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Un solco senza seme: Scritture in versi 1988-2023
Un solco senza seme: Scritture in versi 1988-2023
Un solco senza seme: Scritture in versi 1988-2023
E-book524 pagine4 ore

Un solco senza seme: Scritture in versi 1988-2023

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Info su questo ebook

Una selezione di materiali irreperibili con moltissimi inediti.

I solchi del volume che stai per sfogliare contengono: oracoli dell’antichità non ancora verificati, un cesto di esami diagnostici per malattie visibili e invisibili, cinema e televisione sentimentali, una sposa genuflessa e vendicativa, un uomo alle prese con i numeri, centinaia di meduse, le istruzioni per distruggere un matrimonio e molte altre faccende umane che incidono solchi indelebili, a volte con un seme dentro, spesso no.
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2024
ISBN9788833862583
Un solco senza seme: Scritture in versi 1988-2023

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    Anteprima del libro

    Un solco senza seme - Luca Ragagnin

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    come funziona questo libro

    I – La balbuzie degli oracoli

    II – Biopsie

    III – Fabbriche lumière

    IV – Misfatto unico

    V – Il libro delle meduse

    VI – Videre leviter Breve storia in versi della televisione italiana

    VII – Granny Smith

    VIII – Mangimonio

    IX – Trentawatt

    Note ai testi

    [                    ]

    luca ragagnin

    un solco senza seme

    Scritture in versi 1988-2023
    Miraggi edizioni

    © 2024 Miraggi edizioni, Torino

    www.miraggiedizioni.it

    In copertina: disegno di Antonella Bukovaz

    Progetto grafico Miraggi

    Finito di stampare a Borgoricco (

    PD

    ) nel mese di gennaio 2024

    da Logo srl per conto di Miraggi Edizioni

    su Carta da Edizioni Avorio Book Cream 80 gr

    e Carta Fedrigoni Woodstock Materica Terra Gialla 180 gr

    Prima edizione cartacea: gennaio 2024

    isbn

    978-88-3386-259-0

    Prima edizione digitale: gennaio 2024

    isbn

    978-88-3386-258-3

    Sinossi

    I solchi del volume che stai per sfogliare contengono: oracoli dell’antichità non ancora verificati, un cesto di esami diagnostici per malattie visibili e invisibili, cinema e televisione sentimentali, una sposa genuflessa e vendicativa, un uomo alle prese con i numeri, centinaia di meduse, le istruzioni per distruggere un matrimonio e molte altre faccende umane che incidono solchi indelebili, a volte con un seme dentro, spesso no.

    Biografia dell'Autore

    Luca Ragagnin è nato a Torino nel 1965. Il suo ultimo libro è il romanzo Il bambino intermittente, pubblicato da Miraggi nel 2021.

    All’interno di questo volume, l’elenco com­pleto dei suoi libri.

    dello stesso autore

    Musica per Orsi e Teiere

    Capitomboli

    Imperdibili Perdenti

    Agenzia Pertica

    Pontescuro

    Autoritratto in vinile

    Il bambino intermittente

    come funziona questo libro

    È una selezione di materiali irreperibili con moltissimi inediti.

    Questi materiali hanno gli a-capo, si tratta di scritture con gli a-capo, e infatti, inizialmente, nel frontespizio, sotto il titolo, di cui dirò alla fine, c’era la formula scritture con gli a-capo 1988-2023, modificata poi in scritture in versi 1988-2023.

    Tanto a chi interessa, a me no di certo.

    Però, per correttezza, vorrei specificare che queste scritture sono passate volta a volta come poesie, testi teatrali, filastrocche e testi per canzoni. È tutto abbastanza esatto, nel senso che qui dentro queste forme di scrittura le troverete tutte.

    Io vorrei farne un fascio unico e, se a voi va bene, chiamarle testi.

    Ok?

    Sul tempo, invece, c’è ben poco da discutere: 1988-2023 significa che qui dentro ci sono 35 anni dì testi.

    Come passa in fretta il tempo a chi si sollazza con gli a-capo.

