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Il settimo omicidio
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E-book430 pagine6 ore

Il settimo omicidio

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Info su questo ebook

Un thriller originale, ricco di colpi di scena e di humour nero.

Joe tiene sotto controllo ogni aspetto della sua modesta esistenza, inclusi il lavoro che svolge di giorno presso il dipartimento di polizia e quello "notturno" consumato per le strade di Christchurch, in Nuova Zelanda.

Ma quando il giornale annuncia la settima vittima dell'Intagliatore, l'imprendibile serial killer che sta terrorizzando la città, Joe capisce che qualcuno si è intromesso nella sua routine, perché lui sa che l'Intagliatore ne ha uccise solo sei. Lo sa con certezza. Per questo si metterà sulle tracce del suo imitatore, lo punirà per quell'omicidio in più e farà in modo che su di lui ricadano anche le accuse di tutti gli altri. Ha un piano perfetto che non può fallire perché lui è molto più intelligente di chiunque altro, anche se in centrale pensano che sia lo scemo del villaggio. Tutto quello che deve fare è tenere a bada le donne che gli stanno intorno, a cominciare da quell'invadente di sua madre.
Man mano però che le sue indagini procedono, Joe si rende conto che anche il piano più dettagliato può avere qualche falla…
LinguaItaliano
EditoreJentas
Data di uscita18 nov 2021
ISBN9788742865002
Autore

Paul Cleave

Paul Cleave is an award-winning author who often divides his time between his home city of Christchurch, New Zealand, where most of his novels are set, and Europe. He’s won the New Zealand Ngaio Marsh Award three times, the Saint-Maur book festival’s crime novel of the year award in France, and has been shortlisted for the Edgar and the Barry in the US and the Ned Kelly in Australia. His books have been translated into more than twenty languages. He’s thrown his Frisbee in more than forty countries, plays tennis badly, golf even worse, and has two cats – which is often two too many. The critically acclaimed The Quiet People was published in 2021, with The Pain Tourist following in 2022.

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    Il settimo omicidio - Paul Cleave

    Il settimo omicidio

    Il settimo omicidio

    Il settimo omicidio

    Titolo originale: The Cleaner

    © 2006 Paul Cleave.

    © 2021 Jentas A/S. Tutti i diritti riservati.

    ePub: Jentas A/S

    ISBN: 978-87-428-6500-2

    –––

    A Quinn

    Tutti noi sentiamo ancora la tua mancanza, amico

    1

    Porto la macchina in fondo al vialetto. Mi appoggio con la schiena al sedile. Cerco di rilassarmi.

    Oggi, giuro su Dio, ci devono essere almeno trentacinque gradi. L’afa di Christchurch. Il tempo è schizofrenico. Il sudore mi goccia dal corpo, ho le dita umide e scivolose come lattice. Mi sporgo in avanti e giro le chiavi nel cruscotto, prendo la ventiquattrore ed esco dall’auto. Fuori da lì, l’aria condizionata funziona davvero. Arrivo alla porta principale e armeggio con la serratura. Tiro un sospiro di sollievo quando, finalmente, riesco a entrare.

    Vado in cucina. Da quello che sento, Angela è nella doccia al piano di sopra. La disturberò più tardi. Adesso mi serve qualcosa da bere. Mi avvicino al frigo. Ha uno sportello di acciaio inox in cui il mio riflesso sembra uno spettro. Lo spalanco e mi piazzo là davanti per quasi un minuto, godendomi la compagnia dell’aria fresca. Il frigorifero mi offre sia birra che Coca-Cola. Prendo una birra, la apro e mi siedo a tavola. Non sono un gran bevitore, ma faccio fuori la bottiglia in venti secondi, più o meno. Il frigorifero me ne offre un’altra. Chi sono io per dire di no? Mi rilasso contro lo schienale della sedia. Metto i piedi sul tavolo. Inizio a pensare di togliermi le scarpe. Avete presente quella sensazione? Una giornata calda al lavoro. Otto ore di stress. Poi ci si siede con i piedi in su, una birra in mano, e ci si toglie le scarpe.

    Pura estasi.

    Ascolto la doccia al piano di sopra, e bevo distrattamente la mia seconda birra dell’anno. Ci metto un paio di minuti a finirla, e adesso sono affamato. Torno al frigorifero, e alla fetta di pizza fredda che ho intravisto prima. Scrollo le spalle. Perché no? Non è che debba stare attento alla linea.

