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Ricette di vita
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E-book232 pagine2 ore

Ricette di vita

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Info su questo ebook

Antonio Sperelli, medico di fama internazionale, vive a Roma in compagnia del cane Giotto e del gatto Cipollino. Oltre che importante ricercatore, è un grande esteta, appassionato di moda e di buona cucina e circondato da buoni amici. Eppure, il suo è un animo inquieto. La morte improvvisa del fratello Matteo, con cui non aveva avuto contatti da quindici anni, lo catapulta nel passato, a rivivere il rapporto con i genitori, ad affrontare antichi fantasmi e a chiedersi dove risieda la vera felicità: se in un’esistenza spensierata, dissoluta, votata all’edonismo o nella bellezza e nella complessità dei rapporti umani.

Antonio Puccetti è nato a Lucca nel 1960. Ha frequentato il Liceo Classico e si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1984 all’Università degli Studi di Pisa. Nello stesso anno ha conseguito il diploma di Allievo Interno della Scuola Superiore di Studi Universitari e Perfezionamento S. Anna di Pisa.
Ha lavorato per quattro anni presso la divisione di Ematologia ed Oncologia del New England Medical Center di Boston, Usa. 
È Docente Universitario presso l’Università degli studi di Genova.
Ha contribuito con la sua ricerca a chiarire alcuni aspetti fondamentali che legano infezioni e malattie autoimmuni. Negli ultimi anni si è dedicato allo studio della genetica ed epigenetica nella patogenesi delle malattie immuno-mediate.
Vive a Roma in compagnia del cane Giotto e del gatto Cipollino.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2020
ISBN9791220105644
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    Anteprima del libro

    Ricette di vita - Antonio Puccetti

    smarrito.

    Scende la pioggia

    Se il fuoco scoppietta nel camino, Maria De Filippi col suo vocione da baritono rimprovera dei giovani dal talento incerto e la pioggia cade inesorabile, democraticamente – almeno lei – su ogni cosa in questa città, il mio stare stravaccato sulla poltrona, dando le spalle a Vespa e gli occhi alla finestra, credo sia in linea con l’ordine cosmico del mondo.

    Si dice che lo stare alla finestra sia una prerogativa dei saggi: considerando che l’unico pensiero che mi è sorto, stando qui in contemplazione da 15 minuti, è Gianni Morandi che canta Sceeeeeeeende la pioggia ma che fa, credo proprio di esserlo. Inoltre, la folta criniera e la barba bianche, una maglietta con Ziggy Stardust che fa capolino sotto un gilet di puro cashmere, mani lisce e curate e un paio di occhi grandi e azzurri, coordinati alle pantofole, rientrano senza dubbio nell’iconografia del sapiente: Atena dagli occhi cerulei, gli occhi azzurri calmi e profondi di Leonardo da Vinci… oddio, a dire il vero ce li aveva pure Bombolo!

    Fuori piove. È strano che a Roma piova così tanto da giorni.

    Stasera, ogni minuto che passa, sento le gocce d’acqua battere sui vetri così forte che in confronto Keith Moon dei The Who sotto cocaina sembra una timida e impacciata scolaretta. Scolaretta che ritorna ad assumere le fattezza di Gianni Morandi, che imperterrito continua a cantare Crolla il mondo addosso a me, per amore, sto morendo!.

    Basta, Gianni! Che problemi hai? Vai a infestare i pensieri di qualcun altro! Sono uno stimabile e stimato genetista, mi merito un avatar più solenne! Che so, Aldo Biscardi!

    Ma non è che ho mangiato pesante? Forse ho sbagliato qualcosa nell’accostamento degli ingredienti per quel pesto…

    Bravo. Fingi, fingi, mi dice sarcasticamente Giotto, portando le zampette anteriori sul bracciolo della poltrona sulla quale sono spocchiosamente assiso, che manco Amanda Lear a capo tavola, in una serata di gala con Dalí.

    Hai ragione, Giottino, gli rispondo, mentre con un balzo sale sulle mie ginocchia, raggomitolandosi e poggiando il muso sulla mia pancia, fissandomi.

    Anche a te inquieta la pioggia, dopo quella notte, eh?

    Sì, lo sai, mi vengono i brividi.