    Pause e bianchi di esistenza, voragini di anni tra una riga e la successiva, per trovare una rima (o un significato) possibilmente non troppo masticati.

    Ci sarebbero poi i medesimi 35 anni da coniugare in scrittura senza gli a-capo, ma se avessi proposto un’antologia di materiali irreperibili con moltissimi inediti in prosa al mio editore, mi avrebbero mandato al macero fisicamente per intervenuta follia irredimibile, un macero prima della stampa. Il che mi rimanda a una meravigliosa frase dell’irredimibile e meraviglioso scrittore e poeta argentino Osvaldo Lamborghini: « Prima pubblicare, poi scrivere ».

    Ma non divaghiamo, che il libro è lungo.

    La prima sezione – La balbuzie degli oracoli – è dedicata agli Oracoli caldaici, una raccolta di rivelazioni sapienziali in esametri omerici appartenenti alla tradizione misterica greco-romana realizzata probabilmente alla fine del II secolo d.C. da Giuliano il Teurgo. Qui è la voce della divinità che parla direttamente all’uomo, il trascrittore. È ovviamente un apocrifo e inoltre un apocrifo giunto a noi solamente sotto forma di frammenti, di schegge. Ne ho scelte 50 e le ho terminate.

    La seconda sezione – Biopsie – prende la scaturigine della malattia, di ogni malattia, e la fa divampare nella parola. Quindi è un prelievo diagnostico della parola, con tutte le sue conseguenze.

    La terza sezione – Fabbriche Lumière – è una privata, sentimentale e perciò incompletissima storia del cinema (con gli a-capo).

    A farle da specchio sarà la sesta sezione – Videre Leviter –, privata, sentimentale e dunque incompletissima storia della televisione (con gli a-capo).

    La quarta sezione – Misfatti unici – conteneva una buona parte di ciò che era rimasto in fondo al setaccio dopo il mio love affair con il teatro. Alla fine ho salvato un solo atto unico, La porta, che quindi è rimasto un misfatto unico al singolare. L’unico misfatto unico. Da cui il titolo della sezione, che è Misfatto unico. La porta. Non so se mi sono spiegato.

    Devo alla presenza massiccia dei simpatici esserini planctonici nel mare isolano di una vacanza a Ginostra tanti, tanti anni fa l’esistenza della quinta sezione – Il libro delle meduse –, scritta con enorme disappunto a colpi di matita su carta spruzzata, abbarbicato su uno scoglio riparatorio. La prima edizione di questo volumetto (qui raddoppiato) era illustrata da Giorgia Atzeni.

    La settima sezione – Granny Smith – ripristina l’esatta sequenza di una raccolta all’epoca divisa in più sillogi (Crocetti, Scheiwiller) e riviste con gli a-capo.

    Dell’ottava sezione – Mangimonio – non vorrei dire niente. È uscita da un cassetto in un giorno di pioggia in cui pensavo al passato e ai calzini. È inedita.

    L’ultima sezione, Trentawatt, contiene testi (con gli a-capo) di esaltazione, sdegno, sorpresa e riflessione su dischi, artisti, generi, eccetera (starebbe comoda affiancata a libri come Autoritratto in vinile, Un amore supremo, Canzoni da mangiare e altri, ma sono tutti senza gli a-capo e quindi l’ho messa qui).

    Ringrazio la poetessa e artista Antonella Bukovaz per avermi donato il meraviglioso disegno di copertina.

    Ringrazio il mio editor Davide Reina. Mi sopporta da sei libri e ancora non si è stancato. Vediamo con questo.

    Ah, già, il titolo.

    Ho sentito l’espressione « Un solco senza seme » nel film di Riccardo Milani dedicato al semidio dei tacchetti Gigi Riva. La recitava un attore in una sorta di anfiteatro naturale (ma potrei sbagliarmi, sto andando a memoria) e mi ha colpito come un sasso in fronte.

    Ho atteso i titoli di coda per capire la provenienza di quel testo recitato ma non ne sono venuto a capo, anzi, a-capo.

