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Sono una brava ragazza
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E-book210 pagine2 ore

Sono una brava ragazza

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Info su questo ebook

Attraction Series

Oggi sono più vicina di quanto lo sia mai stata al mio obiettivo: diventare una giornalista d’inchiesta. Basta con i soliti trafiletti sul meteo o sull’importanza di lavarsi le mani, questa è la mia grande occasione per dimostrare che non sono più la ragazza imbranata e pasticciona di sempre. Ho ottenuto il mio primo, vero incarico per un super articolo sulla corruzione nelle grandi aziende. Per farlo, devo infiltrarmi come una moderna James Bond alla Galleon Enterprises. Per ottenere il posto da stagista c’è da superare il colloquio con un certo Bruce Chamberson, così potrò indagare su un presunto giro di corruzione. Mi sento davvero concentrata, non mi posso permettere di fare errori. Ma perché mi tremano le gambe adesso che l’uomo più bello che abbia mai visto è entrato nella sala d’attesa e mi sta guardando in cagnesco mentre faccio colazione? Ogni capo ha le sue regole e apparentemente Bruce non sopporta che qualcuno tocchi la sua frutta. Soprattutto la banana che gli viene lasciata fuori dall’ufficio ogni mattina, quella di cui non può fare a meno, e che io avevo scambiato per un gentile omaggio…

Bestseller istantaneo da oltre 100.000 copie negli Stati Uniti!

Il suo errore è stato pensare di poter resistere all’amore

«Il mix perfetto di risate e passione!»

«Penso di non aver mai riso tanto in tutta la mia vita. Questo libro è un concentrato di buonumore.»

«Una di quelle rarissime storie che sanno emozionarti e farti ridere allo stesso tempo.»

Penelope Bloom
è un’autrice bestseller di «USA Today». Adora immaginare e scrivere storie d’amore. Dopo aver lavorato come insegnante in un liceo, ha deciso di dedicarsi completamente alla scrittura di romanzi, spinta dall’entusiasmo delle sue due figlie. Sono una brava ragazza è il primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2019
ISBN9788822731258
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    Anteprima del libro

    Sono una brava ragazza - Penelope Bloom

    1

    Natasha

    Avevo fatto dell’essere in ritardo un’arte. Mi muovevo su un palcoscenico meraviglioso, New York City, dove spesso mi capitavano situazioni imbarazzanti. Con la complicità di un po’ di sfortuna, la mia goffaggine appariva in tutto il suo splendore. Una volta non mi ero presentata al lavoro perché pensavo di aver vinto alla lotteria. Solo in seguito avevo scoperto di aver letto i numeri della settimana precedente, ma nel frattempo, mentre andavo a ritirare la vincita, avevo mandato un messaggio al mio capo. Lo informavo che non avrei più partecipato a nessun’altra riunione noiosissima, di quelle che si potrebbero evitare mandando una semplice mail, perché sarei stata sul mio megayacht a mangiare grappoli d’uva, imboccata da splendidi uomini abbronzati. Sfortunatamente, il mio capo aveva stampato il messaggio e lo aveva incorniciato in ufficio, e quella sera avevo mangiato solo popcorn stantii, senza essere imboccata da nessuno.

    Poi c’era stata la sera in cui avevo visto Io e Marley e avevo pianto così tanto da essere uno straccio l’indomani mattina. Avevo impiegato mezz’ora a cercare le chiavi di un’auto che non possedevo e poi avevo sbagliato linea della metropolitana per andare al lavoro; mi era perfino capitato di dimenticare un appuntamento a cena con la mia migliore amica perché il mio cane aveva una crisi di nervi.

