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Turnabout: Il rischio di tornare
Turnabout: Il rischio di tornare
Turnabout: Il rischio di tornare
E-book361 pagine4 ore

Turnabout: Il rischio di tornare

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Info su questo ebook

Non ho tempo per una visita fuori programma a casa per aiutare mio padre nella sua tipografia, che non se la passa bene. La mia permanenza nel Vermont dovrà essere breve, per un paio di motivi: primo, sono un dirigente molto impegnato che cerca di scalare la vetta dell’azienda; secondo, il mio ex lavora ancora come braccio destro nel negozio di mio padre. E io non sono riuscito a dimenticarlo.
Nella tipografia di Burlington non è cambiato niente. Auden continua ad avere quel suo accento scozzese, sexy in maniera esasperante. È ancora bellissimo e ancora testardo. Tra il modo in cui manovra l’antica pressa con le maniche arrotolate e il suo secondo lavoro nell’enoteca inclusiva più alla moda di Burlington, tocca tutte le corde giuste per farmi sentire attratto da lui.
E anche le corde giuste per farmi innamorare di nuovo. Se non fosse che io sono il suo opposto. Io amo il cambiamento, mi piace correre rischi. Tutto ciò che lui evita.
Allora perché sto cercando di convincerlo che potremmo avere più di quello che abbiamo mai sognato, la possibilità di un “per sempre”?

Turnabout – Il rischio di tornare è una storia d’amore che parla di seconde possibilità, condita di interferenze familiari, lusinghe e un grosso aiuto da parte di fanatici della cancelleria artigianale.

Fa parte della serie Vino & Veritas ed è un bestseller su Amazon nella categoria della narrativa bisessuale!
 
LinguaItaliano
Data di uscita14 mar 2024
ISBN9791220708029
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    Anteprima del libro

    Turnabout - Laurel Greer

    1

    CARTER

    Poche cose danno tanta soddisfazione quanto aprire una scatola di biglietti da visita freschi di stampa.

    Lo strappo del sigillo. Il profumo del cartoncino nuovo. Il liscio spessore di trentadue punti sotto i polpastrelli. Ognuna di quelle lettere nere è la prova che mi sono guadagnato l’ufficio ad angolo in cui devo ancora sistemarmi per bene.

    Certo, mio padre farà un ghigno beffardo di fronte a biglietti da visita stampati in digitale, anziché inchiostrati a mano con una delle sue antiche presse tipografiche.

    Sono disposto a soprassedere su questo difetto.

    La mancanza di una punzonatura fatta su misura non cambia il fatto che il nome CARTER PRESCOTT è impresso proprio sopra il titolo di vicepresidente, che ho ottenuto dopo essermi fatto il culo.

    Picchietto uno dei bordi rilegati in rosso del biglietto sulla mia scrivania e scuoto la testa. Non posso distribuirli. Il doppio spessore non è lo standard del marchio aziendale OfficeMart. Questi sono solo per me.

    Sono un cazzone che usa la cancelleria per atteggiarsi? Certo, ma aspettavo questo momento da anni. Sono giustificato se mi lascio un po’ trasportare.

    E lo sono anche per averne voluto spedire uno a mio padre. Con un bigliettino scritto a mano, come piace a lui.

    GRAZIE PER AVERMI MOTIVATO. NON CE L’AVREI FATTA SE NON CI FOSSI STATO TU A DIRMI CHE NON AVREI DOVUTO PROVARCI.

    Quando mi sono venduto alla Grande Carta Senza Anima (copyright di Francis John Prescott), lo si poteva sentire stracciarsi le vesti dalla sua bottega in Vermont fino a Montréal.

    Mi alzo e faccio un lento giro per il mio ufficio nuovo di zecca, indeciso su dove sistemare i mobili. Se posizionassi la scrivania lungo la parete più lontana, avrei una vista sulle guglie della basilica di Notre-Dame e sulle verdi distese dei parchi dell’Île Sainte-Hélène.

    L’avrei orientata in modo da guardare il Gay Village in lontananza e godermi la vivida striscia arcobaleno del soffitto di palline di plastica che si allungava sulla strada per un chilometro, ma quell’installazione è stata rimossa un paio di anni fa.