    Però ho sentito che in qualche modo quell’espressione faceva al caso mio, mi disegnava perfettamente con un’unica, veloce, pennellata: 4 parole.

    D’altronde già nel testo Puntasecca (a pagina 48) avevo prefigurato il mio caso.

    Guardo da qui questi decenni di scrittura e di vita e mi pare proprio di essere io, quel solco senza seme. Oh, non mi fraintendete e non mi compatite, va tutto benissimo. Mi considero il timoniere responsabile delle rotte che hanno preso la mia vita (e la mia scrittura).

    E poi, se nelle pagine che seguono, in qualche modo ci troverete un solco, allora il seme potreste piantarlo voi.

    I – La balbuzie degli oracoli

    Non porre mente ai confini infiniti della terra:

    non nasce in essa l’albero della verità.

    E non calcolare la misura del sole a furia di

    tavole: per eterno volere del padre esso si

    volge, non per te.

    Lascia perdere il ronzio della luna: è per opera

    della necessità che corre sempre.

    La processione degli astri non è stata generata

    per te.

    L’ampia palmatura delle ali degli uccelli

    nel cielo non è mai veritiera, e non lo sono

    le sezioni di vittime e di intestini.

    Tutti questi non sono che giochi, e fondamenti

    di una frode venale.

    Fuggili, se vuoi dischiuderti

    le porte del giardino sacro della pietà,

    dove virtù, sapienza, ordine armonico

    si adunano.

    Oracoli caldaici

    Dio non rivela sé nel mondo.

    Ludwig Wittgenstein

    World without end remember me.

    Laurie Anderson

    la rosa di erode

    Ancora ancora tre volte

    inerpicata sul sangue,

    eretta.

    La baionetta di spina

    in lustro di parata,

    gocciolante dell’urlo.

    Ancora si infetta

    la rosa di Erode:

    toccata dall’occhio che stilla,

    di tempo in memoria,

    lancette di cenere.

    La zolla fiorita della lacrima

    sul mondo che comincia.

    generazione

    Danzano: le conchiglie

    sotto i piedi frantumate,

    il ballo che l’alga scandì in polvere.

    Nati

    ancora non svezzati

    sotto il torchio delle stelle,

    scalzi,

    forgiavano da un fianco,

    legati alla catena per le scapole,

    il forcipe lunare:

    alla destra la memoria

    in aratura cieca riprodotta,

    nell’ossequio claudicante,

    rotta ad altezza di calunnie.

    Rarefatta.

    La memoria

    che gettò la sua stampella

    nello stige dei maiali,

    mendìca di un cartoccio di ricordo,

    sorretta dalle lucciole

    che schiatteranno all’alba.

    testimoni

    Sfiliamo la coppa dal chiodo:

    che l’asma nell’ora del varo

    la colmi di uve marcite.

    Si plasma da mani arrancanti

    nel vuoto, l’arazzo del mondo:

    brindiamo alla scheggia. Sul salto

    del tarlo del palo che regge

    i primi villaggi dei morti

    alziamo un corale. Monconi

    lasciamo a scoria futura.

    Bordello dell’osso asciugato:

    anima nostra, stirpe e sete

    di nulla. Staffetta mancata.

    incursione

    Quella che l’occhio ti accende in segreto

    è la fiamma del falco.

    I barbari l’arsero

    sfasciando le culle di quercia

    degli antenati.

    Dal limite boschivo

    il rapace si alzò in cenere

    e il campo degli infanti

    crivellato dalle urla

    vide dal suo mezzo volo.

    Tu hai sposato il senno

    lui la roccia.

    Tu trivella, rosa nera

    imprechi l’ora che ti apre

    finché il falco rientra nella lingua

    come padre.

    Allora il giorno ti svapora,

    bianco del tuo sangue.

    il peso della luce

    Radura che il sole attanaglia.

    La corazza della sorte

    sepolta sotto il peso della luce.

    Tartaruga, ceppo di giustizia:

    lì veniamo.