    Fuori piove. Non è strano che a Genova piova così forte, ma così tanto, per così tanto, sì. Il rumore della pioggia si mescola al fracasso delle sirene: polizia, pompieri, ambulanze non lo so. È notte, sto disteso a letto, con Giotto accanto, con un gesso alla gamba. Ad un tratto, da fuori sento un rumore sordo mai udito prima; poi, delle urla di paura, cui si aggiunge un vociare isterico e distorto. Io mi ritrovo più immobile del mio ginocchio appena operato e ingessato. Guardo Giotto, Giotto guarda me, parimenti terrorizzato e tremante. Ma lui, che può, scende dal letto e zompa sul davanzale interno della finestra: Non c’è più la collina! È franato tutto!, mi dice lui, a orecchie basse e coda tra le gambe. Non faccio in tempo a dirgli: Giotto, torna qui, che lui è già qui. Sono così tanti i pensieri che affollano la mente di un uomo e di un cane parlante, in un momento così tragico, che per assurdo mi sorprendo a cantare Lucio Dalla: Babbo, che eri un gran cacciatore / Di quaglie e di fagiani / Caccia via queste mosche/ Che non mi fanno dormire / Che mi fanno arrabbiare / Com’è profondo il mare / Com’è profondo il mare. Sto ancora cantando l’ultima vocale, quand’ecco che da fuori sento: C’è qualcuno dentro?. Credo di aver urlato un talmente di diaframma, che in confronto Maria Callas avrebbe potuto giusto portarmi le rose. Mentre Giotto spiegava alla voce esterna le mie condizioni invalidanti, io, con la fatica di un Germano Mosconi costretto a non proferire il nome di Dio invano, mi avvio verso la porta che separa quella che sarebbe potuta essere la nostra tomba domestica dalla salvezza. Aperto l’uscio, una barella e due nerboruti pompieri ci stavano aspettando. Tutto quello che ricordo è che mi hanno sollevato di peso e messo sulla barella, Giotto mi è salito sull’addome accucciandosi e mentre mi trasportavano in tutta fretta, un rumore bianco mi faceva da colonna sonora mentre vedevo un’infinita valanga di fango travolgere Genova.

    Un brivido di freddo mi percorre tutta la spina dorsale e anche il ginocchio incriminato, con l’umidità, si fa sentire. Faccio una carezza a Giotto e gli chiedo: Vuoi un tè?.

    No, grazie, risponde lui.

    Ma è quello di Babingtons, sai?

    "Ah, quindi dici che mi può scaldare più della colata di cera sul petto che Nina Moric versa a Ricky Martin nel video de La Vida Loca?"

    Mi sembra ovvio, rispondo fiero, ma anche un po’ infastidito dal dubbio del quadrupede.

    Allora, ok, mi dice lui.

    Questo tè allo zenzero me lo ha dato la mia amica Johanna che lavora da Babingtons! Che posto magnifico, a Piazza di Spagna… pensa che dall’altra parte della scalinata gli corrisponde la casa di Keats e Shelley!

    "Sì, me lo hai detto cento volte, ci è passato pure Byron! L’ho visto pure io Il Segno del Comando, eh!"

    Quant’era bella la Gravina che scendeva la scalinata! Ma pensa che luoghi nobili, d’altri tempi! Ma, infatti, dentro pare proprio di stare in un romanzo di Jane Austen: i camerieri in frac, i servizi in ceramica finissima, le fragranze delle foglie degli infusi che si mescolano in una nuvola di vapore speziato! Un posto magico! Certo, un tè costa come una pizza, è vero, ma vuoi mettere la raffinatezza, l’eleganza… il silenzio! Per me è il posto ideale per leggere un libro…

    Ma che silenzio e silenzio che mi racconti sempre le chiacchierate piene di gossip delle tue amichette!

    Ah, se parlano d’amore bevendo il tè nei romanzi di Jane Austen sono leggiadre conversazioni romantiche, se lo faccio io con le amiche mie è gossip? Giottino, beviamoci questa delizia che è meglio, eh! È pure digestiva, così digerisco le tue battutacce e debello pure Gianni Morandi come spirito guida…

    Stanno per scadere gli otto minuti di infusione previsti, che poi porteranno il tè di Babingtons ad essere versato nelle tazze di Babingtons – ovviamente. È il momento che preferisco: quando il fondo della tazza bianca comincia a colorarsi di tè e l’aroma esplode, contenuto.