    Quando le palline sono state messe in vendita, la nostalgia mi ha spinto a comprare una stringa di ogni colore, per poi drappeggiarle sul balcone del mio condominio in un arcobaleno tutto mio. Dopotutto, era per beneficenza. E ho trascorso molti bei momenti, durante il paio di estati in cui quei cordoni colorati hanno trasformato la strada in una magica grotta queer.

    Magari fisserò qualche pallina di ogni colore su degli steli finti e creerò un bouquet per la libreria addossata alla parete senza porta del mio ufficio. Un piccolo ehi, questo sono io dietro il pretesto di esporre un cimelio locale.

    Sento il telefono vibrarmi nella tasca dei pantaloni. Lo tiro fuori.

    Imprescott Designs.

    Merda. Papà mi sta chiamando dal lavoro? Magari vorrà davvero congratularsi con me.

    Uno strano calore mi si diffonde nel petto, e rispondo. «Papà, ciao…»

    «Carter.» Sembra stranamente emotivo. «Hai un minuto?»

    Per sentirgli riconoscere il mio successo? Sempre. «Certo, che c’è?»

    «Tua madre…»

    Non termina la frase.

    Mi si chiude lo stomaco e la spavalderia di poco prima si dissolve in una pozza di fango. «Sta bene?»

    «Lei… lei…»

    Mamma ha solo cinquantanove anni e ha passato la vita a mangiare cavoli e avena integrale. Non posso che immaginarla in perfetta salute.

    Ma papà ha una tale difficoltà a parlare che mi passano per la testa tutte le peggiori ipotesi. Infarto, ictus, cancro… cazzo, forse un incidente d’auto…

    «Mi ha lasciato,» mormora alla fine.

    Cosa? Non è una malattia terminale o la morte, ma è comunque una cosa inaspettata. Giro attorno alla scrivania e mi abbandono sulla sedia. Le ginocchia mi tremano ancora, dopo il breve viaggio sul viale degli scenari più tragici.

    «Ti ha lasciato? È finita per sempre? Dove sei?»

    «Non… non lo so.» Fa una pausa. «Voglio dire, non so se se n’è andata per sempre. Dove sono lo so. Al lavoro.»

    Ovvio. Quella domanda è stata uno spreco di fiato. Con tutta probabilità è nel suo ufficio disordinato, con un’espressione sconcertata, a passarsi una mano tra i capelli biondi e scompigliati a cui servirebbe una bella pettinata. Una maledizione che perseguita anche me. Ecco perché tengo i miei sempre molto corti. Inoltre, mi pulisco gli occhiali più di una volta ogni secolo. E ho eliminato tutte le mie magliette con i loghi dei vari festival annuali di Burlington nell’attimo stesso in cui ho ricevuto il primo vero stipendio.

    «Che hai combinato?» gli chiedo.

    «Io…» Si schiarisce la gola. «Niente.»

    «Non può essere niente. Siete sposati da quasi quarant’anni. La gente non prende e se ne va senza motivo.» Le persone se ne vanno per buone ragioni, come l’opportunità unica nella vita di lavorare in una città cosmopolita e mozzafiato.

    E quando un fidanzato decide che non è disposto a trasferirsi, a voler correre quel rischio per stare insieme, beh, la colpa è sua.

    «No.» Papà ha un tono sconfitto. «Non ho davvero fatto niente. Nel senso: Francis, hai messo tutto te stesso nelle tipografie e niente in questo cazzo di matrimonio da prima che entrassi in menopausa. E io ne ho abbastanza

    «È un niente di merda, papà.»

    «Ha ragione lei, non è vero?»

    «Sinceramente non lo so.» Di solito sono a casa solo per le vacanze, quando tutti si comportano al meglio. Certo, quasi sempre il comportarsi al meglio di mio padre consiste nel lasciarsi andare a un po’ di vin brulé a Natale e apostrofarmi come tirapiedi aziendale, ma la sua indignazione per la mia scelta professionale è ben nota. Non ho mai avuto l’impressione che ci fosse astio tra lui e mia madre.

    Immagino la cucina soleggiata senza papà che si affanna a preparare un caffè denso come melassa e il giardino senza mamma persa tra le sue dalie. Un nodo mi riempie la gola. Non riesco a immaginarli separati.