    Veniamo accanto all’altare tumefatto,

    in perdita di brace, inginocchiati.

    Veniamo a domandare.

    Scaviamo i resti oracolari.

    L’eternità del nodo, le carcasse

    raccogliamo per l’ornato della cinghia

    e lì veniamo.

    Veniamo in linfa calcinata, in meteorite,

    la ghigliottina sulla voce

    per la preghiera di cui sei l’indegno.

    segni particolari

    Monumentale collisione della rosa:

    tu che la mano del bambino schianti di passione

    abbellisci la figura, marchia il tumore sulla guancia,

    che sappia quanto dura la freschezza.

    Disgiungi e sferza, spina.

    Sei sola come il pruno fatto verbo

    che ci promise al ciglio del riposo,

    sull’alba degli squarci,

    restituendo con l’affondo della luce

    la cavità del tradimento.

    Se ho voce di condanna

    la palpebra accecata nidifichi la fonte:

    il volto primigenio, l’aguzzino

    che ha dimora e nome dentro il sole.

    la fabbrica del senso

    Annotta nella bocca

    siero del silenzio:

    ti accoglie fiero il doppiatore di me stesso.

    Sgretola tu la grotta

    dilata, dagli spazio:

    appenditi alla corda del misfatto,

    mentre io dormo.

    Dentro la guancia

    la risonanza scuote i pipistrelli.

    Deponi la corona dalle cuspidi

    una gemma alla volta, lentamente

    e lasciati svezzare dagli scheletri

    che pago per sgambettarmi intorno.

    Disfatto è l’occhio

    dopo il colpo esploso in feritoia

    di pupilla, ardente.

    La traiettoria ci soccorre:

    aggancia il virus che battezza lo sgomento.

    pietra focaia

    Il ceppo sul letto

    chi lo accende.

    Dimmi dimmelo tu, bambino:

    fascina sorridente, latrato della gioia.

    Chi infiamma la cornice dell’insonnia.

    Sei tu, migrato

    al sommo della retina?

    Rallenti nell’inquieto, atterri.

    Ma io non ho respiro

    che dia approdo all’avvoltoio,

    o al desiderio.

    occidente

    Sotto la rosa le acque si assopiscono:

    orbate dall’impronta, crespe di fatica.

    Disposte nelle orbite

    che la crociata perse al suo passaggio:

    monete della fuga.

    Dirige la sapienza del silenzio

    il petalo in arcate diroccato:

    asciuga lo scalpo alla marea.

    Sub rosa, scempio di superstite

    bacio dell’estuario

    dirama l’astro che hai stroncato con lo sguardo

    sul fiato di ogni bocca nascitura.

    Sigillo invalicabile di spina

    che abbiamo pianto inseminandolo nel grembo.

    la messe

    Dal calice si leva un corale

    e il polso congeda il firmamento:

    saturo nel riflesso, roco.

    Diamo stoccata all’annegato

    che chiede la salita nel cristallo.

    Antro asciugato di veleno

    stai attento alla parola

    sollevante in vino il cuore.

    Vegliamo sul tizzone della voce

    che s’imbelletta in salmo:

    vegliamola in ragione del frumento

    che essuda dalle tombe.

    chiaro di luna

    Astio della sera, albore disossato.

    Ci raggiungi quando scardiniamo l’uscio

    e ci stendiamo sulla pietra,

    goccia a goccia, spenti,

    in soglie di memoria.

    A volte abbiamo un’isola davanti

    a volte il calcinaccio della prole.

    Immobile, nell’occhio ustorio

    viene a centrarsi un grido di falena:

    ricordo incenerito della luce.

    Albero genealogico di serpe

    sgrana le perle una ad una

    sul dono dell’inutile: le mani.

    Le nostre mani, spose della gruccia,

    in viaggio sull’infermità del giorno.

    la rosa del guado

    Fango che il crollo di bocche

    correggi di accento, insegna

    tre volte al ginocchio la rosa del guado.

    Pneuma, soffio uncinato:

    ci alzi la veste, raddensi.