    Mi accomodo a tavola. Sollevo i piedi. Funziona anche con la pizza, una volta che ci si libera delle scarpe. Divoro la mia fetta, prendo la ventiquattrore e mi dirigo verso il piano di sopra. Lo stereo, in camera da letto, pompa un pezzo che riconosco ma di cui non ricordo il nome. Lo stesso vale per il cantante. Però mi ritrovo comunque a canticchiarlo mentre appoggio la ventiquattrore sul letto, e so che mi resterà incollato addosso per ore. Mi siedo vicino alla valigetta. La apro. Tiro fuori il giornale. La prima pagina presenta il genere di notizia che fa vendere un sacco di copie. Spesso mi chiedo se i giornalisti non ne inventino la metà, solo per far salire le vendite. Di sicuro c’è un mercato per questa roba.

    Sento la doccia che si spegne ma la ignoro: preferisco continuare a leggere il giornale. È un articolo su un tizio che sta terrorizzando la città. Uccide le donne. Stupro. Tortura. Omicidio. Il genere di cose che si vedono nei film. Passano un paio di minuti e sono ancora seduto a leggere quando Angela, strofinandosi i capelli con un asciugamano, esce dal bagno in una nuvola di vapore bianco e profumo di crema per il corpo.

    Abbasso il giornale e sorrido.

    Mi squadra.

    «E tu chi cazzo sei?» chiede.

    2

    Il sole è alto, l’abbaglia, fa scorrere gocce di sudore sotto il suo vestito e inumidisce la stoffa. Brilla sulla lapide di granito levigato, facendole strizzare gli occhi, ma lei rifiuta di distogliere lo sguardo dalle lettere incise là sopra ormai da cinque anni. La luce violenta le riempie gli occhi di lacrime — non che le importi: ha sempre gli occhi umidi quando viene qui. Avrebbe dovuto indossare gli occhiali da sole. Avrebbe dovuto mettere un abito più leggero. Avrebbe dovuto fare qualcosa per impedirgli di morire.

    Sally stringe il crocifisso che le pende dal collo, le quattro estremità affondano nel palmo. Non riesce a ricordare l’ultima volta che se l’è tolto e ha paura che, se lo facesse, si rannicchierebbe da qualche parte a piangere senza più fermarsi, passando il resto dei suoi giorni nell’incapacità di agire. Lo portava quando i medici, all’ospedale, avevano dato la notizia alla sua famiglia. Lo teneva stretto quando l’avevano fatta sedere e, con le facce cupe, avevano ripetuto le stesse parole già dette a innumerevoli altre famiglie, che sapevano che i loro cari stavano morendo ma si aggrappavano ancora a una speranza. Era sospeso sul suo cuore, quando aveva accompagnato i genitori in macchina alle pompe funebri, si era seduta con il titolare e, davanti a tazze di tè e caffè che nessuno aveva toccato, aveva scelto una bara sul depliant, girando le pagine patinate per trovarne una in cui suo fratello sarebbe stato bene. Avevano dovuto fare lo stesso anche con il vestito. Persino la morte si preoccupava della moda. I completi nei cataloghi venivano indossati da manichini: sarebbe stato di cattivo gusto farli mettere a gente spensierata che sorrideva con aria sexy.

    Porta il crocifisso tutti i giorni, da allora, usandolo come una guida, usandolo per ricordare che Martin si trova in un posto migliore, adesso, e che la vita non è crudele come sembra.

    Ha passato gli ultimi quaranta minuti a fissare la tomba, incapace di muoversi. Le ombre delle querce lì accanto si sono allungate appena. Ogni tanto, il vento da nord-ovest strappa qualche ghianda acerba dai rami, facendola finire su una lapide con lo stesso scricchiolio di un dito che si spezza. Il cimitero è una distesa di prato lussureggiante suddivisa dal cemento e, almeno adesso, quasi del tutto deserta, a eccezione di un pugno di persone ferme davanti alle lapidi, ognuna con la propria tragedia. Lei si chiede se ne arrivino di più durante la giornata, se il cimitero abbia un’ora di punta. Spera di sì. Non le piace l’idea che delle persone muoiano e altre persone dimentichino. Lì vicino, un uomo con un tosaerba percorre i vari appezzamenti di prato, prendendo le curve come un pilota, probabilmente ansioso di finire il lavoro e uscire da lì. Il vento porta fino a lei il suono del motore. Un giorno quel tizio, il giardiniere, magari sarà sepolto lì. E allora chi si prenderà cura del prato?

