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I racconti d'oltreoceano
I racconti d'oltreoceano
I racconti d'oltreoceano
E-book363 pagine5 ore

I racconti d'oltreoceano

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Info su questo ebook

Pubblicato nel 1928 dal prestigioso editore torinese Paravia – noto soprattutto per la proficua collaborazione con Emilio Salgari – "I racconti d'Oltreoceano" raccoglie le impressioni annotate da Arnaldo Cipolla nei suoi viaggi fra penisola arabica, India e Africa equatoriale. L'occhio lucido di Cipolla, anche a distanza di quasi un secolo dai suoi avventurosi viaggi, si rivela un preziosissimo supporto per chiunque voglia addentrarsi in un mondo temporalmente lontano, ma anche per tutti coloro che desiderano apprendere di più sulle dinamiche che, ancora oggi, condizionano la vita in queste remote aree del mondo. Avanguardistico nell'approccio giornalistico (che ricorda, con decenni di anticipo, quello del grande Ryszard Kapuściński), così come nel genuino interesse per le popolazioni sottoposte al duro giogo coloniale, Cipolla rappresenta una lettura obbligata per chi è curioso del mondo e aperto alla scoperta dell'Altro...-
LinguaItaliano
Data di uscita1 dic 2022
ISBN9788728419540
I racconti d'oltreoceano

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    Anteprima del libro

    I racconti d'oltreoceano - Arnaldo Cipolla

    I racconti d'oltreoceano

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright © 1928, 2022 SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728419540

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrievial system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    This work is republished as a historical document. It contains contemporary use of language.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    AL LETTORE

    Dal mio passato è germogliata questa suggestiva storia che traduce le mie incancellabili nostalgie per la terra dove ho sentito nascere in me la prima passione dello scrittore.

    La tragica avventura di Evans è per la maggior parte vera: egli fu il mio predecessore in una perduta stazione lungo gli sterminati fiumi equatoriali. Ma più che a lui, ho voluto rendere un modesto omaggio agli uomini primitivi che furono i miei compagni e il mio conforto. E l’ho fatto anche perchè desideravo che potessero raccontare il loro dramma, attraverso le parole di qualcuno che ne aveva veduto lo svolgersi da vicino.

    Parecchi scrittori nostri che tentarono il gusto per le cose esotiche, ma che non ebbero la ventura di osservarle dove esse si svolgono, fecero rivivere con il loro preciso nome, alcune figure della tormentata umanità equatoriale che io descrissi nei miei primi libri sull’Africa Centrale.

    Oggi, Oto, Buocoié, Sonisia, grati di aver ispirato quelli che li conobbero soltanto attraverso le pagine giovanili del loro antico capo, lasciano il posto ad altri fratelli loro che in questo racconto rivivono.

    A.C

    I.

    SULL’ UELLÈ

    Era stato veramente uno straordinario colpo quello di Evans! La prodezza del bianco aveva suscitato nell’imbarcazione un così grande stupore, che i pagaiatori non si decidevano a riprendere la voga, i cinque uomini della scorta a finir di gettare nel sole esclamazioni di meraviglia e Mosila, lievemente sbiancata per la commozione del prodigio, di guardare, dal fondo dove stava accovacciata con gli occhi pieni di adorazione, il giovane dai capelli fulvi, che, ritto nel mezzo della piroga, con il fucile ancora fumante fra le mani, seguiva l’incomposto battere nell’acqua delle larghissime ali dell’uccello colpito.

    L’airone era stato raggiunto dalla fucilata, mentre volava basso sul fiume a più di quattrocento metri dalla piroga, con un solo proiettile che Evans destinava nel suo pensiero ad una preda ben maggiore, un coccodrillo, un ippopotamo, un elefante fors’anche…

    Ma quel giorno il grande Uellè era deserto. L’eu ropeo non aveva constatato mai, prima di allora, un così strano fenomeno, un’assenza così completa di ogni segno di vita, un silenzio così assoluto, piombato di pieno giorno sulle acque lente e sulla foresta delle rive.