    Marcisci sul ventre il fiato del padre.

    Marcisci tre volte annodato nel cespo

    che usammo per elmo, a tempio bruciato,

    migrati in empia sorgente, natanti di lava:

    al canto del remo tarlato, futuri ossari ridenti.

    partitura

    L’arpa si è incagliata negli scogli:

    l’arpa che allacciava il suono del polmone

    alla borraccia, reliquia della sete.

    La faccia assorbe della luce il sughero

    mentre anneghiamo, arrugginiti,

    scuri nel centro della stanza.

    Osiamo il volo di terzina

    dal fosso dell’amore rampicanti

    verso il rostro, siderali.

    La alziamo con l’argano del trillo,

    fino all’ultima estensione

    e discendiamo.

    Tu che dirigi, tu nascosto

    il fiotto disarciona dall’arsura,

    il fiotto di speranza:

    con il bastone della legge

    riavvolgi questa carta indecifrabile,

    consumala in un fuoco,

    consumaci.

    la via delle indie

    Strepito, santuario delle spezie.

    Sappiamo che preservi l’ombra immobile

    quando smantelli la pienezza

    decapitando il chiodo.

    A voce tramontata,

    dietro il vicolo,

    insiste l’anima nella coda del topo

    e salta acuminata,

    di tagliola in stella,

    mendicante.

    Chi sei, arteria cava risonante

    della moneta che versiamo

    sulla promessa della rosa:

    fragranza quotidiana, embolo e seta.

    Chi sei, tu che lanterne sfili dalle grate

    e accendi, dove l’occhio s’impantana,

    lo spirito sfasciato del diluvio.

    la forma minerale

    Indenne, sul volteggio della schiuma,

    in avanguardia, la memoria

    si frange sulla riva dell’esilio.

    C’è ressa dentro ai pori. Quando il riccio

    scalda il cratere della costa,

    si scosta dall’impronta del calcare

    l’affronto minerale della forma:

    elude la sosta nel tempo

    e s’inabissa mutandosi in alga,

    ci lascia il posto. Veniamo a insediare

    le nicchie con l’osso: memoria

    raggiunta dal sangue, suo estraneo corpo.

    la parola

    Fiaccola,

    lancia votiva che infilzi la parola:

    la mano ti arrota.

    Uscita dal cerchio,

    intrecciate le nocche e gli arbusti,

    la mano ti ha incoronata.

    Regnante brandello,

    suda la tua morte ai piedi del vulcano,

    dove sei stata trascinata.

    Ti giriamo e rigiriamo, parola

    finché il cuore dirama i lapilli,

    si schianta.

    Dodici volte sopra le teste

    in un giorno la lava decolla:

    dodici volte anche noi fendiamo la luce,

    sotto il respiro.

    Ti fendiamo e giriamo, parola

    finché scardina il fiato.

    Banchetta sulla stele,

    dissètati in noi,

    nella conca,

    dal cratere apostolico.

    Dissètati nel bacio che tradisce, parola:

    nostro inganno dalla coppa levata.

    gli invasori dell’atomo

    Una scala di marmo discende nell’anfora:

    andiamo a vedere lo stampo,

    il diadema dell’atomo.

    Una scala discende e l’osso fa l’àncora

    al nostro traghetto:

    si salpa dal sonno.

    Molliamo l’ormeggio.

    Il corpo della medusa

    l’ansimo sparga sul mattone:

    è rugiada dell’uscio, testamento.

    Andiamo a firmare lo sdegno

    per solchi irradianti la stilla.

    Squarciamo l’involucro al soffio

    bambini in convoglio, scafandri di argilla.

    l’intuizione dei cosmi

    Bianco taglio di squama,

    noesi tatuata sul labbro

    che lame abbassarono al silenzio di grotte:

    perché vibri alla brocca

    tradendo la mutilazione

    dal fondale che imbocca immortale

    l’abisso?

