Il nostro Pasolini: Saggi e note 2006-2023
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In copertina: Ritratto di P.P. Pasolini, 1976, di Giacomo Porzano, Archivio Giacomo Porzano
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Anteprima del libro
Il nostro Pasolini - Massimo Raffaeli
Massimo Raffaeli
Il nostro Pasolini
Saggi e note 2006-2023
engageante
Collana di critica letteraria
direttore
Antonio Tricomi
In copertina: Ritratto di P.P. Pasolini, 1976, di Giacomo Porzano, Archivio Giacomo Porzano
P ubblicato n el g ennaio 202 4
Rogas Edizioni
© Marcovaldo di Simone Luciani
viale Telese 35
00177 – Roma
P. Iva 11828221009
e-mail info@rogasedizioni.net
sito web: www.rogasedizioni.net
Facebook: Rogas Edizioni
Instagram: @rogasedizioni
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ISBN: 9788845294778
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Ringraziamenti
a Tonia
«O nave
de la cità lontana»
Franco Scataglini, Philodemon
Indice
Ringraziamenti
Premessa
Il nostro Pasolini
Il nostro Pasolini
Forma e politica
Cinque parole per Roversi
Paesaggio di Volponi
L’antifascismo di Bassani
Le armi di Fenoglio
Calvino, la Resistenza per iscritto
Sul Gruppo 63
Penultima generazione
La prima immagine di Attilio
Vs.
Antologia di Benzoni
Lanaro nel suo percorso
Simoncelli e l’elegia
Discorso su Francesco Scarabicchi
Nota per Davoli
In forma di ablativo
Breve viatico per Fabio Pusterla
Prefazione a Marco Ferri
Poesie recenti di Alziati
Un’età della prosa
Un romanzo di Quarantotti Gambini
Gli inganni di De Feo
Racconti di Bruno Fonzi
Un’educazione sentimentale
Cinematografo
CineGodard
Truffaut critico
Hammett, Polonsky e la narrativa di genere
Arno Schmidt, una costellazione
L’amour fou di Zurlini
Lizzani e un vecchio cineclub
Un critico militante
Il film della mia vita
engageante
Premessa
Raccolgo qui, su invito dell’amico Antonio Tricomi, alcuni miei recenti testi critici. Già il titolo, immediatamente retrospettivo, può suggerirne il senso e la destinazione alludendo, se non a un bilancio vero e proprio, a nomi e situazioni per me da sempre essenziali che decenni di lavoro non hanno abiurato. Pier Paolo Pasolini (il suo assassinio corrispose per i ventenni della mia generazione alla perdita dell’innocenza) fu l’oggetto del primo articolo che osai firmare, ma si trattava in effetti di qualcosa di simile a un tema, su un foglio studentesco, al ciclostile, del liceo di Ancona nel novembre del ’75. E Pasolini sarebbe sempre rimasto al centro di una costellazione di riferimenti e di incontri personali (nomi primi, nella Bologna dei pieni anni S ettanta, Roberto Roversi e Gianni Scalia) oltre che emblema di un’idea della letteratura in costante dialogo con il pensiero critico o, anzi, critica in sé stessa come testimoniano, disposte a corona nella prima parte di questo libro, le figure di Italo Calvino, di Giorgio Bassani e dell’indimenticabile Paolo Vo l poni. A tutti costoro, anche se per lo più declinabili in prosa, si associa in me la passione primordiale per la poesia che qui riferisco a poeti della mia generazione (talora amici fraterni, a partire da Francesco Scarabicchi), autori il cui lavoro ho seguito nei decenni con la soddisfazione di vedere via via precisarsi alcune tra le fisionomie più certe della poesia italiana contemporanea. E se tardivi sono stati da parte mia la confidenza e lo studio della forma‒romanzo, perché da ragazzo il mio pane erano la poesia e la saggistica, col tempo è comunque subentrata l’attenzione a figure di prosatori più eccentrici (sono tali, per esempio, Quarantotti Gambini e Salvatore Bruno, letti con la ostinazione dovuta agli outsider ), autori capaci, nel pieno di una controversa asperrima fra gli anni C inquanta e S essanta, di realizzare una giunzione delle strutture del romanzo tradizionale con le inquietudini di una ricerca sperimentale che tuttavia non comportasse un gelido intellettualismo o la rinuncia alla leggibilità. Quanto poi all’inclusione in questo volume di una parte intitolata Cinematografo , dovrei fare subito il discorso inverso perché si tratta di una passione altrettanto nativa (il primo film di cui ho memoria, veduto al cinema, è Il colosso di Rodi ma non potevo sapere l’avesse girato Sergio Leone), una passione presto divenuta viziosa che, peraltro, non ho mai potuto né voluto distinguere da quella per la letteratura.