    Non sa nemmeno perché si sia messa a pensare cose del genere. Giardinieri che muoiono, l’ora di punta, gente che dimentica i propri morti. Si sente sempre così quando viene qua. Morbosa, confusa, come se qualcuno avesse frullato i suoi pensieri in uno shaker fino a farla star male. Le piace venirci almeno una volta al mese, anche se forse piacere non è la parola appropriata. Ci viene sempre, tutte le volte, nell’anniversario della morte di Martin, che poi sarebbe oggi. Domani sarebbe stato il suo compleanno. O forse lo è ancora. Non sa se conti, una volta che si è sotto terra. Per qualche ragione che non riesce a spiegare, non viene mai qui al suo compleanno. È sicura che avrebbe lo stesso risultato di togliersi il crocifisso. I suoi genitori sono già venuti, nel primo pomeriggio; lo capisce dai fiori freschi accanto ai suoi. Non viene mai qui insieme a loro. È un’altra cosa che non riesce a spiegare, nemmeno a se stessa.

    Chiude un attimo gli occhi. Ogni volta che viene al cimitero, finisce sempre per rimuginare su ciò che non comprende. Appena se ne va, le cose iniziano ad andare meglio. Si accoccola, accarezza i fiori sistemati davanti alla lapide, poi passa le dita sulle lettere incise. Suo fratello aveva quindici anni quando è morto. Gli mancava un giorno per arrivare a sedici. Un giorno di differenza tra la nascita e la morte... e forse nemmeno. Si trattava di mezza giornata. Magari sei o sette ore. Che senso aveva che fosse morto a quindici anni, quasi sedici? Gli altri residenti di quel luogo avevano una media di sessantadue anni. Lo sapeva perché aveva fatto i conti. Era andata da una tomba all’altra, digitando i numeri su una calcolatrice, e poi aveva fatto una divisione. Era curiosa. Curiosa di sapere di quanti anni fosse stato derubato Martin. I suoi quindici, sedici anni su questa Terra erano stati speciali, e il fatto che fosse mentalmente handicappato in realtà era una benedizione. Lui aveva arricchito la sua vita, e quella dei genitori. Suo fratello sapeva di essere diverso, sapeva di dover affrontare degli ostacoli, ma non aveva mai capito quale fosse il problema. Per lui, vivere significava divertirsi. Cosa ci può essere di sbagliato in questo?

    Lei non aveva mai trovato delle risposte alle proprie domande, né quando era lì, né quando se ne andava. Da questo punto di vista, niente sarebbe mai cambiato.

    Dopo un’ora, si allontana dalla tomba. Vuole raccontare a suo fratello morto dell’uomo con cui lavora, e del fatto che le ricorda Martin in molti modi. È un puro di cuore, dotato di un’innocenza infantile identica a quella di Martin. Vuole dirlo a suo fratello, ma se ne va senza proferire parola.

    Esce dal cimitero pensando a Martin. Ancor prima di aver raggiunto la macchina, il crocifisso inizia a lenire il suo dolore.

    3

    Non sono più interessato al giornale. Perché leggere le notizie, quando sono io a crearle? Così lo piego a metà e lo appoggio sul letto vicino a me. Mi ha lasciato dell’inchiostro sulle dita. Le pulisco sul copriletto mentre studio Angela. Ha quest’espressione sul volto, come se stesse cercando di digerire una notizia davvero brutta, tipo che suo padre è appena stato investito da una macchina o che il suo profumo è finito. Io guardo l’asciugamano. Il modo in cui le scende sul corpo. È davvero uno spettacolo mentre se ne sta lì seminuda.

    «Sono Joe» dico io, allungando la mano verso la valigetta. Scelgo il secondo coltello più grosso che ho là dentro. Una splendida lama di fattura svizzera. La sollevo. Possiamo vederla entrambi. A lei sembra più grande, anche se io sono più vicino. È una questione di punti di vista.

    «Forse hai letto qualcosa su di me. Sono una notizia da prima pagina».

    Angela è una donna alta con gambe belle e lunghe. Capelli biondi, ovviamente naturali, che scendono fino a incontrarle. Ha tutte le forme e le curve al posto giusto, proprio il genere di aspetto capace di condurmi fino a qui. Un viso attraente che potrebbe trovarsi su una rivista, in una pubblicità di lenti a contatto o di lucidalabbra. Occhi blu pieni di vita e, in questo momento, pieni di paura. La paura nel suo sguardo mi eccita. La paura nei suoi occhi suggerisce che sì, ha letto di me, probabilmente ha persino sentito parlare di me alla radio e ha visto i servizi in tv.