    Ne aveva domandato la ragione agli ascari e Lukututo che era il più scaltro a sedurre femmine nella stazione e a tradurre in guisa intelligibile per il bianco i misteri equatoriali, aveva esclamato: «Oggi la terra inghiotte la vita», come avesse pronunciato un ora colo.

    I significati delle parole nel duro, sommario linguaggio sango, sono molteplici e spesso opposti. Lukututo aveva detto letteralmente che la terra mangiava o divorava la vita, ma forse avrebbe voluto esprimere che l’assorbiva temporaneamente, sotto il mistero delle selve vaste come l’oceano, per proteggerla. E perchè per proteggerla? Quale pericolo minacciava la vita del fiume, la sola vita sotto la luce del sole che in quel paese del sole, potessero distintamente vedere occhi mortali? La comparsa solenne degli armenti di pachidermi che attraversavano il fiume a nuoto, uscendo dalla densa verzura di una riva per immergersi in quella della riva di contro, la tranquilla meditazione di distese di pennuti che coprivano di un più intenso candore il bianco dei banchi di sabbia, il palpito dei milioni di farfalle che la brezza spingeva a nugoli disorientati sulla vasta superficie gialla della corrente, l’attesa dei natanti caimani all’agguato, sotto il pelo delle acque, l’esodo aereo delle tribù di scimmie che dai rami degli alberi, chinati verso il fiume, motteggiavano in uno stridore infernale gli atteggiamenti umani, sul limitare dell’indescrivibile follìa che la foresta nascondeva?

    — Lukututo, che cosa dice il sole? — aveva domandato ancora Evans, rinunciando alla difficoltà di una discussione linguistica e cercando in altra guisa di comprendere il pensiero del soldato.

    Il viso ossuto e feroce del giovane si levò verso il sole, gli occhi privi di ciglia ne sopportavano il fulgore senza socchiudersi, dal sole gli occhi discesero all’orizzonte, lo percorsero in giro e la bocca ripetè lentamente l’oracolo:

    — Oggi la terra mangia la vita.

    Il bianco aveva fatto un gesto d’impazienza, ma non era nella sua abitudine e neppure nel costume delle sue relazioni con i neri, di mostrare d’essere stato preceduto in una previsione del genere di quella alla quale le parole del soldato potevano avvicinarsi.

    Non era egli con i suoi piccoli «specchi lucenti», con i suoi strumenti scientifici, per quei selvaggi, il divinatore di ogni fenomeno celeste o terreno? Non bastava la sua forza morale, il suo prestigio di bianco, mezzo dio e mezzo demone, a far vivere lui ed i pochi uomini della sua razza, in una relativa sicurezza, sulla terra piena di insidie, fra decine di migliaia di cannibali, dominandone la violenza anarchica ed infantile degli istinti e dei costumi?

    Evans aveva taciuto e la piroga continuava la strada che le facevano fare le diciotto pagaie dei diciotto rivieraschi sango, dalle capellature tinte di rosso, scintillanti di umida nudità e possenti di muscoli.

    La sua strada sul fiume aveva continuato la grandissima piroga, figlia di un tronco alto e grosso come una colonna di basilica, sotto il sole che arcisfavillava sul lento Uellè, ampio come un ramo di lago, portandosi il cacciatore bianco dai capelli fulvi, la sua scorta, Mosila innamorata e i diciotto rematori sango che cantavano spalancando e chiudendo le loro bocche, piccole voragini di fuoco nei visi nerissimi, dove guizzavano le candide fiamme delle dentature.

    Evans seduto nel mezzo, sotto la copertura di paglia che lo difendeva dal sole micidiale, aveva dinanzi a sè Mosila che lo beveva con i suoi languidi occhi. E quando le mani dell’europeo si abbandonavano sulle ginocchia, la donna appoggiava la bocca sul dorso della calda mano bianca, perchè il giovane dai capelli fulvi sentisse l’amore di Mosila.