    Ebbene sì. Non c’era da esserne fiera, ma ero una specie di calamità naturale, una combinaguai. Okay. Qualcosa di più che una specie. Combinavo casini di continuo. Se c’era un bottone che per nessuna ragione al mondo doveva essere premuto, un vaso inestimabile, un anziano con problemi di cuore, o qualsiasi cosa che potesse complicarsi terribilmente, era meglio che io non mi trovassi nei paraggi. Ma cavoli. Ero anche una giornalista davvero in gamba. Non per nulla avevo ancora un lavoro. Naturalmente mi venivano sempre assegnati gli incarichi che nessuno voleva: ero sulla lista nera, senza possibilità di appello. È difficile far carriera per chi, pur scrivendo articoli interessanti, ha involontariamente la tendenza a tirarsi la zappa sui piedi da solo.

    «Sveglia», dissi, tirando un calcetto nelle costole a mio fratello. Braeden mugugnò e si voltò dall’altra parte. Tra una settimana avrebbe compiuto trent’anni e viveva ancora coi miei genitori. L’unica cosa che gli chiedevano era di fare qualche lavoretto in casa. Lui non li ascoltava e così, di tanto in tanto, minacciavano di sbatterlo fuori. A quel punto, per un giorno o due, veniva a dormire sul pavimento del mio buco d’appartamento, in attesa che si calmassero le acque. Poi toglieva il disturbo.

    Io ero una casinista che in qualche modo riusciva a cavarsela, ma Braeden era la mia versione disfunzionale. Aveva i miei stessi geni inclini all’autosabotaggio, ma gli mancavano la determinazione e la costanza nel rimediare ai propri errori. Il risultato era un ventinovenne il cui passatempo preferito era giocare a Pokémon Go sul cellulare; di tanto in tanto faceva l’operatore ecologico, ovvero raccoglieva i rifiuti per la municipalità percependo il minimo sindacale.

    «È ancora buio», mugugnò.

    «Sì, be’, i tuoi due giorni di grazia sono scaduti, B. Voglio che sistemi le cose con mamma e papà, perché ho bisogno di riappropriarmi del mio appartamento».

    «Vediamo. Prima, mentre sono da te in centro, vorrei catturare un pokémon. Quindi forse dopo».

    Mi infilai il cappotto in tutta fretta, calzando due scarpe diverse – una marrone scuro e una blu navy perché non avevo tempo di continuare a cercare quella giusta – e sgattaiolai fuori, sforzandomi di non far rumore. Vivevo sullo stesso pianerottolo della mia padrona di casa che non perdeva occasione per ricordarmi dei soldi che le dovevo.

    Certo, pagavo l’affitto. Prima o poi. Gli incarichi squallidi che mi venivano assegnati al giornale non erano esattamente quelli meglio retribuiti, quindi a volte avevo altre bollette da pagare. Tipo quella della luce. Quando mi sentivo davvero coraggiosa, facevo addirittura la spesa. I miei genitori non erano ricchi, ma facevano entrambi gli insegnanti e guadagnavano abbastanza per prestarmi dei soldi se mi fossi trovata in condizioni disperate. Avrei chiesto il loro aiuto mettendo da parte l’orgoglio, ma non volevo che si preoccupassero per me, così avevo fatto giurare a Braeden di non raccontare loro quanto fossero desolati il mio frigorifero e la mia dispensa. Presto mi sarei rimessa in sesto, quindi non c’era ragione di farne un dramma.

    Era costoso vivere a New York, ma non l’avrei scambiata con nessun altro posto al mondo. Se esisteva una città in grado di comprendere il particolare disordine nel quale vivevo, era proprio quella. Con così tante persone che affollavano le sue vie a qualunque ora del giorno e della notte, mi bastava seguire la corrente, senza preoccuparmi dei casini che combinavo e delle scarpe spaiate che indossavo.

    Mi godevo il tragitto da casa al lavoro, anche quando ero talmente in ritardo da sapere già che al mio arrivo mi sarei dovuta sorbire una bella lavata di capo.