    Il senso di colpa mi attanaglia. Se fossi riuscito a convincerlo della validità del piano commerciale che avevo elaborato con sudore, lacrime e arroganza durante il mio master in Gestione Aziendale, se lo avessi convinto a portare il negozio nel ventunesimo secolo, avrebbe dovuto affrontare tutto questo?

    Non ha senso impiegare macchine del 1900 come se fossero prodotti del 2000, Carter. Rispetta la storia.

    Giusto, non è colpa mia. È un altro esempio di come mio padre sia un idiota testardo.

    Ho fatto bene ad allontanarmi dalla Imprescott Designs.

    Il calore mi si diffonde sul collo, quel residuo di discussioni passate che si annida nel profondo del ventre, in attesa di emergere e scattare con ferocia.

    «Non è la prima volta che lasci che gli affari si mettano tra te e un membro della famiglia.» L’accusa mi esce dalle labbra prima che possa limare il tono chiaramente rancoroso.

    «Gesù, Carter. Non ti ho chiamato per sentirmi scaricare addosso anche la tua frustrazione.»

    «Allora avresti dovuto chiamare Jill.»

    «Tua sorella non mi parla,» ammette lui. «Sta dalla parte di tua madre. Continua a mandarmi messaggi, chiedendomi come voglio che risponda alle domande di Cypress sul fatto che la nonna ami ancora il nonno oppure no.»

    Sgrano gli occhi. «Dovrei chiamare mamma.» Non ho nessuna intenzione di mettermi in mezzo, ma voglio sentire la versione di mia madre e capire se ha bisogno del mio sostegno.

    Papà sospira. «Puoi provarci. Ma è… è partita per Parigi ieri sera.»

    Quasi mi cade il telefono. Quand’è stata l’ultima volta che mia madre ha viaggiato più lontano di Boston?

    «Senza preavviso?» domando.

    «Dice che è stanca di aspettare che mi stacchi dalla Vandercook.»

    L’immagine è abbastanza accurata. Mio padre passa più tempo a indossare il grembiule di pelle e ad armeggiare con le sue macchine da stampa in ghisa che a non farlo. Non mi sorprenderebbe se volesse essere sepolto con le sue amate presse, figuriamoci se vorrebbe staccarsene mentre è ancora in piedi e respira. Non è difficile capire il punto di vista della mamma.

    Un angolo della mia bocca si solleva. Sono orgoglioso di lei. La immagino mentre si aggira per il Quartiere Latino, con gonne e sciarpe eccentriche che volteggiano mentre sgranocchia un pain au chocolat. Ogni volta che mi trovo a Parigi per lavoro, mi chiede sempre di mangiare un nuovo tipo di dolce e di mandarle una foto. E se il suo obiettivo in questo momento è realizzare finalmente tutti i viaggi della sua lavagna dei desideri, io approvo. Sono un sostenitore del concentrarsi sul futuro e cancellare voci dalla lista delle cose da fare.

    Il mio stomaco è ancora inquieto.

    «Papà…»

    Lui tira su con il naso.

    «Forse dovresti davvero staccarti dalla Vandercook. Prenditi un po’ di tempo libero.»

    «Tu non hai mai preso più di tre giorni di ferie, da quando hai iniziato a lavorare per quell’azienda di venduti,» ribatte. «Quindi forse non dovresti puntare il dito.»

    È un ritornello così ricorrente che ne sono immune.

    Quasi.

    «Non stiamo parlando di me. Io non deludo nessuno lavorando.» Non più. «Sei tu che lo stai facendo. E non vale la pena di fare qualcosa di drastico per sistemare le cose con mamma?»

    «Te lo ripeto, quella ricchezza viene da…»

    «Te lo ripeto, non stiamo parlando di me. Io non sono impegnato con nessuno. Tu . Quindi fai quello che devi, cazzo.»

    Il sibilo di sconfitta che emette mi fa quasi scoppiare il timpano e mi fa sussultare.

    «Non so come fare,» ammette.

    Sbatto le palpebre a lungo. Non sono abituato a non vederlo sicuro al mille per cento che il suo modo di fare sia quello giusto.

    «Beh, papà, magari chiedile…»

    «Carter!» Una testa si affaccia alla mia porta. Anne-Emmanuelle, una delle direttrici del mio team di attività promozionali, ha il fiatone. I suoi capelli rimbalzano scomposti, come se fosse corsa dalla sala conferenze. «La notre riunione. Est-ce que tu viens?»