    Stanno per scadere gli otto minuti, dicevo, mancano davvero pochi secondi, quando ecco che suona il cellulare e subito il Pavarotti che è in me emerge con un: Chi mi rompe l’infusione all’una di notte?!.

    Scocciatissimo, per l’orario e l’interruzione del rituale, agguanto il cellulare, per vedere che nome dare al guastafeste da insultare, come neanche nelle vette teatrali più pittoresche di Vittorio Sgarbi: nessuno.

    Sul display del telefono capeggia un numero non conosciuto, che mi pare addirittura estero.

    Sarà una delle tue amiche francesi…, mi dice il quadrupede sornione.

    Pffff!, rispondo a lui, Pronto, chi è?, dico all’ignoto dall’altra parte del telefono.

    Doctor Antonio?

    Sì?

    I’m sorry to disturb you at this late hour…

    Si scusa veramente tanto, Peter Frier; così tanto che mentre lui prosegue in parole di discolpa, io faccio in tempo a versare il tè nelle tazze. Poi, nella perfezione della fine del gesto, arriva la notizia: Matteo is dead, mi dice. I’m sorry, continua. I’m sorry, ancora.

    Rimango come un cretino, con la cornetta in mano.

    Non riesco a realizzare.

    È come apprendere che uno dei Riders on the storm cantati dai Doors è morto, mentre la tv dice di aver trovato il corpo di Jim Morrison privo di vita in un hotel a Parigi, il tutto narrato da John Lennon, poco prima che Mark David Chapman gli sparasse cinque colpi di pistola addosso: Hey, Mr. Lennon!.

    Hey, Mr. Antonio, are you still there?

    Yes, dico, traballante yes….

    E quindi mi metto d’accordo con Peter Frier, amico e collega di Matteo, che sarei partito l’indomani per Londra, per poi incontrarlo a Piccadilly Circus e da lì saremo poi andati a casa di Matteo, e poi, da Matteo.

    Ok, thanks, goodbye, dico catatonico.

    See you tomorrow, Mr. Antonio. Call me, when you are in Piccadilly Circ…

    Riattacco.

    In 40 minuti da dove abito sono a Fiumicino.

    In meno di due ore l’aereo giunge a destinazione. In meno di un’ora la metro ti porta dall’aeroporto di Heathrow al centro di Londra.

    Alle 11 del mattino dopo sono a Piccadilly Circus.

    Che ci troveranno in questo incrocio i londinesi non l’ho mai capito!

    Sì, capisco l’importanza della storia, il valore simbolico… ma insomma!

    Mi ricordo me ne parlava mio zio, diceva che ci incontrava sempre un sacco di amici.

    Solo da grande ho capito cosa intendesse.

    Qui vicino c’è il ristorante italiano migliore di Londra.

    Il migliore.

    E comunque, non ci si può mangiare.

    È proprio una questione di ingredienti, di gusto, di stile.

    Ma che ne possono capire questi, abituati a sfondarsi di Fish & Chips, dell’incantesimo stregonesco del ragù, della chimica sottile del pesto, della lenta alchimia del polpettone?!

    Meno male che esiste la passione per il cibo a tirarmi su, altrimenti sarei devastato.

    Arriva Peter, sembra una comparsa dei Monty Python, formale fino a essere grottesco, con una giacca marrone che gli sta malissimo e impomatato come alla Prima Comunione.

    Però, poverino, prova solo ad essere gentile.

    Mi porta a casa di Matteo.

    Abitava lì vicino, appena fuori Soho, un quartiere popolare, vivace, pieno di distrazioni, anche illecite.

    Entro nella sua casa per la prima volta.

    Per trovarlo morto.

    Come entro, mi colpisce una cosa: il mio nome, il mio indirizzo, il mio numero di telefono campeggiano enormi sul tavolo.

    Call this person, in case of emergency. Antonio. My only brother.