    Il fucile di Evans era stato caricato con una cartuccia a palla blindata capace di forare il cuoio dell’ippopotnino o di spaccare il piatto cranio del coccodrillo. Ma nè le teste mostruose e sbuffanti degli uni e neppure il dorso bruno degli altri s’erano mostrati a fior d’acqua nel corso delle lunghe ore, per cui il bianco aveva bevuto la noia alla sazietà, sino a respingere la carezza snervante di Mosila.

    Evans aveva veramente provato a far avvicinare la piroga alla riva sperando di scorgere fra il fogliame la ginnastica misurata dei grossi gorilla. Ma le pareti di verzura erano immobili, come se le foglie e le liane fossero diventate di rigido metallo.

    D’improvviso, era apparso l’airone.

    Volava solitario, sfiorando la superficie del fiume, alzando ed abbassando lentamente le ali, a farsi inghiottire anche lui dalla terra, pieno di stupore di trovarsi così solo sul deserto scintillante. L’europeo gli aveva tirato per disperazione, per fare qualche cosa di diverso dallo stare disteso sulla sedia ad udire le nenie dei pagaiatori e i dialoghi brevi dei cinque ascari.

    Veramente, quei dialoghi, non erano importuni. Evans ascoltandoli, aumentava l’imponderabile corredo di conoscenze dell ambiente, che valevano a farlo penetrare nei segreti della terra che stava prendendosi la sua giovinezza, imprimendogli nell’animo il morso della sua indistruttibile nostalgia e facendogli a poco a poco dimenticare i gusti e la morale della sua natura civile, soverchiata dal dominio degli istinti che la terra violenta e gli uomini primitivi gli andavano imponendo.

    In quel giorno Evans era annoiato e propendeva all’odio per gli esseri, così diversi da lui, che lo circondavano. Già si era accorto che la sua vita, sulle rive senza fine del grande Uellè, si poteva dividere in giornate d’entusiasmo e in giornate d’odio. Non esisteva nella sua esistenza una condizione media, uno stato normale di quietudine. La terra e gli uomini non lo permettevano. Essa era incantevole o terribile e gli uomini si mostravano infantili o spietati.

    Persino Mosila che racchiudeva nel suo corpo la mollezza seducente del breve volo degli uccelli di paradiso e gli aveva dato spesso con il suo amore la sensazione di possedere con lei la dolcezza mortale di tutte le prostrazioni della sua terra e la dedizione senza mistira di una natura nata unicamente per vivere e per riprodursi giocondamente, le appariva in certe giornate ripugnante e irragionevole come una giovane leoparda.

    Era annoiato l’europeo e la faccia di Lukututo che seguiva impassibile il ritmo della voga, pronto a castigare inesorabile ed immediato, con un colpo del suo lungo staffile di pelle d’ippopotamo, il pagaiatore svogliato, gli ispirava odio.

    Selvaggio bestiale al quale dieci anni di convivenza con i bianchi non erano bastati a domarne gl’istinti, che lungi dall’occhio del suo capo lo avrebbero fatto precipitare nella brutalità delle origini.

    L’europeo ora scordava che a quel bruto e al suo istinto aveva dovuto spesso la vita. Non lo vedeva più accanto a sè nella marcia in foresta, indicargli muto la pista recente dell’elefante, il tranello nascosto del selvaggio ribelle, i segni precursori dei pericoli diabolici che la terra vergine prepara irreconciliabile sul cammino dell’esploratore. Non lo ricordava più, rannicchiato ai piedi del suo lettuccio da campo, quando il bianco tremava e batteva i denti per l’attacco della febbre, assorto nella lotta che l’europeo aveva ingaggiato con il male, mentre le sue mani annaspavano nell’aria lo scongiuro contro gli spiriti della morte, venuti ad assidersi invisibili sotto la tenda dell’esule. Non lo pensava consigliere prezioso, amico discreto, confortatore inconscio, rivelatore geniale e continuo delle infinite risorse del fiume e della foresta, nella dura vita quotidiana che era tutta una lotta contro il sole, contro l’acqua, contro le piante, contro gli uomini, contro gli animali mostruosi o gli insetti quasi invisibili dal morso velenoso, contro il clima.