Mi accorgo infine che la più parte dei testi qui raccolti concerne l’opera di maestri o di autori coetanei. È possibile che ciò richiami una presbiopia aggravatasi con il passare del tempo e persino una certa diffidenza senile nei riguardi dell’altro e del nuovo, ma dà piena conferma a quel verso di Montale secondo cui, sul serio, ognuno riconosce i suoi.
M. R.
Il nostro Pasolini
Il nostro Pasolini
«oh ragazzi sfortunati, che avete visto a portata di mano
una meravigliosa vittoria che non esisteva»
P.P.P., La poesia della tradizione
Credo che chiunque abbia la mia età ricordi con precisione dov’era e che cosa stava facendo nell’atto di apprendere la notizia della morte di Pier Paolo Pasolini. Non faccio eccezione, ho la stessa età di Pelosi il suo assassino e d’altronde quel 2 novembre del ’75 il nome del poeta mi era noto da anni. Da ginnasiale, nel corso di una lunga malattia, degente in casa, non so come mi era capitata tra le mani la piccola auto-antologia, nei tascabili Garzanti, delle Poesie con la celebre prefazione Al lettore nuovo: ero uno di costoro, totalmente impreparato pure se proclive, in una qualche misura che ora non saprei definire, alla poesia. È il nome di Gramsci, nel titolo del poemetto, che deve avere fatto da detonatore perché io ho avuto interessi politici sempre prevalenti e anzi primari essendo stato educato in una famiglia (nonni e zii paterni) di militanti comunisti. Non dovevo essere tuttavia così ligio alla linea perché ricordo che in casa il nome di Pasolini veniva più che altro associato a film che tutti allora, anche a sinistra, ritenevano scandalosi o comunque inopportuni e poco idonei, per stare al mio caso, alla formazione di un buon comunista. E invece, benché severamente vietato ai minori, riuscii a vedere al cinema già il Decameron (1971) e ne amai d’acchito alcune sequenze, specie la novella di Andreuccio da Perugia in cui Ninetto Davoli spensierato e volitante negli ipogei napoletani agisce un suo piccolo romanzo di formazione in cui rivivono a momenti, quasi per miracolo, la levità e la grazia di Charlie Chaplin. Ma Pasolini lo conoscevo meglio sotto un altro aspetto che non è quello del cinema o della stessa letteratura anche perché allora ero uno studente di gusti classicisti abbastanza esclusivi e la mia conoscenza degli autori moderni era pari a una vasta desolata brughiera dove resistevano, appena, certi romanzi russi o francesi dell’Ottocento e senz’altro Dostoevskij che un giorno avrei associato all’anima esulcerata di Pasolini medesimo. Va aggiunto che ero un figlio della Guerra fredda ma anche del Welfare, così ogni pomeriggio potevo approfittare della sala di lettura nel C.R.A.L. (detto allora «dopolavoro», alla maniera fascista) della Manifattura Tabacchi in cui lavorava mio padre e qui mi era concesso di leggere una quantità impensabile di giornali. Il nome di Pier Paolo Pasolini capeggiava in prima pagina sul «Corriere della sera» e sempre lo seguivo fino a contrarre un’abitudine, tant’è che alla fine lo aspettavo cominciando a riconoscerne la fisionomia linguistica e stilistica. Si trattava ovviamente degli articoli che sarebbero confluiti nei volumi degli Scritti corsari (Garzanti 1975) e delle lettere Lettere luterane (Einaudi 1976), usciti postumi di pochi giorni e che posseggo nella princeps rispettiva, sdruciti e ingialliti, due libri che mi avrebbero accompagnato negli anni alla maniera di livres de chevet pure se, in retrospettiva, mi accorgo del fatto che in realtà di Pasolini ho scritto pochissimo.