    Inizia a scuotere la testa, come per rispondere di no a tutta una serie di domande alle quali non sono neanche arrivato. Gocce d’acqua volano in ogni direzione: sembra che qui dentro stia piovendo in orizzontale. I capelli guizzano dietro di lei, le punte umide colpiscono le pareti e il telaio della porta. Volano fino ad arrivarle in faccia e restano incollati lì. Nel frattempo lei cammina all’indietro, come se avesse qualche altro posto dove andare.

    «Cosa, c-che cosa vuoi?» mi chiede. Tutta la rabbia arrogante di quando mi ha chiesto chi fossi è sparita alla vista del mio coltello.

    Scrollo le spalle. Mi vengono in mente diverse cose che vorrei. Una bella casa. Una bella macchina. Lo stereo suona ancora la stessa canzone: adesso è la nostra canzone. Sì. Un bello stereo al quale non direi di no. Ma lei non può darmi niente di tutto questo. Vorrei che potesse, ma la vita non è così semplice. Decido di tenermelo per me, almeno per ora. Avremo tutto il tempo di parlare più tardi.

    «Per favore, per favore. Vattene».

    Questa l’ho già sentita talmente tante volte che per poco non sbadiglio, ma mi trattengo perché sono un tipo educato. «Non si può dire che tu sia un’ottima ospite» dico garbatamente.

    «Sei pazzo. Ora chiamo la... la polizia».

    È davvero così stupida? Crede che me ne starò qui mentre prende il telefono e fa il numero in cerca d’aiuto? Magari che mi accomoderò sul letto, farò le parole crociate sul giornale finché non vengono ad arrestarmi? Inizio a scuotere la testa, come ha fatto lei prima, solo con i capelli asciutti.

    «Saresti libera di provarci» dico io «se il telefono fosse a posto». Cosa che non è. Me ne sono occupato io mentre mangiavo la mia pizza. La sua pizza.

    Si gira e corre verso il bagno nello stesso momento in cui io mi muovo verso di lei. È veloce. Anch’io sono veloce. Lancio il coltello. Prima la lama, poi l’elsa. Il trucco quando si lancia un coltello è nell’equilibrio... se si è dei professionisti. Se non lo si è, si riduce tutto a una questione di fortuna. Confidiamo entrambi di averne un po’ al momento. La lama le sfiora il lato del braccio, sbatte sul muro e poi finisce a terra rumorosamente, mentre lei svolta oltre la porta del bagno. La chiude, sbattendosela dietro, ma io non rallento, e le do una spallata. Trema appena nel telaio.

    Faccio un paio di passi indietro. Potrei sempre tornare a casa. Mettere a posto le mie cose. Chiudere la valigetta. Togliermi i guanti di lattice. E andarmene. Ma non posso. Sono molto legato sia al mio coltello che al mio anonimato. Questo significa che devo rimanere.

    Lei inizia a gridare in cerca di aiuto. Ma i vicini non la sentiranno. Lo so perché ho fatto i compiti prima di venire qui. L’edificio è in fondo al quartiere e dà su un prato, siamo al piano superiore e nessuno dei vicini là intorno è a casa. Il punto è fare i compiti. Per avere successo, in qualsiasi cosa nella vita, bisogna fare i compiti. Non lo ripeterò mai abbastanza.

    Attraverso la stanza e scelgo un altro coltello. Questo qui è il più grande. Sto per tornare nella camera da letto quando arriva una gattina. Quella dannata cosa è perfino amichevole. Mi chino e l’accarezzo. Lei si strofina contro la mia mano e inizia a fare le fusa. La prendo in braccio.

    Torno alla porta del bagno e la chiamo. «Esci fuori o spezzo il collo al tuo gatto».

    «Per favore, per favore, non farle del male».

    «A te la scelta».

    Così adesso aspetto. Come fanno tutti gli uomini quando le donne sono in bagno. Almeno non sta urlando. Faccio un grattino sul collo floscio di Fuffi. Non fa più le fusa.

    «Per favore, che cosa vuoi?».

    Mia madre, che Dio l’abbia in gloria, mi ha sempre detto di essere onesto. A volte, semplicemente, non è l’approccio giusto. «Voglio solo parlare» mento.

    «Hai intenzione di uccidermi?».

    Scuoto la testa incredulo. Le donne, eh? «No».

    La serratura risuona con decisione mentre sblocca la porta del bagno. Intende davvero correre il rischio piuttosto che far uccidere la sua gatta. Magari è costosa.