    Non c’è niente di meglio del mezzo francese di Montréal, soprattutto se pronunciato con l’accento della Guadalupa di Anne-Emmanuelle.

    La riunione. Sobbalzo e controllo l’orologio. Merda, sono in ritardo. Stringo il cellulare al petto. «Ehm, j’ai un urgence familiale. Peux-tu faire un excuse pour moi? J’ai besoin de, ehm… Cinq? Non, dix minutes

    Lei sgrana a dismisura gli occhi scuri, probabilmente nel sentir parlare di un’emergenza familiare. Annuisce, aggiunge che riferirà che sarò alla riunione tra dieci minuti e si allontana.

    Mi concentro nuovamente su mio padre. «Ti serve un piano.»

    «Ti sto impedendo di lavorare,» nota.

    Sono in ufficio dalle sette del mattino alle otto di sera. È ovvio che mi impedisca di lavorare. «Sì, il venerdì pomeriggio c’è la riunione del team promozionale. Mi sto ancora ambientando nella mia nuova posizione.»

    «La tua nuova… Oh, giusto.» La sua voce si appiattisce, come se fosse una delusione il fatto che suo figlio è uno dei più giovani vicepresidenti mai assunti da OfficeMart, una delle più redditizie aziende globali di forniture per ufficio attualmente in attività.

    Ma cosa sto dicendo? Per Francis Prescott è più di una delusione. È un tradimento.

    Non è un segreto che sarebbe stato più orgoglioso di me se fossi tornato nel Vermont, con macchie di inchiostro sulla mia vecchia maglietta con la stampa I’VE GOT THE MOOS LIKE JAGGER.

    Ammetto di non averla buttata via. È in un cassetto da qualche parte, probabilmente sotto la mia collezione di fazzoletti da taschino e la felpa della squadra di pallanuoto dell’Università di Burlington che ho rubato a un uomo che fingo di dimenticare.

    Il pensiero dell’ultima volta che l’ho indossata, dell’ultima volta che qualcuno me l’ha tolta, mi fa scorrere nelle vene qualcosa di dolceamaro come il caffè di mio padre.

    Niente rimpianti.

    Io non ho rimpianti.

    Mio padre ne avrà, però, se non sistemerà le cose con mia madre. E se non mi offro di aiutarlo, potrei averne anch’io. «Cosa posso fare, papà?»

    «Puoi trovare un modo per duplicarmi, così posso inseguire tua madre?» È chiaro che si tratta di una battuta, ma il tono spento ne rovina l’incisività.

    E non dovrebbe essere una battuta. Dovrebbe davvero inseguire mia madre.

    «Il tuo assistente non può gestire le cose per una settimana senza di te?»

    «È sempre un delirio… Contratti a non finire. Uno grosso che devo portare a termine oggi, per esempio.»

    Più che altro, un proprietario che spesso prende doppi impegni e che è allergico all’uso del computer per qualsiasi cosa che non sia il lavoro di progettazione, perciò l’unico dipendente che può permettersi passa metà del suo tempo a risolvere le inefficienze manageriali.

    Penso al registro che usa papà – una scatola di Blundstone di un paio di stivali che avevo al liceo, ormai ridotta a brandelli – e mi sale la pressione.

    «Potresti… potresti venire a darci una mano?» mormora.

    Devo aver capito male. «Chiedo scusa. Vuoi che lavori per te?»

    «Ho sempre voluto che lavorassi per me.»

    Stringo i denti. Questo argomento è diventato stantio ai tempi in cui Beyoncé cantava Single Ladies.

    Ma non mi sta chiedendo un impegno a vita. Sa che non ho alcun interesse a fare il suo lacchè mentre si barcamena per ottenere un profitto marginale. «Vuoi che venga a casa per qualche giorno? Che ti copra mentre insegui la mamma?»

    «Lo faresti?»

    «Beh…» Il nodo è tornato. Deglutisco, cercando di farlo sciogliere. La striscia di spazio condiviso nel diagramma di Venn intitolato Carter Prescott vs. Francis Prescott è larga circa un millimetro.