    Evans si rammentava soltanto della storia di Lukututo, fanciullo superstite di una tribù lontana, sterminata dai soldati della colonia dopo il massacro che le sue genti avevano fatto di una missione religiosa insediatasi nella foresta ad iniziare la vana pena di evange lizzare i cannibali. Lukututo aveva assistito al massacro degli uomini pallidi dalle lunghe barbe e ricordava in tutti i particolari il martirio loro e quello delle loro compagne anemiche.

    Gli antropofagi li avevano sorpresi nella notte di Natale, mentre la missione era riunita, con i neofiti, nella chiesetta dal tetto di paglia, costellata di luci.

    Una campanella squillava sotto le stelle le nostalgie della lontananza e raccontava agli alberi centenari il fervore ostinato delle serafiche intolleranze di Cristo, disceso lungo i fiumi equatoriali.

    Suonava veramente con persistenza l’adunata per i cannibali massacratori e l’agonia per gli inconsci morituri. I bianchi erano stati catturati senza battaglia, senza spargere il sangue. Da principio non si erano spaventati, durarono a parlar forte tutta la notte alla turba che li circondava, gli uomini con le loro voci gravi, le donne con le loro frasi stridule, sicuri che al levar del sole sarebbe avvenuto il miracolo della conversione e della liberazione. Avevano persino cantato in coro le lodi del Signore. Ma quando videro guizzare l’incendio fra le casette della missione e la chiesa ardere come una torcia, cessarono il canto e divennero lividi per il terrore.

    Uno solo parlò ancora, un vecchio giallo per le molte febbri e bianco di barba.

    Parlò al capo della tribù, gli dipinse le conseguenze terribili della repressione che sarebbe piombata a vendicare la morte dei missionari, descrisse la sua terra messa a ferro e a fuoco, la sua gente uccisa e dispersa.

    Il capo ascoltò, ma non rispose. Aspettava che il sole nascesse. E quando il sole sorse sulla muraglia della foresta ed ebbe dissipato le nebbie del fiume, il martirio incominciò.

    Gli uomini, le donne, i neofiti, vennero legati agli alti rami degli alberi e lasciati cadere al suolo, tante volte sino a che le loro ossa furono poltiglia con la carne, nel sacco nei miseri corpi. Dopo la danza infernale di tutta la tribù attorno allo scempio sanguinante, il festino cannibalesco cominciò e durò fra il fuoco e urla tutto il giorno, sino al tramonto, sino a che tutti furono sazi di cibo ed ebbri di gorgogliante vino di palma, sino a che la tribù intera s’addormentò, esausta d’orgia, sotto gli alberi del martirio, dimentica del sopravvenire fulmineo, dal fiume, della vendetta.

    Irruppero i fez rossi sulla spianata tragica e le voci dei fucili echeggiarono nella foresta e il sangue corse a torrenti e nessuno fu risparmiato. Lukututo, fanciullo, nascosto sui rami delle piante, rimase solo a contemplare il passaggio dei suoi dal sonno dell’orgia alla morte, l’incendio dei villaggi, la terribile vendetta dei dominatori.

    Ora Evans guarda Lukututo, il cannibale rampollo di cannibali, il custode vigile della sua incolumità. Perchè odiarlo? Non è stato egli stesso che semplicemente, naturalmente ha temperato nell’anima dell’europeo la ripugnanza per la pratica orrenda, suggerendogli:

    — Ti adiri perchè questi uomini divorano uomini. Non perseguitarli, non punirli. Procura loro carne di fiera, uccidi per loro elefanti e bufali ed essi si ciberanno di questi e scorderanno il gusto dolciastro dell’uomo.

    Perchè odiare l’erculeo Pembe, l’inaudito ingordo, e la sua faccia di gorilla, e non pensare che le sue larghe spalle hanno portato, per centinaia di chilometri di palude, il conforto indispensabile all’esploratore?