    La porta inizia ad aprirsi lentamente. Io resto immobile, troppo sconcertato dalla sua crescente stupidità per riuscire a muovermi. Quando la porta si apre abbastanza, lascio cadere Fuffi sul pavimento. Atterra in una massa informe di pelo, la testa ritorta da un lato e le zampe che puntano a destra e a manca quasi cercando una direzione, un senso. Angela vede il gatto ma non ha il tempo di urlare. Mi lancio contro la porta e lei non è abbastanza forte per tenermi fuori. La porta cede e lei perde l’equilibrio. Cade contro la doccia, e l’asciugamano le scivola dalle mani.

    Io entro nel bagno. Lo specchio è ancora coperto da un velo di vapore. Sulla tenda della doccia sono stampate alcune dozzine di papere di gomma che mi sorridono. Puntano nella stessa direzione e sono tutte uguali, come se stessero nuotando verso il fronte di una battaglia. Angela ricomincia con quella storia delle urla, anche se finora non è servita a niente. La trascino di nuovo in camera da letto e devo colpirla un paio di volte per poter procedere col piano. Lei cerca di fermarmi, ma io ho più esperienza nel sottomettere le donne di quanta ne abbia lei nell’autodifesa. Rovescia gli occhi all’indietro e ha il coraggio di svenirmi davanti.

    Lo stereo è ancora acceso. Magari, quando tutto sarà finito, me lo porterò a casa. La sollevo e la scarico sul letto, supina. Faccio un giro per la stanza, togliendo dalle pareti le foto della sua famiglia e mettendo a faccia in giù quelle sui davanzali e le mensole. L’ultima che vedo è un’immagine del marito e dei due figli. Direi che lui sta per ottenere la custodia esclusiva.

    Il passo successivo per creare un’atmosfera romantica è mettere la mia pistola automatica 9 mm Glock sul comodino, a portata di mano. È un bel pezzo. L’ho comprata quattro anni fa quando ho iniziato a lavorare. Mi è costata tremila dollari. Le armi sul mercato nero sono sempre più costose, ma anonime. Ho rubato i soldi a mia madre, che ha dato la colpa ai ragazzini del vicinato. È una di quelle sciroccate che non hanno un conto perché non si fidano dei direttori di banca. La pistola mi serve in caso il marito tomi prima. O se dovesse passare a trovarla un vicino. Magari ha un amante. E forse lui sta parcheggiando qui sotto proprio ora.

    La mia Glock è come la pillola magica: è la cura per ogni occasione.

    Stacco il telefono dal muro. Strappo il cavo all’estremità. Lo uso per fermarle le mani. Non voglio che si agiti troppo. Lego le mani alla testiera del letto.

    Sto finendo di legarle i piedi con la sua biancheria intima quando si sveglia. Si accorge di tre cose contemporaneamente. La prima è che io sono ancora qui e questo non è un sogno. La seconda è che è nuda. La terza è che è legata al letto a quattro di bastoni. Posso vederla registrare queste cose in una sorta di grande lista mentale. Una. Due. Tre.

    Da qui in poi inizia ad aggiungere cose che non sono ancora successe. Quattro. Cinque. E sei. Posso vedere la sua fantasia che corre a briglia sciolta. I muscoli della faccia che si tendono quando decide se pormi una domanda. I suoi occhi schizzano avanti e indietro mentre lotta per capire su quale parte di me concentrarsi. Ha la fronte lucida per il sudore. Posso figurarmela abbassare delle leve nella mente, cercandone una che le mostri le opzioni disponibili. La osservo tirarle tutte, ma le leve vengono via e le restano tra le mani.

    Le móstro di nuovo il coltello. I suoi occhi indugiano sulla lama. «Vedi questo?».

    Lei annuisce. Sì, lo vede. E piange anche.

    Poso la punta della lama sulla sua guancia e le chiedo di aprire la bocca. Lei diventa ansiosa di aiutarmi quando inizio a graffiarla col coltello. Poi, allungandomi fino alla valigetta, tiro fuori un uovo e glielo infilo in bocca. La cooperazione migliora quando accettano la realtà. L’uovo non ha nulla di straordinario, è solo un banale uovo crudo. Il fatto è che le uova sono ricche di proteine. E sono ottime per imbavagliare. «Se hai un problema con questo» le dico «fammelo sapere».

    Lei non dice nulla. Non c’è problema, naturalmente.