    L’ufficio nel quale lavoravo era piuttosto essenziale, per usare un eufemismo. Le scrivanie erano di truciolato dipinto di grigio. Le pareti erano sottili e lasciavano entrare i rumori del traffico cittadino. Alcuni computer erano decisamente vintage: ingombranti, con il monitor che pesava poco meno di quindici chili, delle dimensioni di un bambino in sovrappeso. La carta stampata stava facendo una brutta fine e il posto in cui lavoravo ne era la riprova. Le uniche persone che ancora si dedicavano a quel tipo di giornalismo, o erano troppo stupide per guardare in faccia la realtà, oppure amavano troppo il loro lavoro per preoccuparsene. Mi piaceva pensare di appartenere un po’ a entrambe le categorie.

    Appena arrivai, Hank si precipitò fuori dal suo ufficio come una furia – il suo ufficio equivaleva a una postazione con una scrivania come le nostre, con l’eccezione che la sua era infilata in un angolo di quello stanzone immenso che condividevamo tutti. Hank era il nostro caporedattore e una delle poche persone con cui avevo direttamente a che fare. Certo, c’era anche il signor Weinstead, ma lui non si sporcava le mani con il vile lavoro. Si preoccupava solo che avessimo inserzionisti per il giornale e che qualcuno pagasse l’affitto per quella porzioncina di grattacielo che chiamavamo ufficio.

    Mentre Hank mi veniva incontro, Candace, la mia migliore amica, iniziò a gesticolare e a strabuzzare gli occhi dalla sua scrivania. Capii che stava cercando di avvisarmi di qualcosa: ma se Hank aveva deciso di appiopparmi un altro dei suoi incarichi rognosi, cosa avrei potuto farci?

    Mi squadrò dalla testa ai piedi, com’era sua abitudine. Aveva folte sopracciglia che assomigliavano in modo piuttosto fastidioso ai suoi baffi. Era destabilizzante: sembrava che avesse un terzo sopracciglio sopra le labbra, o due baffi sopra gli occhi. Non riuscivo a decidermi. Le tempie erano brizzolate, ma possedeva ancora l’energia di un giovanotto.

    «Sei in orario oggi?», tuonò. Sembrava quasi un’accusa, come se volesse sondare il terreno per capire di che umore fossi.

    «Sì?», azzardai.

    «Bene. Allora magari anche stavolta non ti licenzio».

    «Minaccia di licenziarmi da quando ho iniziato a lavorare per lei. Saranno tre anni ormai, giusto? Lo ammetta, Hank. Non sopporterebbe di perdere un talento come il mio».

    Candace, che ascoltava dalla sua postazione, si infilò un dito in bocca e finse di vomitare. Cercai di non ridere perché sapevo che Hank fiutava l’ilarità come un segugio e faceva di tutto per soffocarla.

    Abbassò i baffi – o le sopracciglia – infastidito. «L’unica cosa che ammetto è che mi piace avere qualcuno su cui scaricare gli incarichi che nessun altro vuole. A tal proposito…».

    «Mi faccia indovinare. Vuole che intervisti il proprietario di un’azienda che si occupa della raccolta dei rifiuti. No, aspetti. Forse il titolare di una società che, a fronte di una modica cifra mensile, si incarica di raccogliere la cacca dei cani davanti casa. Ci sono andata vicino?»

    «No», ringhiò. «Devi fingere di essere una stagista alla Galleon Enterprises. È una…».

    «Società di marketing molto quotata. Proprio così», dissi. «Lo so. Può anche continuare ad assegnarmi lavori ingrati, ma che ci creda o no, mi tengo sempre aggiornata sul mondo degli affari». Lo dissi con un pizzico d’orgoglio. Era così, in effetti. In ufficio potevano anche prendermi in giro, coprirmi di ridicolo, rendermi lo zimbello di turno, e a volte stare al gioco senza dire nulla era la cosa più facile. Ma restavo pur sempre una giornalista e prendevo sul serio il mio lavoro. Leggevo articoli, seguivo l’andamento azionario per conoscere gli astri nascenti del mondo dell’imprenditoria, e seguivo diversi blog sul giornalismo e la scrittura per tenermi sul pezzo.