    Perchè detestare Mayumbe, l’arciladro, e non rammentare la delicatezza con la quale egli raccoglie i fiori del cielo infocato, le meravigliose iridescenti farfalle che tu ami, Evans, e prepara serie di imbalsamati uccelli stupefacenti, senza altro ausilio che il suo coltello e il sole?

    Perchè essere geloso di Matembele, perfetto nel corpo come nella menzogna, che insidia i sensi della bella Mosila?

    Lukututo, Pembe, Mayumbe, Matembele, Mosila e l’ultimo dei suoi fidi, Magonde, che il sole addormenta e l’ombra della notte risveglia, raddoppiando la percezione dei suoi sensi, come ad un animale delle tenebre per la sicurezza del riposo del bianco, ecco gli amici, i fratelli del cacciatore dai capelli fulvi.

    A lui sembrano quasi simili di razza, ma differenze fondamentali li dividono, migliaia di chilometri separano le regioni donde provengono, iddii diversi adorano, lingue differenti parlano. L’esoticità dell’europeo, nello sfondo della sterminata uniformità del paese equatoriale, attenua le loro differenze, smorza la loro umanità, sino a farli apparire come inanimate cose che il pensiero non ingombrano, che il cuore non occupano, che la gratitudine non domandano, che il piacere appena sfiorano, cose, cose, nella formidabile materialità della vita primitiva.

    II.

    MOSTRATI A NOI, MISERI, FIGLIA FELICE DELLA FORESTA PROFONDA!

    L’airone lontano era stato colpito per uno di quei miracoli che non si verificano due volte nella carriera di un cacciatore ed ora le sue grandi ali battevano l’acqua nello sforzo per liberarsi dalla sgomentevole pania. Poichè per un grande uccello ferito, il fiume è una pania mortale, dalla quale è impossibile sollevarsi, liberarsi più. La corrente portava con rapidità le vaste ali convulse verso la piroga. Ma chi raccoglie un airone ferito su di un fiume equatoriale? L’episodio era finito, l’uccello avrebbe dovuto essere abbandonato alla sua luminosa agonia.

    Invece fu raggiunto, afferrato per le ali, gettato nello spazio libero sul fondo dell’imbarcazione, ai piedi di Evans e di Mosila.

    Perchè? Perchè le sue ali erano candide come l’avorio? Per onorare l’eccezionale colpo del bianco?

    Mayumbe aveva steso le mani per afferrarlo, mentre filava sul fianco della piroga, spruzzando acqua sui navigatori e l’aveva gettato vivo sul fondo. Si fanno tante cose senza motivo! E senza motivo l’enorme uccello fu ospite nella barca.

    Le sue ali erano così immense che il rozzo galleggiante sembrò le avesse in un momento generate sui bordi per aiutarlo a procedere. L’airone era appena ferito, il proiettile gli aveva toccato la sommità di una coscia sfiorando la parte inferiore del corpo e disegnando sul candore soffice delle piume del ventre una riga rossa di sangue. Ma le ali erano intatte e solo il dolore per la ferita doveva averlo fatto cadere e dava ora ai suoi occhi rossi, rotondi un’espressione d’inesprimibile ira. L’uccello l’aveva manifestata appena preso, menando intorno colpi disperati con l’acuto, lunghissimo becco.

    Per qualche minuto la piroga era stata piena di grida. Aveva strillato Mosila ricevendo un colpo di becco sul petto ed i soldati pure, che nelle braccia e nelle mani portavano segni sanguinosi della rabbia del pennuto. Di modo che Lukututo era stato sollecito a colpire la bestia sulla testa, con il calcio del fucile, facendo risuonare sordamente l’imbarcazione, inchiodando al fondo l’airone, con le ali spiegate, le gambe tremanti di agonia e il cuscino soffice del suo corpo sussultante. Il becco si era aperto e richiuso due o tre volte, battendo con rumore di legno, gli occhi avevano raccolto la luce sfavillante del giorno, poi si erano chiusi e tutto sembrava finito per lui.