    Questo però non vuol dire che voglio che si senta solo e che finisca nella tomba per lo stress da lavoro.

    Non voglio nemmeno che mia madre sia infelice o che mia sorella debba spiegare ai suoi figli perché la nonna e il nonno non possono più venire insieme alle loro feste di compleanno.

    «Dovrei riuscire a prendermi un po’ di tempo libero.» Per quanto a papà piaccia dire che la mia azienda è senz’anima e la radice di tutti i mali, le Risorse Umane sono comprensive quando si tratta di emergenze familiari. È già capitato che i dirigenti lavorassero a distanza. Certo, io sono nuovo nella mia posizione, ma con il mio curriculum di una settimana di ferie all’anno, sapranno che non lo chiederei se non fosse necessario. «Se torno a casa, prometti di strisciare come non hai mai fatto prima? Di cercare davvero di capire cosa c’è che non va e di fare qualcosa?»

    «È probabile che non possa fare niente.»

    «Ci sono problemi irrisolvibili.» Come, ad esempio, il tuo ragazzo che prende le parti di tuo padre quando gli proponi un modo per espandere l’attività di famiglia. «Ma ce ne sono anche di risolvibili. Tu tieniti pronto a sfoderare qualche mossa geniale ai livelli di Patrick Swayze che porta via Baby dall’angolo. Io posso gestire l’attività, ma tocca a te lavorare sulla vostra relazione.»

    Lui rimane in silenzio per qualche secondo. «E che mi dici di Auden?»

    «Che c’è da dire?»

    «Riuscirai a lavorare con lui?» Il tono di papà è dubbioso. «È ancora…»

    «Non rimarrò abbastanza a lungo perché la mia storia con Auden sia un problema. Vai in Francia. Sistema le cose con mamma. Al negozio penserò io.»

    Resta da vedere se mi troverò nella merda fino alle ginocchia.

    2

    AUDEN

    Non direi di avere una routine del sabato mattina.

    La routine porta a dover spiegare a un intero villaggio di persone perché hai iniziato a pescare nel lago con tuo zio invece che con tuo padre.

    Le abitudini, però, sono inevitabili. Nei fine settimana di gennaio, se non sono fuori per una passeggiata con le racchette da neve, probabilmente ho un caffè in mano e sto curiosando tra gli scaffali del reparto libreria di Vino and Veritas. Caffè al mattino, vino alla sera, bei libri e carta, il tutto cosparso di una sana dose di gioia arcobaleno: è il mio posto felice.

    Questa mattina non è diversa dalle altre. Cullando tra le dita il mio cappuccino grande con schiuma extra, inspiro i dolci odori di carta e pasticcini e mi avvicino al basso espositore di cancelleria vicino alla cassa. La soddisfazione mi riempie la pancia: il mio piccolo progetto domestico è ancora annidato tra set di penne stilografiche deliziosamente eleganti e quaderni di lusso cuciti a mano. La pila dei set di carta da lettere con fogli monogrammati è più bassa rispetto all’ultima volta che l’ho guardata, mercoledì pomeriggio.

    Sfoglio la pila con una mano. La S e la A vanno forte.

    Annotato.

    Soddisfatto che il mio lavoro sia piaciuto a un paio di persone tanto da sborsare i loro sudati soldi, indico la pila ridotta e rivolgo un pollice in su a Briar, l’impiegato che lavora alla cassa.

    La sua espressione lampeggia di diffidenza. Mmm. «Tutto bene?» gli chiedo.

    «Ehm, certo.» La sua bocca è inclinata verso il basso.

    Strano, ma Briar è un tipo riservato. Lo è meno da quando si è innamorato, ma è comunque riservato.

    Si palpa la sommità della testa coperta dal berretto. «Se vedi il signor Fletcher…»

    Aspetto, ma lui non approfondisce. Lo stomaco mi vacilla. Forse il proprietario della libreria non è soddisfatto delle vendite della mia cancelleria. «C’è qualcosa che dovrei sapere?»

    «Non è proprio compito mio parlarne.»

    «Capito.» Mmm. Voglio dare la caccia a Harrison o aspettare che sia lui a trovare me?

    La seconda. Finisco prima il mio caffè, per essere sicuro di avere la giusta dose di caffeina in corpo per reggere le cattive notizie.