    Vado nel bagno, trovo il suo asciugamano, lo porto lì e lo uso per coprirle il volto. Mi tolgo i vestiti e salgo sul letto. Lei si muove a stento, non si lamenta, continua solo a piangere finché non può farlo più. Quando abbiamo finito e scendo da lì, mi accorgo che a un certo punto l’uovo le è scivolato in fondo alla gola e ha iniziato a soffocarla, finendo col riuscirci. Il che spiega perché io l’abbia sentita boccheggiare... anche se, in quel momento, ho scambiato il suono per qualcos’altro. Oops.

    Mi faccio una doccia, mi vesto e raccolgo le mie cose. I volti sulle fotografie allineate lungo la scala mi guardano mentre scendo. Continuo ad aspettarmi che mi dicano qualcosa o, perlomeno, si lamentino di qualcosa che ho fatto qui. Quando esco e mi allontano da loro, vengo investito da una calda ondata di sollievo.

    Il sollievo ha vita breve e, nel giro di pochi secondi, inizio a sentirmi uno schifo. Abbasso gli occhi e mi guardo i piedi mentre cammino. Già. Mi sento male. Mi sento giù. Le cose non sono andate come dovevano, e ho finito per spezzare una vita. Mi fermo nel giardino e colgo un fiore da un cespuglio di rose. Lo avvicino al naso e sento il profumo dei petali, ma non riesce a farmi tornare il sorriso. Una spina mi punge il dito e me lo metto in bocca. Il sapore di sangue inizia a sostituire il sapore di Angela.

    Infilo la rosa in tasca e vado fino alla macchina di lei. Il sole è ancora nel cielo, ma ora è più basso e mi brilla direttamente negli occhi. L’aria si è rinfrescata e forse il calore che sento non viene dal sole, ma è dentro di me. Vorrei sorridere. Vorrei godermi quel che resta del giorno, ma non posso.

    Ho preso una vita.

    Povera Fuffi.

    Povera gattina.

    A volte gli animali devono essere usati come strumenti. Non sta a me, in questo folle, caotico universo, metterlo in discussione. Eppure, non posso fare a meno di sentirmi male per aver spezzato il collo a quella bestiola.

    Salgo nella macchina di Angela e mi tocca passare sopra il prato, per evitare l’auto rubata nel vialetto. La casa da cartolina che rappresenta la vita familiare da cartolina diventa più piccola nel mio specchietto retrovisore. Il giardino perfettamente curato di cui non posso più sentire il profumo sembra un campo da golf in miniatura, quando gli lancio un’occhiata. La rosa che ho colto è calda nella mia tasca. Oltrepasso tre o quattro macchine parcheggiate. La gente cammina sui vialetti mentre torna a casa. Due anziane signore, separate da un basso steccato, parlano di quello che le donne della loro età affrontano nella vita, qualunque cosa sia. Un’altra vecchia è in ginocchio e dipinge la cassetta delle lettere. Un ragazzo consegna il giornaletto locale. La gente si sente a casa qui, si sente serena. Non mi conoscono e non prestano attenzione a me, mentre oltrepasso le loro finestre ed esco dalla loro vita.

    Lentamente, il calore viene soppiantato da una brezza leggera. Le foglie si muovono, tra le betulle allineate lungo la strada a formare una volta, sopra la mia testa, dove i rami si intrecciano come dita. Sarà una bella serata. Sarà il genere di serata che mi fa sentire felice di essere vivo. Il genere di serata per cui le estati della Nuova Zelanda sono famose.

    Finalmente inizio a rilassarmi. Accendo l’autoradio e ascolto la stessa dannata canzone che c’era a casa di Angela. Quante probabilità ci sono? Mi metto a canticchiarla, battendo il tempo per accompagnare la serata che avanza. I miei pensieri si spostano da Fuffi ad Angela, e solo allora il sorriso mi torna sulle labbra.

    4

    Vivo in un complesso di appartamenti che varrebbe di più se venisse venduto come mucchio di rottami. A causa della sua posizione, non verrà mai abbattuto e sostituito perché un nuovo complesso non porterebbe affitti migliori. Non è esattamente la parte peggiore della città, secondo quelli che ci vivono, ma secondo tutti gli altri lo è. È a stento abitabile, ma economico: è così che compensa. Ha un’altezza di quattro piani e io vivo all’ultimo, godendomi la parte migliore di una vista piuttosto misera. In totale credo che ci siano, forse, trenta appartamenti.