    Chiostro del Bramante

    Steso prono, con il mento appoggiato sul dorso delle mani, punto gli occhi sul Chiostro del Bramante. Mi ritrovo a contare i 16 pilastri che lo compongono, uno ad uno. 16 è il numero perfetto, secondo Vitruvio. Penso alla mia schiena scoperta, con le 7 vertebre cervicali e le 12 toraciche, che Christopher sta cercando di lenire con le sue mani fatate. Comunque, 7+12 fa 19: qui non solo non c’è il numero perfetto, ma io mi sento come Roma dopo il passaggio dei barbari.

    Differenzio la focale dello sguardo: il Chiostro del Bramante va fuori fuoco e dal riflesso sulla finestra vedo Christopher, con la testa china e preoccupata su di me, intento nel massaggio; è bellissimo vederlo anche solo riflesso. I suoi tratti nordici, quasi scandinavi: naso dritto, zigomi alti, labbra morbide. La pelle diafana e gli occhi color del ghiaccio sono incorniciati da barba e crine, custodi di raggi di sole; un sole però freddo. I capelli cortissimi sui lati, più lunghi sopra e pettinati all’indietro, ricadono sulla sua fronte a piccole ciocche, svelando sfumature ancor più chiare. La barba, curata e definita, sembra voler nascondere i suoi tratti da ragazzo, scolpendone ancora di più i lineamenti. Un look studiato alla perfezione, alla ricerca dell’armonia, esattamente come l’opera del Bramante assieme alla quale lo vedo riflesso sulla finestra del suo studio. A volte, credo che solo la Bellezza mi salverà.

    In rigoroso silenzio, Christopher mi porta la sua mano sull’articolazione della spalla, poi mi sposta delicatamente il braccio indietro, cercando di compattare le mie scapole all’interno, verso la spina dorsale.

    Insomma, mi vuoi dire che è successo? Sei tutto contratto…, mi chiede, con tono seriamente preoccupato.

    Io mi sento come una sfoglia di pasta all’uovo grezza, che viene lavorata per poi essere messa in forma.

    Non ricevendo risposta, Christopher fa la stessa operazione anche all’altro braccio: mi sento come un tortellino modellato da mani sapienti.

    E tutto ciò mi fa ricordare che è da quasi un giorno e mezzo che non tocco cibo e che, soprattutto, ho scordato di dire come sono giunto qui.

    Il giorno dopo il funerale, sono ripartito per Roma. Sono sceso a Fiumicino alle 9. Mi aggiravo per i lunghi corridoi dell’aeroporto con lo stesso spaesamento di Johnny Depp e Benicio del Toro in Paura e delirio a Las Vegas, immersi però in una botte di Xanax.

    Quasi meccanicamente, ho acceso il cellulare, aperto WhatsApp, cercato nella rubrica Cristopher, digitando: Sono a pezzi, ho bisogno di rilassarmi.

    Dopo pochi minuti, la risposta: Vieni subito. Ma mi devo preoccupare?.

    Forse sì.

    Ho chiamato un taxi: Andiamo a Piazza Navona, ho detto al tassista, il quale subito ha cercato di fare l’Alberto Sordi di turno, cominciando con il facile repertorio dell’attacca-bottone romano. Solitamente, li adoro, ma in quella circostanza, a malincuore, ho dovuto rispondere: Scusa, caro, sto a cocci, ce la raccontiamo un’altra volta, ok?. Il tono di voce e la mia faccia dovevano essere stati così convincenti, che il tassista, quasi mortificato, ha concluso con un sentito: Le chiedo scusa. Se vuole, spengo anche la radio.

    Gentilissimo, ma no. La lasci pure, grazie.

    Mentre il paesaggio mi passava accanto, saettando sul finestrino, io ero immerso in uno spazio-tempo altro, catatonico. Ad certo punto, mi accorgo che la radio stava passando Relax dei Frankie goes to Hollywood: una profezia!

    Guardo fuori e lo splendore di Roma mi scorre davanti muto: le fronde di Villa Pamphili, la maestà der Cuppolone cantata da Venditti, il Lungotevere immortalato da Baglioni, fino ad arrivare, attraverso l’eleganza sabauda di Corso Vittorio, alla regina del barocco romano: Piazza Navona!

    Scusandomi col tassista e ringraziandolo per la sua gentilezza in forma di mutismo – è cosa rara relegare al silenzio un romano! – l’ho pagato e con passo incertamente spedito, ho attraversato la piazza, passando sotto al balcone in cui la Loren muoveva

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