    — Avanti, avanti, pagaiatori! La piroga non cammina. Immergete le pagaie sino ai polsi!

    — Che può farsene il bianco di quella bestiaccia nella piroga?

    — Bianco, gettiamola via, — dice Mosila tenendosi una mano sulla ferita sanguinante.

    Ma Evans non vuole che la bestia sia buttata nell’acqua. Perchè? Se i neri sapessero darsi spiegazione dei capricci dei bianchi, da lungo tempo essi non sarebbero i padroni dei vasti fiumi, di cui tre decenni or sono ignoravano il corso.

    La volontà del bianco non si discute e neppure il suo capriccio.

    Se gli venisse in mente di gettarsi a nuoto, nessuno penserebbe che egli andrà incontro alla morte, alle prime bracciate, azzannato dai caimani. Tutti crederebbero che il bianco ha seco un talismano per tenerli lontani.

    Se Evans scendesse a terra e si mettesse a parlare con le nuvole o con le piante o camminasse carponi, nessuno penserebbe che fosse impazzito.

    Si può forse trovare inesplicabili le azioni del bianco, quando tutta la sua vita è fatta di sortilegi, di misteri, di volontà assurde, di propositi stravaganti, inspiegabili, fra ferocie e debolezze?

    Ma l’uomo dai capelli rossi medita in quel momento un mistero ben più dolce a causa di Mosila, che si lamenta per il bruciore della ferita e lo prega di guarirgliela. Evans ha tolto di sotto la sedia la scatola di metallo dei medicinali e apertala e trattone fuori un batuffolo di cotone, comprime leggermente il taglio che ancora sanguina, sulla pelle finissima della fanciulla, alla sommita del seno.

    — Ti duole, baila? Non è nulla. Presto um sauguinerà più.

    Mosila vorrebbe che Evans sciogliesse una lunga benda e la medicasse come ha veduto fare una volta per Matembele colpito da una freccia bangala¹. La donna vuole che il suo amante le cinga il corpo di bianco. Le pare che così ogni dolore scomparirà e che la sua civetteria sarà soddisfatta, giungendo alla stazione, vestita in un modo nuovo.

    — Mosila, il tuo non è male da bende. Tu sai che non ne abbiamo da buttar via. L’airone ti ha toccato appena, si è innamorato di te morendo, ha voluto dirtelo.

    La giovinetta si è messa in ginocchio dinanzi ad Evans chino verso di lei. Le facce dei due giovani sono alla stessa altezza, l’ala del largo cappello dell’europeo tocca la fronte della fanciulla. Mosila si convince che la benda non è necessaria, ma vuole almeno che Evans le tenga la compressa contro la ferita, sino a che il sangue non uscirà più. Crede di aver trovato un mezzo ingegnoso per sentire il più a lungo possibile il contatto del suo amante, che sempre le sfugge e l’allontana anche nella vicinanza immediata e continua della vita quotidiana.

    Il bianco l’accontenta per un poco e poi, con dolcezza, la respinge, sostituendo, sulla sommaria medicazione, la mano della fanciulla alla sua. Mosila s’abbandona di nuovo, discostandosi, ma i suoi occhi non si staccano dal viso di Evans. Non è uno sguardo di rimprovero il suo. Essa è così lontana dal concepire un risentimento! È così immensamente lontana dai pensieri che passano sotto i capelli fulvi!

    Mosila è una preda della prima esplorazione lontana di Evans, nel mistero della terra sconosciuta.

    Quand’essa, venuta dall’imo della foresta, era apparsa nella stazione, sulla riva del fiume, fra le flaccide donne che conoscevano le stoffe di Europa e la fatica del lavoro della terra, nel mondo stanco e sconvolto dove i bianchi soggiornano, s’era creduto alla discesa di una divinità.