    «Devi fare tutto il possibile per scoprire il marcio negli affari di Bruce Chamberson».

    «Di che marcio sta parlando?», chiesi.

    «Se lo sapessi, pensi che ti manderei là?»

    «Hank… Ho il vago sospetto che stavolta mi stia offrendo un buon incarico. Mi sono forse persa qualcosa?».

    Per la prima volta, l’espressione severa del suo viso si addolcì, anche se solo di poco. «Ti sto dando la possibilità di dimostrarmi che non sai combinare solo casini. Comunque, per la cronaca, mi aspetto che tu faccia fiasco miseramente».

    Serrai la mascella. «Non la deluderò».

    Mi guardò per qualche istante come se fossi un’idiota, e mi resi conto che aveva appena pronosticato il mio fallimento.

    «Ha capito cosa intendevo», gemetti, poi mi diressi alla scrivania di Candace.

    Mi accolse con un sorriso smagliante sulle labbra e si piegò in avanti. Aveva più o meno la mia età, cioè venticinque anni, forse un pelo di meno. L’avevo conosciuta due anni prima, quando avevo iniziato a lavorare per Hank e il «Business Insights». Portava i capelli biondi corti, alla maschietta, ma aveva un viso talmente bello che le stavano bene anche così, e aveva due grandi occhi azzurri. «La Galleon Enterprises?», chiese. «Lo sai, è una società multimilionaria».

    «Posso farmela addosso subito, o è meglio aspettare che nessuno mi veda?», domandai.

    Candace scrollò le spalle. «Se la fai sulla scrivania di Jackson, ti copro io. Ho il sospetto che mi rubi gli yogurt dal frigorifero».

    «Non sono la tua arma biologica, Candace».

    «La Galleon Enterprises», disse con voce quasi sognante. «Hai visto qualche foto di Bruce Chamberson, l’amministratore delegato, e di suo fratello, vero?»

    «Avrei dovuto?»

    «Solo se ti interessano due gemelli bellissimi in grado di far sciogliere le mutandine di una ragazza».

    «Okay. Che schifo. Se ti si sciolgono le mutandine solo perché certi uomini sono fighi, allora devi farti controllare».

    «Però poi non dirmi che non ti avevo avvertita di comprarti delle mutandine termiche prima di andare alla Galleon».

    Strabuzzai gli occhi. «Ti prego, non dirmi che esistono davvero».

    Si sporse in avanti e aprì la bocca con un’espressione incredula. «Avanti, Nat. Cosa pensi che indossino le astronaute?».

    Come al solito, mi sentii frastornata, confusa e leggermente turbata dalla conversazione con Candace. Lei comunque mi piaceva tanto. Non avevo tempo per coltivare delle amicizie in modo tradizionale – quello che viene proposto come normale dai protagonisti delle sit-com che si vedono in televisione. Ne vedi alcune e sei portato a pensare che un adulto medio trascorra dal novanta al novantacinque percento del suo tempo con gli amici o al lavoro. Senza considerare che il lavoro rappresenta solo un contesto diverso nel quale frequentare comunque gli amici.

    Forse ero io l’eccezione, ma dedicavo il cinque percento del mio tempo alle amicizie, il sessanta percento al lavoro e il trentacinque percento a preoccuparmi per il lavoro. Oh, e poi il dieci percento a dormire. Sì, lo so, il totale supera il cento percento e no, non mi importa. Il punto è che la mia vita non era una sitcom. Ero sola e temevo di ritrovarmi senza un tetto sopra la testa, o peggio ancora, di essere costretta a trasferirmi altrove rinunciando al mio sogno. Ma a spaventarmi di più era l’idea di fare la fine di Braeden. Sarei tornata nella mia vecchia stanza con le pareti macchiate di plastilina, là dove un tempo erano appesi i poster degli One Direction e di Twilight.