Quegli articoli mostravano una semiotica che sarebbe diventata di senso comune con le immagini dei capelli lunghi, delle lucciole e del Processo da intentare ai notabili della Democrazia cristiana: quest’ultimo ai giovani comunisti andava a genio, molto meno ai quadri e ai vertici di un partito, il Pci, allora impegnato a edificare non il socialismo bensì il cosiddetto «compromesso storico» proprio con i democristiani, in attesa di associarsi con costoro ‒ e virtualmente suicidarsi ‒ di lì a poco nei famigerati governi di salute pubblica sorti a cavallo dell’assassinio di Aldo Moro e di una crisi politica e istituzionale senza precedenti. Ma a Pasolini non interessava certo la politique politicienne, il suo credito andava alla base del partito o a una idea per certi versi addirittura mitologica del Pci, la cui immagine neanche la brutale espulsione del ’49, in Friuli, aveva potuto sfuocare. Solo qualche anno prima, nel ’68, nei giorni di Valle Giulia, affermando provocatoriamente di stare dalla parte dei poliziotti, aveva pubblicato su «L’Espresso» un articolo in versi (un poemetto in prosa deliberatamente atona) sul cui titolo non si può certo equivocare, Il Pci ai giovani!! Vi accusava i figli contestatori dei padri borghesi di essere in realtà ancora più borghesi e cioè di esserlo deliberatamente, à la page, non più da arcaici bigotti ma da laici e da individui felicemente cinici, spietati. In tutto, pertanto, peggiori dei padri. In ogni caso, gli articoli di Pasolini presentavano un lessico politico nuovo e di forte pregnanza dicendo di Omologazione, di Mutazione Antropologica, di Genocidio delle culture popolari, infine di Universo Orrendo: egli non stava parlando di una sovrastruttura o di un apparato politico ma constatava la dinamica di un modello produttivo ormai onnipervasivo e per lui, alla lettera, totalitario. Distinguendo nettamente tra «sviluppo» e «progresso» Pasolini per via indiretta denudava anche l’impotenza teorica del Pci a cogliere la natura del neocapitalismo italiano quando a Frattocchie, nella scuola di partito, ancora si insegnava che il problema dei problemi, e cioè la questione meridionale, stava tutto nella «arretratezza» produttiva del Sud rispetto al Nord. Come aveva intuito una dozzina di anni avanti Raniero Panzieri, del neocapitalismo il Pci non intendeva nulla se non per eccezione o per tardive isolate resipiscenze, come nel discorso all’Eliseo del 15 gennaio del ’77 quando Enrico Berlinguer avrebbe parlato della «austerità» nei termini di un valore operaio da opporre all’edonismo consumista della borghesia: soprattutto a sinistra la tesi sarebbe stata fraintesa e dileggiata quale aperta concessione alle più grette politiche confindustriali di contenimento salariale. In realtà Pasolini non diceva nulla di nuovo circa la natura del neocapitalismo e delle società affluenti che non avessero già detto la Scuola di Francoforte e certi libri immediatamente divenuti di culto presso le élites studentesche dei contestatori, per esempio i Minima moralia di Theodor W. Adorno e L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse. Ma Pasolini vi apportava la vibrante vividezza del suo lessico, la forza delle immagini (le lucciole, appunto) nonché l’oltranza tridimensionale della propria esperienza corporea: ciò gli conferiva ogni volta la forza travolgente, incontestabile, della profezia ovvero l’evidenza di una autentica e scandalosa parresìa. (Negli ultimi tempi e quasi in punto di morte, quando si trovò a polemizzare sui giornali con gli amici più cari a proposito del massacro del Circeo, a non pochi di noi le obiezioni di Italo Calvino e Alberto Moravia parvero di un illuminismo astratto e attardato, quelle dell’«Unità» stanchi rilievi di prammatica). A Pasolini non