    Dai minuscoli villaggi resi semideserti dalla ma lattia del sonno, dalle comunità indebolite per l’implacabile servaggio imposto dai dominatori, dalle capanne abitate dai miseri cercatori di caucciù e dagli scheletriti portatori di carichi attraverso i domini della tzè-tzè, che condannano l’uomo alla soma animalesca; da tutto il mondo assoggettato al castigo del lavoro, sulla terra che uccide chi, lavorando, insulta l’offerta generosa ed inesauribile della natura tropicale all’uomo; si accorreva per vedere la bella Mosila, la personificazione delle genti libere, nascoste nella foresta che ignorano la spietata faccia dei bianchi.

    «Mosila, mostraci il tuo volto ridente, incontaminato dai tatuaggi orrendi che noi abbiamo copiato dalle genti delle acque lontane, mostraci i tuoi grandi occhi e le sottili foglie segnate sulle tue tempie che testimoniano che tu sei pura figlia dei Bantù, simili allo Nzapa che ha creato il sole!».

    «Mosila, mostraci i tuoi capelli soffici, le tue braccia tornite, le movenze sapienti delle danze che noi ab biamo dimenticato, i tuoi piccoli piedi e le tue piecole mani, perchè noi possiamo credere che i Bantù nostri padri, salvati dall’obbrobrio del lavoro, mondi dei mali dei bianchi e degli incroci con le genti schiave, esistono ancora nella foresta».

    Così aveva gridato la folla nella lingua che i bianchi non intendono, accorrendo al mercato sulla spianata della stazione, prospicente alla casa di Evans. Mai quella folla era stata così numerosa, così puntuale al convegno, così diligente nel recare il tributo dei suoi sacchi di caucciù, delle sue arcuate zanne d’avorio, dei suoi grappoli di banane, dei suoi cesti di pesce affumicato, dei suoi pacchi di manioca avvolti nelle foglie.

    Ma era per vedere Mosila che tutti accorrevano; vecchi che portavano ancora attorno alle reni il bongo, la fibra tolta dai tronchi delle piante, in luogo della stoffa ed avevano perduto la memoria del tempo nel quale le rive del fiume erano coperte da ininterrotti villaggi ed ignote le «grandi piroghe che camminano zenza pagaie»; giovani nati nello spavento della scoppiante rivelazione delle armi da fuoco, apparse a far cadere di mano ai primitivi le lance, gli archi, i coltelli; fanciulli che avevano nei corpi intristiti la maledizione dell’incivilimento, la condanna al lavoro, alla vita nomade, all’esilio.

    Ma Mosila rimaneva nascosta nella casa del bianco, nella casa di Evans, dai mattoni rossi e dalla veranda chiusa da spesse stuoie. E non sentiva l’appello dei suoi fratelli degenerati. Non che le loro voci non le pervenissero, ma le scambiava per osanna intorno al mistero che si stava compiendo fra essa e il suo giovane amante.

    III.

    IL SOGNO DELL’IGNOTO, NELL’AMACA DONDOLANTE SULLE SPALLE DEI PORTATORI

    Le ali aperte dell’airone, da una parte e dall’altra della piroga, sfiorano con le loro estreme penne l’acqua e vi segnano due tenui scie; il cammino delle distanze che non è consentito percorrere rapidamente, lo scoramento di non disporre che della piccola forza del proprio corpo per superarle.

    Evans, che cos’è l’ignoto equatoriale se non quel cammino e quello scoramento?

    Hai fuggito la civiltà degli uomini del tuo colore, sei venuto nella terra di tutti gli oblii, del pieno abbandono, delle massime distanze, per trovarti faccia a faccia con l’ignoto.

    Nessuna delusione è stata per te più cocente di quella raccolta alla prima meta del tuo lontano esilio.

    Di molti fra coloro che ti assomigliavano e ti precedettero qui in numero esiguo, hai potuto leggere il nome sulle rozze croci delle loro fosse, sparse lungo le rive sterminate dell’Uellè. Brevi epitaffi raccontano che essi caddero sulla terra vergine per la causa della civiltà, ma l’eredità, che ti hanno lasciato i morti e i vivi è così pietosa e vasta, da farti misurar appieno quale spaventosa violazione di uomini primitivi ha accompagnato il dramma della loro vita sotto questo cielo.