    La ragione persegue nella sua amputazione

    il nido bestiale, interrato di anima

    ma il nome sta tutto al di fuori,

    in innesto divino, sgozzato.

    la balbuzie degli oracoli

    La croce che scorteccia l’abbandono

    di un volto dal versante del presagio,

    sepolta nel silenzio del germoglio

    falcidiato, ora ritorna:

    l’adagio delle attese si è scrostato

    quando il caso, deciso alla ripicca,

    inerpicato sulla vena, a mulattiera,

    in piombo di visione ha reclamato

    la tua bocca.

    Quanta balbuzie arcigna nell’oracolo,

    mio cuore tolemaico,

    sorgiva iniziazione dell’abbaglio:

    mai per oblio, ricorda

    mai per oblio concedi

    al foglio che si legge sulla pelle

    di macerare in flutti miserabili.

    la scoperta del desiderio

    L’occhio si scarnifica sul giorno,

    al tuo apparire: ora è dragato il cosmo.

    Insieme resistiamo alla matrice

    che depone negli antri del battesimo

    la pronuncia del nome, l’ossidiana.

    Porgi dominio e semina e rifulgi,

    al netto della voce:

    ignaro della tua stessa materia,

    ti generi soltanto nell’estraneo.

    Padre, padre che il polline decapiti

    dal collo del deserto,

    accetta il volto ormai deposto: asciutto

    sudario fecondato nell’assenza.

    il mare fecondato

    Persuasione disvelamento amore:

    scendevano la rupe dall’oscuro

    lato che nutre la parola a forza

    di allentarne la mascella con la scorza

    delle onde. L’ancella dalla soglia

    li aspettava, dalla bocca di tempesta,

    dentro il solco che mescola ed annega:

    li aspettava. Persuasione amore

    e ci aspettava, disvelata, al rito

    sogghignante che i corpi sottopone

    alla misura, all’antro, recintati

    nell’eterno, ristretti firmamenti.

    Allora il mare si richiude sazio:

    il centro si fortifica, nascosto

    nel nodo inestinguibile del grembo,

    trionfante sullo scettro della lava

    colata in nostro freddo compimento.

    primo incidente

    I capelli balenano allo sguardo

    in brividi di luce. Scintille

    scaturite dal primordio, palpebra

    che ricuce la ferita del guado

    dove transitò capovolgendosi

    la zattera del plasma con i nomi

    dentro. Chi ritorna sulla genesi,

    tu che il manto all’implacabile onda

    sposasti portandole il dono a noi

    destinato: il diamante del senso? Chi

    si trascende e risale la vena può

    sul declino del tempo correggere

    il primo incidente. Esplora lo spettro

    scomposto di cuore, fin quando l’astro,

    il torace, ritrovino sede:

    di fuoco terra acqua che tutto nutre.

    il telaio degli schiavi

    Ogni cosmo si leva all’intelletto

    prima che l’orizzonte rubi un segno

    e si ritagli nell’albore,

    sveglio.

    È in attesa la fossa della mente

    in calchi subalterni,

    fiduciosa:

    finché lo spazio si stenda flessibile,

    e il disegno,

    lei lo attende.

    Dopo abbandona.

    Prostrata come un fuoco, zoppicante,

    adunata nel tranello

    accetta l’orbita:

    soggiace alla sua folgore,

    perenne e non persuasa.

    la condanna del naufrago

    Signore d’anime, iniziatore del dolore,

    sepolto nella luce, aggrovigliato.

    Vieni a vedere la nostra fioritura.

    Retrocedi alla creatura multiforme

    che hai sviscerato dentro un gioco di parole.

    Transfuga dell’incetta, ammaliatore:

    se accanto al fiore cresci la falcidia,

    bene attrezzata all’infezione,

    ascolta noi deporre in antri

    ritmati dalla stecca del maroso

    il voto del ringraziamento.

    Arpione d’osso, rete di sudore

    che spera di adescare il tuo rimorso

    sopra l’onda aperta in cresta,

    noi ti vogliamo in schiume giustiziate.