    Non vedo nessuno dei miei vicini mentre vado su, ma la cosa non è negativa né insolita. Mi ritrovo a rimuginare sulla povera Fuffi mentre apro la porta ed entro. Il mio appartamento ha due vani. Uno di questi è un bagno, e l’altro combina tutti i locali rimanenti. Il frigorifero e il fornello hanno l’aria di essere così vecchi che nemmeno la prova del carbonio potrebbe accertarne l’età. Il pavimento è nudo e devo indossare le scarpe tutto il tempo, per evitare le schegge. Sui muri c’è una carta da parati economica grigio scuro, talmente rinsecchita che si accartoccia un po’ di più ogni volta che apro la porta, lasciando entrare la corrente. Diversi lembi si sono già scollati e pendono come lingue mosce. Una serie di finestre corre lungo il muro, e il panorama consiste in pali della luce e macchine bruciate. Ho una vecchia lavatrice con una centrifuga rumorosa e sul muro, al di sopra, è fissata un’asciugatrice altrettanto assordante. Lungo la finestra c’è un filo a cui appendo i panni d’estate. Ora però non c’è nulla.

    Possiedo un letto a una piazza, una piccola televisione, un videoregistratore e dei mobili basilari, di quelli venduti in scatole con le istruzioni di montaggio in sei lingue diverse. Non sono del tutto dritti, ma non conosco nessuno che possa venire a farmi visita e lamentarsene. Una selezione di romanzi d’amore tascabili che ho già finito è buttata sul divano. Le copertine sono piene di uomini dall’aspetto forte e donne dall’aria debole. Ci butto la ventiquattrore sopra, prima di controllare la segreteria. La luce lampeggia, quindi premo play. È mia madre. Ha lasciato un messaggio che manifesta la sua capacità deduttiva. Crede che, siccome non sono a casa, né da lei, io debba essere sulla via per casa sua.

    Prima ho detto Che Dio l’abbia in gloria. Non intendevo dire che è morta. Lo sarà presto, tuttavia. Non fraintendetemi. Non sono un cattivo ragazzo, o cose del genere, non le farei mai nulla di male, e mi disgusta chiunque pensi il contrario. È solo che è vecchia. Le persone anziane muoiono. Alcune prima di altre. Grazie a Dio.

    Do un’occhiata all’orologio. Sono già le sei e mezza. Faccio spazio sul sofà, stendo le braccia dietro di me e cerco di rilassarmi. Rifletto su cosa sia meglio. Se non vado da mia madre a cena, il risultato sarà disastroso. Mi telefonerà ogni giorno. Mi tormenterà all’infinito. Non è consapevole del fatto che io abbia una vita. Ho delle responsabilità, degli hobby, dei posti dove andare, delle persone che mi voglio fare, ma lei non lo vede, okay? Lei crede che io viva solo per starmene seduto nel mio appartamento, in attesa di una sua telefonata.

    Mi cambio e metto dei vestiti più rispettabili. Niente di troppo vistoso, ma meglio di uno stile del tutto casual. Non voglio che mamma insista per comprarmi i vestiti come faceva prima. Ha attraversato una fase, un anno fa, in cui mi comprava le camicie, la biancheria, i calzini. A volte le ricordo che ho più di trent’anni e posso farlo da solo, ma a volte lei lo fa comunque.

    Sul piccolo tavolino da caffè nel mio piccolo soggiorno, davanti al piccolo sofà che sembra uscito da uno studio di registrazione hippie, si trova una grossa boccia per i pesci rossi con dentro i miei migliori amici: Pickle e Jehovah. I miei pesci rossi non si lamentano. La loro memoria dura cinque secondi, quindi puoi farli davvero arrabbiare e non se ne ricorderanno. Puoi dimenticare di dare loro da mangiare, e dimenticheranno che avevano fame. Puoi toglierli dall’acqua e buttarli sul pavimento e loro sbatteranno le pinne dimenticando che stanno per soffocare. Pickle è il mio preferito; l’ho preso per primo, due anni fa. È un pesce rosso albino della Cina, con il corpo bianco e le pinne rosse, ed è un po’ più grande del palmo della mia mano. Jehovah è un po’ più piccola, ma è dorata. I pesci rossi possono vivere fino a quarant’anni, e spero che i miei arrivino almeno a quell’età. Non so cosa facciano quando non li guardo ma, finora, non è apparso nessun piccolo pesce rosso.