    — L’ignoto — hai pensato — non può essere qui, dove la liana si è gettata a coprire con le sue reti inestricabili le radure dei villaggi abbandonati, qui dove si paventa la mia presenza e mi si chiama con gli aggettivi della morte e del terrore. L’ignoto è fre schezza, verginità, incoscienza. Qui non v’è che dolore e dissoluzione. «Lukututo, Matembele — domandasti — dov’è l’ignoto? Dov’è la terra non veduta da altri prima di me? Voi, soldati del bianco, strumenti della sua forza, dovete condurmici».

    Lukututo e Matembele facevano le loro facce più impenetrabili, urtanti, nemiche; rispondendo che non esistevano uomini da scoprire nella vastità delle selve. Essi le avevano battute in tutte le direzioni, percorrendole per mesi interi senza mai vedere il sole. Il desiderio di Evans era uguale a quello dei suoi predecessori. Dalle loro bocche eran uscite le stesse domande. Anch’essi stanchi della miseria degli uomini lungo il fiume, volevano cercarne altri sconosciuti e lontani. Erano stati increduli, avevano voluto provare di persona, infliggere ai loro corpi il tormento di marce per mesi, senza vedere mai il sole, della lotta metro per metro con la liana, seguendo le piste degli elefanti, camminando sino al petto nelle acque d’immense paludi, saltando da tronco a tronco.

    Erano tornati esausti, ammalati, gli ascari aevano dovuto trasportarli al fiume come fardelli. Ed alcuni non avevano più riveduto il fiume, uccisi dagli stenti, dalla febbre, dalla disperazione, invocando il sole.

    — Credi, bianco, — concludevano gli ascari — la foresta non rinserra uomini nuovi. Quelli che dal fiume fuggirono per cercarvi asilo e andare a costruire altri villaggi lontani dal fiume, che il bianco non avrebbe ritrovato, sono morti affogati nella sua notte.

    Ma Lukututo e Matembele mentivano per non sottoporsi di nuovo al tormento di ritornare a far da guida al bianco nell’ignoto che non si può percorrere che con le deboli forze del proprio corpo. Mentivano con la speranza di ostacolare la sua volontà di distanza e di sofferenza. Facevano d’istinto da inconsci salvatori della fragile esistenza degli sconosciuti primitivi sfuggiti al suo dominio e dal quale solo la distanza e la sofferenza li separava.

    Evans decise:

    — Voi mi accompagnerete più lontano di quello che avete condotto gli altri.

    E Lukututo e Matembele e Pembe e tutti gli ascari della stazione e i cento portatori raccolti a forza nei villaggi e le donne, obbedirono. Il bianco aveva parlato, la sua volontà era d’immergersi nella foresta per camminarvi più lontano degli altri bianchi. Bisognava seguirlo per diventare vittima del desiderio di cui egli stesso era vittima. Ma esiste un nato sulle rive dei grandi fiumi equatoriali capace di misurare la sofferenza giorno per giorno e di sommarne attraverso il tempo l’atroce costanza?

    Evans si è ingolfato nelle selve senza fine seguito dai suoi ascari, dai cento portatori che portano le sue casse, dalle donne che accenderanno a sera il fuoco e cuoceranno i cibi.

    Il suo pensiero dominante va al di là degli itinerari percorsi dai predecessori, di cui ha studiato i particolari sulle carte della stazione, rosicchiate dalle formiche bianche, che pur raccontando drammi di insufficienza di mezzi, tormenti e sovrumane fatiche, contenevano l’arcano incitamento a perseverare.

    Una sensazione strana domina Evans. La luce erepascolare della foresta, il groviglio delle liane, l’inverosimile eco delle voci della carovana, i fantastici aspetti degli alberi, la natura indeterminata del suolo, odori nuovi ed acri dell’immane decomposizione vegetale, il sentirsi, malgrado la vicinanza, separato dalla sua colonna, della

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