    Emergi e affonda, sfinge del faraglione:

    così sulla laringe in noi la voce

    sale, stella, e poi discende,

    carcassa torpida della corrente.

    i ribelli

    Stirpi che abbondanti fluiscono in rughe,

    al mortale disegno mai svelate:

    la corolla vi strinse.

    La corolla del gelo cresciuta nel fosso,

    oscillante dell’esodo.

    Stirpi chiamate sul risvolto del sole

    ad altra vita: estinte nel sonno del figlio

    che trema del sogno del figlio.

    A palpebra arsa, in visione di zolla

    la legione dell’atomo salpa.

    Stirpe che salpi dalla carogna del nome,

    la materia è scrollata di parole

    sull’alba del vapore.

    Elemosina gli strumenti del grido

    fuori dal fato, e ricomincia.

    dopo la voce

    Sulla natura corporea innestati

    marea dei respiri,

    il volto vi abbandona:

    stupefatto.

    È avvinta nell’origine del coccio

    privata infine anche dei frantumi

    la sua voce. La voce che accompagna

    sul bordo della rogna il salmo.

    Periplo del riflesso

    che agganci alla scintilla della ruga

    la memoria,

    dove cordame, dove tomba o lava

    attracchi il tuo giudizio

    ora che il greto è stato eroso?

    Lascia, lascia l’indizio di presenze antiche

    all’eco della luce, al suo riposo.

    l’infanzia del cratere

    Non lascerai al baratro

    scorie di materia, ma lance.

    Saette che il sangue stenta a recintare.

    È qui che il simulacro pone il vanto:

    nella regione risplendente,

    sull’anima segnata, in abbandono,

    al suono spento dell’artiglio,

    indissolubile petraia.

    È qui che si rigurgita la frana,

    il compimento dell’impronta:

    ma un fuoco ha modellato il sacrificio

    sulla fauce dell’assenza,

    per la fame del vento.

    campi notturni

    Lancetta dell’esilio, acuminata.

    Issata sul nevischio,

    ad angolo di strada,

    porti il balletto della schiena

    lontano da noi:

    dilapidati in balbettio,

    comete dilaniate.

    La sagoma forata dello stemma

    al vento secco allontanata

    il nostro sonno ulula.

    Cigola l’inno della ruggine:

    quando tradimmo con poche parole

    il peso delle arcate, le travi

    confluite in sangue.

    Sull’immagine che ci detiene

    lo scavo compì il periplo

    minuto su minuto, cancellandoci.

    Quadrante dell’amore, covone

    prosciolto dall’anello, sparpagliato:

    qual è l’incastro, quale volto

    ti ha liberato dalla luce

    per la gioia randagia della iena

    illuminata dalla fame.

    Un soffio, il soffio acuminato

    dell’ultimo che nasce

    ti porterà davanti alla sua casa:

    chìnati, vagli davanti, immagine.

    Ti riconosci adesso nella stoppia?

    Radura fumigante,

    il cuore è nel carbone.

    Chìnati sul ceppo

    su cui prega la mantide,

    rinasci nel tuo nome.

    salina

    Sciara della memoria

    spenta sotto la luna

    vuota:

    sei sola come l’isola

    che giunse all’orizzonte in brume,

    scialba,

    quando ruotando, l’osso

    apriva il varco all’ombra

    e noi, in intreccio fossile

    depositava, rude

    sulla fortezza della roccia emersa.

    La calma ci attraversa:

    esuli, spalla a spalla

    veniamo al laccio, all’abbandono

    e qui salpiamo, immobili.

    la fame

    Oracolo, disordine del giorno:

    a te giunge in ginocchio la fortezza

    del mio volto. Ausculta in frana l’aria

    che ti porgo come sfida: mantello

    di un mago incatenato ad una stele

    chino sul boato del miracolo,

    passato dalla morte. Luce di neve

    e fiele dentro gli occhi, è capovolto

    il fiato in un ammasso di ferraglie,

    senza più un bacio, oracolo: l’attrito

    mi consegna alla centuria delle rughe,

    al maglio della fame, e batto forte

    dal silenzio. L’identità

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