    Butto nell’acqua una spolverata di cibo, li guardo salire in superficie e poi li osservo mangiare. Li amo molto, eppure allo stesso tempo mi sento come Dio. Non importa chi io sia, non importa cosa io faccia, i miei pesci rossi si affidano a me. Il modo in cui vivono, le condizioni in cui vivono, quando avranno la cena, queste cose dipendono tutte da me.

    Parlo con loro mentre mangiano. Passano alcuni minuti. Ho parlato abbastanza. Il dolore per aver ucciso Fuffi ormai è quasi scomparso.

    Esco e cammino fino alla fermata dell’autobus più vicina. Aspetto cinque minuti, più o meno, prima che finalmente arrivi un autobus.

    Mamma vive a South Brighton, vicino alla spiaggia. Non c’è erba verde lì. Come le piante, ha la stessa tonalità della ruggine che visita ogni superficie metallica esposta all’aria salata. Fate crescere un cespuglio di rose e l’intero isolato sale di valore. La maggior parte delle case sono bungalow di oltre sessant’anni che lottano per sopravvivere, mentre la vernice si screpola e le tavole di legno marciscono lentamente. Tutte le finestre sono coperte da un velo di sale. I telai in legno vengono sporcati da aghi di pino e sabbia. Rattoppi di sigillante e stucco otturano i fori e tengono il caldo all’interno. Persino il crimine, qui, ha i suoi svantaggi: quando si calcola il prezzo della benzina, di solito viene fuori che è più costoso introdursi in casa di qualcuno che non farlo.

    L’autobus ci mette trenta minuti ad arrivare a casa di mamma. Quando scendo, riesco a sentire le onde che si frangono sulla riva. Il suono è rilassante. Questo è l’unico vantaggio di South Brighton. Da qui alla spiaggia è un minuto a piedi, e se vivessi ancora in questo quartiere, camminerei per quel minuto in più e continuerei nuotando. Ora come ora, sembra di stare in una città fantasma. Poche case hanno le luci accese. Ogni quattro o cinque lampioni ce n’è uno fulminato. Non c’è nessuno in giro.

    Risucchio l’aria salata con un respiro profondo, mentre me ne sto all’ingresso. I miei vestiti si sono già impregnati della puzza di alghe marce. La casa di mamma è malandata come tutte le altre nel quartiere. Se venissi qui e la dipingessi, probabilmente i suoi vicini la caccerebbero. Se tosassi l’erba secca nel prato, dovrei farlo anche agli altri. Casa sua è una costruzione a un solo piano rivestita di tavole di legno. Della vernice bianca, ormai del colore dello smog, cade dalle tavole distorte e si posa nel cortile accanto alla polvere di ruggine che viene dal tetto di ferro. Le finestre sono tenute insieme da fortuna e stucco in egual misura. Cammino fino alla porta. Busso. E aspetto. Passa un minuto prima che arrivi con il suo passo lento. La porta si blocca nel telaio e deve tirarla forte. Si apre tremando, con i cardini che cigolano.

    «Joe, lo sai che ore sono?».

    Annuisco. Sono quasi le sette e mezza. «Sì, mamma, lo so».

    Chiude la porta, sento lo sferragliare di una catenella e poi la spalanca. Io la oltrepasso.

    Mamma sta per compiere sessantaquattro anni, ma sembra almeno settantenne. È alta solo un metro e cinquantotto, e ha tutte le curve al posto sbagliato. Alcune di queste curve sbandano verso le altre, alcune sono abbastanza pesanti da spianare le rughe che ha sul collo. Tiene i capelli grigi tirati indietro e raccolti in una crocchia, ma al momento ci ha messo qualcosa su: una di quelle vecchie retine per capelli e i bigodini. Ha occhi blu così pallidi che sembrano grigi, dietro un paio di occhiali con la montatura grossa, di quelli che non sono mai stati di moda. Sulla sua faccia ci sono tre nei, ognuno con un pelo nero che lei non taglia. Sul labbro superiore sta coltivando un soffice velo di peluria. Ha l’aspetto della caposala di un ospedale.

    «Sei in ritardo» dice, bloccando l’ingresso mentre si sistema un bigodino nei capelli. «Mi sono preoccupata. Per poco non chiamavo la polizia. Per poco non chiamavo gli ospedali».

    «Avevo da fare, mamma, col lavoro e tutto» dico io, sollevato dal fatto che non abbia denunciato la mia scomparsa.

    «Eri tanto impegnato da non poter chiamare tua madre? Tanto impegnato da non preoccuparti che mi venisse il crepacuore?».

    Sono tutto ciò che le rimane. Non c’è da

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