    Ignorando i miei nervi a fior di pelle, mi dirigo verso lo scaffale dei nuovi arrivi, curato con attenzione. È sempre bene sapere cosa è popolare ed eccitante. Mi dà qualcosa di cui chiacchierare con gli avventori del reparto enoteca del locale, dove faccio il barista in nero un paio di volte alla settimana. Servire vini locali e inventare cocktail personalizzati è divertente quasi quanto giocare con le macchine da stampa, e i soldi in più mi tornano utili quando mia madre ha bisogno di un piccolo aiuto finanziario.

    Sto controllando lo scaffale alla ricerca di nuovi titoli, quando una macchia color blu Oxford mi passa davanti. Harrison Fletcher è un bell’uomo sulla quarantina. Ha sempre avuto un aspetto curato, pur vivendo nel Vermont. Anche dopo essersi trasferito nell’allevamento di polli del suo fidanzato, il che deve richiedere uno sforzo.

    Il Vermont sa farti affezionare ai suoi luoghi. Dovrei saperlo. Uno viene qui per frequentare l’università, per allontanarsi dalla Scozia e dai ricordi che soffocano ogni secondo delle sue giornate. E poi, qualche anno dopo, si ritrova innamorato di un ragazzo del posto e ricoperto di flanella e maglioni, che ti si appiccicano addosso come il muschio su una roccia.

    Harrison, però, è fedele alle sue camicie abbottonate. In questo momento sta giocherellando con i polsini e mi studia come se non sapesse da dove cominciare.

    «Problemi con la linea con i monogrammi?» azzardo. «Non c’è problema se non funziona.»

    Mi sono divertito a idearla ma, se non sarà un successo, pazienza.

    Meglio avere il cuore spezzato e soffrire un po’ in anticipo. Si evita di soffrire ancora di più una volta che ci sono di mezzo anelli, case e figli.

    Sobbalzo all’eco dei consigli di mia madre dopo la rottura con Carter. Cristo. Come se quel passo falso nella mia storia sentimentale fosse in qualche modo collegato alla progettazione di articoli di cancelleria per il negozio di Harrison.

    «Le vendite vanno bene,» afferma lui.

    «Ottimo.» Bevo un sorso di caffè.

    Si sporge un po’ verso di me. «Va tutto bene con Francis?»

    Mi viene da piangere. Il mio capo alla Imprescott Designs, dove lavoro a tempo pieno come designer e operatore di tipografia, ha avuto una settimana infernale. «Che cosa hai sentito?»

    «Che Caro ha chiesto il divorzio.»

    «È così. Ha tutte le ragioni di essere stordito.»

    So che Caro ha ragione sul fatto che Francis lavora troppo a scapito di tutto il resto della sua vita, ma la devastazione sul suo volto mi era familiare in modo disturbante. Mia madre assumeva troppo spesso un’espressione simile, negli anni successivi alla partenza di mio padre. Per un certo periodo l’ho avuta anch’io. Mi spezza il cuore vedere l’uomo che considero un padre andare in giro come se gli fosse crollata la terra sotto i piedi.

    Mi strofino il petto, con il desiderio che il dolore crescente si attenui. Non so cos’altro dire a Harrison. Non mi piace molto condividere le storie degli altri, anche se so che Harrison me l’ha chiesto per gentilezza.

    «Visti i problemi di Francis e Caro, mi sento un vero egoista a dover tirare fuori l’argomento…» Le parole successive gli escono di getto. «La settimana scorsa avrei dovuto spedire i biglietti di invito. Francis mi ha chiesto un po’ di tempo in più, ha detto qualcosa a proposito di un problema di doppi ordini, e voi siete i migliori nel vostro lavoro, quindi non è un problema essere paziente. Ora però ho bisogno della prima parte del nostro ordine.»

    «Ah, cavolo,» mormoro. Francis mi aveva assicurato che si stava occupando del lavoro per il matrimonio di Harrison e Finn. Inviti, biglietti di risposta, indicazioni per la cerimonia e il ricevimento, un biglietto in sostituzione dei regali… «Mi dispiace molto. Andrò allo studio a controllare. Se non altro, avrai gli inviti entro questo pomeriggio.»