    Candace aveva il suo posticino nella mia vita e avrei voluto dedicarle più tempo, quindi in fondo apprezzavo anche quel pizzico di confusione che provavo dopo ogni nostra interazione.

    Tornata alla mia scrivania, cominciai piano piano a realizzare l’importanza dell’incarico che mi era stato assegnato. Candace poteva anche riderci su se voleva, ma dopo due anni, finalmente avrei avuto l’occasione di dimostrare quanto valevo. Avrei avuto la possibilità di scrivere un grande pezzo. Avrei dimostrato che meritavo i lavori migliori – quelli pagati di più. Questa volta, non avrei combinato casini.

    2

    Bruce

    C’è un posto per ogni cosa, e ogni cosa ha il suo posto.

    Parole sacrosante. Il mio mantra.

    Iniziavo la giornata alle cinque e mezza in punto. Non posticipavo mai la sveglia per dormire un po’ di più. Correvo per quasi dieci chilometri, stavo venti minuti esatti in palestra, poi tornavo in ascensore al mio attico e mi facevo una doccia fredda. Facevo colazione con due uova intere, tre albumi, una tazza di fiocchi d’avena col latte e per finire una manciata di mandorle che mangiavo una alla volta. Tiravo fuori la sera prima gli abiti che avrei indossato per andare al lavoro. Completo su misura nero, camicia grigia e cravatta rossa.

    Amavo l’ordine. Amavo che tutto fosse ben strutturato e organizzato. Ecco il principio alla base del mio modello d’impresa e uno dei fattori più importanti tra quelli che mi avevano portato al successo. Ci ero arrivato applicando una semplice formula composta da due elementi: prima si individua cosa fare per raggiungere l’obiettivo desiderato, e poi ci si mette all’opera. Quasi tutti sono in grado di individuare i passaggi giusti da seguire, ma pochi hanno l’autodisciplina per rispettarli alla lettera.

    Io ero uno di quei pochi.

    Appena tre mesi prima avevo chiuso con una ragazza, e la storia era finita in modo orribile e piuttosto complicato; quindi, negli ultimi tempi, era stato più facile attenermi alla solita routine. Forse, col passare dei giorni, ne stavo diventando fin troppo dipendente, ma francamente non mi importava. Pur di dimenticare, mi ammazzavo volentieri di lavoro. Per non provare mai più un dolore così lacerante, ero disposto a mantenere le distanze con tutti.

    Alle sette in punto il mio autista mi veniva a prendere per portarmi in ufficio. Lavoravo in un edificio di diciotto piani in centro. Io e il mio fratello gemello lo avevamo comprato cinque anni prima, un piano alla volta. Il nostro primo obiettivo era stato diventare operativi a New York. Ci impiegammo un anno per raggiungerlo. Quello successivo fu affittare un locale nel palazzo più celebre di Greenridge, una costruzione moderna in vetro e granito in pieno centro. Ci impiegammo due mesi. Alla fine, decidemmo di comperare tutto il palazzo. Ci impiegammo cinque anni.

    Ma eccoci lì.

    Tirai fuori il cellulare e chiamai William, mio fratello. Rispose, la voce impastata di sonno. «Che accidenti vuoi?», mugugnò.

    Sentii il battito del cuore accelerare. Potevamo anche assomigliarci come due gocce d’acqua, ma i nostri caratteri erano diametralmente opposti. William andava a letto con una donna diversa ogni settimana. Si alzava sempre tardi e non si presentava al lavoro. Quando arrivava, aveva tracce di rossetto sul collo e sui lobi delle orecchie, e la camicia sgualcita. Se fosse stato un altro, lo avrei licenziato seduta stante.

    Sfortunatamente, era mio fratello. E, sfortunatamente, aveva il mio stesso senso degli affari. Nonostante la sua mancanza di professionalità, era fondamentale per la Galleon Enterprises.

    «Ho bisogno di te subito», dissi. «Oggi dobbiamo selezionare le stagiste per il reparto pubblicità».

    Ci

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