, mi avesse raccontato una qualche storia chiaramente comprensibile. Ignoravo che cosa potesse celarsi dietro le grandi catene nevose, ma certamente valeva la pena di scoprirlo, ormai non potevo più dubitarne.
Nei giorni che seguirono tenni Chowbok a distanza, e non mostrai alcun desiderio di fargli altre domande; quando gli rivolgevo la parola lo chiamavo Kahabuka, cosa che lo lusingava molto. Sembrava avesse paura di me, e si comportava come uno che fosse in mio potere. Avendo perciò deciso di mettermi in viaggio appena finita la tosatura, pensai che mi poteva far comodo portarmelo dietro. Gli dissi che volevo fare un giro d’esplorazione di pochi giorni sulle montagne più vicine, e che doveva venire anche lui. Gli avrei dato ogni sera la sua razione di acquavite, gli dissi, e, chissà, forse avremmo trovato dell’oro. Alla catena principale non accennai nemmeno, perché sapevo che la sola idea lo avrebbe terrorizzato. Intendevo cercare di risalire con lui il corso del fiume, spingendomi, se possibile, fino alla sorgente. Una volta là, se non mi fossi perso d’animo, avrei proseguito da solo. Altrimenti sarei tornato indietro con Chowbok. Così, appena la tosatura fu terminata e la lana spedita, chiesi un congedo e l’ottenni. Comprai un vecchio cavallo da soma e un basto,