    Il progetto è di Francis, ma dovrà accettare qualche interferenza. Chiedere a un cliente di essere paziente ed empatico di fronte a un’emergenza è una cosa; la vera e propria mancanza di professionalità è un’altra.

    Il sollievo attenua l’espressione di panico di Harrison.

    Sorrido, faccio un cenno di saluto e mi dirigo al bancone del caffè per passare la mia bevanda dalla tazza di ceramica a un bicchiere da asporto. Caffè alla mano, mi avvolgo la sciarpa di lana intorno al collo e mi avvio verso il freddo invernale.

    Almeno non dovrò congelare a lungo. La Imprescott Designs si trova a un isolato da Vino and Veritas, in un piccolo ufficio al piano terra dietro l’angolo di Church Street. Mi avvicino al negozio. Le tende sono abbassate, bloccando la vista dei clienti e delle aree di lavoro. È insolito. A Francis piace far entrare la luce, con le conseguenze sulla bolletta del riscaldamento.

    Il nostro cartello TORNO SUBITO è affisso sulla porta e indica le undici e mezza. Apro la porta ed entro, gettando i miei strati di indumenti invernali su una delle sedie di pelle che circondano il piccolo tavolo che usiamo per le consulenze di progettazione.

    Il lungo bancone che corre parallelo alle finestre è stato ripulito dal solito disordine. È parecchio fastidioso, perché Francis dovrebbe lavorare all’ordine di Harrison e Finn, anziché preoccuparsi di riordinare.

    Non lo si vede da nessuna parte. Le gioie in ghisa che sono il suo orgoglio campeggiano, al momento in silenzio, nello spazio di lavoro dall’altra parte del bancone. Gli scaffali sono allineati sulle pareti laterali e sulla parete in fondo, perlopiù una disposizione disordinata di calamai e supporti angolari pieni di antiche macchine da scrivere. Abbiamo un altro magazzino nel retro, vicino all’ufficio di Francis, che è il luogo in cui suppongo si stia nascondendo.

    Spingendo la porta a battente attaccata al bancone, emetto un fischio incredulo. Il bancone anteriore sarà anche sgombro, ma il tavolo da lavoro principale, al centro della stanza, è in disordine.

    Il bidone del riciclaggio attira la mia attenzione. È ricolmo di carta piena di errori. Francis ha ovviamente lavorato al materiale per il matrimonio, come promesso. Ma non in modo efficace. Se vogliamo portare a termine questo lavoro oggi, e lui è così poco concentrato, dovrò intervenire io.

    Mi dirigo verso la pressa in uso e controllo l’allineamento dei perni di misura che usiamo per tenere in posizione ogni foglio di carta. Dovrebbero essercene tre, ma manca quello laterale. Cristo. Non c’è da stupirsi che ci siano molti errori di stampa.

    Dopo aver sistemato bene i perni e rinfrescato l’inchiostro, mi sistemo in posizione, trovando il mio solito ritmo con il pedale e l’impugnatura. Il rumore e lo scatto ripetitivo della macchina da stampa mi alleviano un po’ di tensione nel petto. L’ideale sarebbe avere l’intera opera finita e nelle mani di Harrison per quando dovrò iniziare il mio turno di barista del sabato.

    Sto quasi per finire gli inviti, quando si sentono dei passi da qualche parte in fondo al corridoio. Non sono i soliti stivali da lavoro di Francis ma, se è così fuori forma da dimenticarsi le cose basilari della preparazione, chissà che scarpe si è messo stamattina. Potrebbe presentarsi con le infradito o gli zoccoli da giardinaggio.

    O… scarpe eleganti?

    Nell’angolo della mia visuale appaiono un paio di scarpe alla moda. Che non appartengono a Francis.

    Il respiro mi si blocca in gola e per poco non mi schiaccio un dito nella pressa. Smetto di inserire la carta.

    «Auden. Ciao.»

    «C-ciao.»

    Carter Prescott indugia sulla soglia. È più basso di una spanna abbondante, rispetto al mio metro e novanta, ed è anche più snello di me, ma in qualche modo la sua presenza riesce a riempire l’intera stanza. Indossa una camicia bianca elegante e pantaloni color antracite. Sul suo viso non c’è più il sorriso giocoso che ho amato negli anni dell’università. Le sue labbra carnose sono serrate, tirano la pelle della mascella squadrata che ero

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