bastava il dirsi antifascisti ma per lui occorreva essere anticapitalisti e avversare nel concreto questo modello di capitalismo, la cui produzione non è soltanto di merci a mezzo di merci, come insegna Piero Sraffa, ma anche, e oggi più che mai, produzione di rapporti umani. Perciò quando Pasolini chiedeva al suo amico Gianni Scalia di «tradurlo», in effetti gli chiedeva di farlo nel linguaggio della economia politica. Del Nuovo Fascismo propagato dalla società delle merci e dei consumi, tratta nel testo che apre Lettere luterane eloquentemente intitolato I giovani infelici:
[…] l’unificazione è avvenuta sotto il segno e per volontà della civiltà dei consumi: dello ‘sviluppo’. Non si può dire che gli antifascisti in genere, e in particolare i comunisti, si siano veramente opposti a una simile unificazione, il cui carattere è totalitario ‒ per la prima volta veramente totalitario ‒ anche se la sua regressività non è arcaicamente poliziesca (e se mai ricorre a una falsa permissività). […]// Perché c’è ‒ ed eccoci al punto ‒ un’idea conduttrice sinceramente o insinceramente comune a tutti: l’idea cioè che il male peggiore del mondo sia la povertà e che quindi la cultura delle classi povere deve essere sostituita con la cultura della classe dominante.// In altre parole la nostra colpa di padri consisterebbe in questo: nel credere che la storia non sia e non possa essere che la storia borghese.
Quei suoi articoli, dunque, parlavano a noi e di noi, la generazione del principio della fine, la prima ad essere perfettamente omologata nonostante il proclamato sinistrismo ma nello stesso tempo l’ultima a vedere come è fatto in carne ed ossa un contadino o un operaio, a poterlo ascoltare e parlargli. Più avanti avremmo scoperto che, assecondando il suo prodigioso plurilinguismo, Pasolini aveva intramato di un’identica materia non solo i grandi palinsesti di Salò e Petrolio ma anche l’ultimo bellissimo libro di poesie in italiano, Trasumanar e organizzar, del 1971, tuttora il suo più negletto, il cui nucleo profondo, La poesia della tradizione, è un viatico espressamente dedicato ai giovani di allora. I quali, per non dire altro, lo hanno largamente disatteso o rinnegato presto dismettendo gli abiti della contestazione per recitare la palinodìa e divenire trionfalmente ( iuxta la intuizione del poeta) una classe dirigente opportunista e sfacciatamente trasformista, una neo-borghesia per più di un motivo impresentabile e però sempre sorridente, fautrice del consumo per il consumo: quanto a questo, ci si è esonerati troppo volentieri delle immagini di Salò per cui capitalismo e cannibalismo sono perfetti sinonimi. Personalmente, poco mi consola il ricordo di avere pubblicato il primo articolo della mia vita su un giornaletto del liceo di Ancona per onorare Pasolini ( Morte di un eretico mi pare fosse il titolo) all’indomani del suo assassinio, perché resta il fatto che la mia generazione è stata la prima a ritenere il capitalismo, questo capitalismo, come un fenomeno di natura in sé invalicabile e immutabile o addirittura come l’ultima frontiera della civiltà: tant’è (lo ha ricordato di recente Mark Fisher in Realismo capitalista), si riesce oggi a immaginare fin troppo bene la fine del mondo provocata dal capitalismo ma non è affatto immaginabile la fine del capitalismo stesso. Davvero la scomparsa di Pier Paolo Pasolini era il nero suggello all’età dell’innocenza.
[«Fata Morgana Web 2022», I discorsi, volume II, a cura di Alessandro Canadè e Roberto De Gaetano, Mimesis, Milano-Udine 2022]
Forma e politica
a Severino Cesari, in memoria
In molti abbiamo incontrato la poesia di Franco Fortini nell’«Oscar» Mondadori delle Poesie scelte, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, che uscì nel giugno del ’74,