FARE STORIA NEL TERRITORIO: La Public History e la cultura partecipativa in Abruzzo
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Con un approccio critico, l'autrice traccia l'evoluzione degli spazi museali in Italia, a partire dagli anni Novanta e dalla Legge Ronchey. Particolare attenzione è riservata alle riforme legislative che hanno incoraggiato la collaborazione tra settore pubblico e privato, e trasformato i luoghi di conservazione della cultura in ambienti non più statici e polverosi, ma dinamici e partecipativi in cui la storia si anima.
Il testo presenta la Casa Museo Mazzarino sita a Pescina, in Abruzzo, come esempio di storia pubblica applicata localmente, le cui attività hanno permesso di rileggere sotto una nuova luce l'operato del cardinale Giulio Raimondo Mazzarino, oscurato da una campagna diffamatoria durata quattro secoli. L'autrice conclude la sua analisi sottolineando l'importanza dell'impegno congiunto delle istituzioni e delle comunità nella tutela e valorizzazione del patrimonio culturale, affinché la storia resti una risorsa accessibile a tutti.
Una lettura che si configura come manifesto per chi crede nel potenziale della public history nel riscrivere storie misconosciute o distorte.
Alina Di Mattia è una giornalista e scrittrice italiana. Appassionata di Scienze storiche e sociali ha esperienza trentennale nel mondo dei media e della comunicazione.
Ha una formazione accademica poliedrica. Laureata in Lettere moderne all'Università dell'Aquila, ha seguito due percorsi di studi differenti, specializzandosi in ambito umanistico.
Scrive per La Voce di New York, il primo quotidiano italo-americano con sede negli Stati Uniti d'America, e collabora con diverse riviste legate alle università italiane.
Attualmente è vicepresidente della Casa Museo Giulio Raimondo Mazzarino a Pescina (AQ), e direttore editoriale presso La Regione, Rivista del Centro Italia. Ha ricevuto numerosi premi per la sua attività letteraria e per l'impegno in ambito sociale.
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Anteprima del libro
FARE STORIA NEL TERRITORIO - Alina Di Mattia
Dedicato agli uomini e alle donne senza nome, che con il loro prezioso lavoro preservano la fiamma della storia illuminando il cammino delle nuove generazioni.
INTRODUZIONE
I
n un mondo ridondante di commemorazioni e celebrazioni sedimentate nel tempo, spesso intrise di retorica incapace di costruire un ponte tra il passato e la sua rappresentazione pubblica, viene sempre meno la capacità di trasmettere alle nuove generazioni la memoria che ha plasmato l’identità collettiva.
La storia è un prodotto sociale e come tale si consuma, viene modificata e reinterpretata nel tempo, e diventa irrilevante nel momento in cui perde forza all’interno della società. Tale passaggio è particolarmente evidente nell’era moderna caratterizzata dalla rapida diffusione e obsolescenza delle informazioni, e va a interferire non soltanto nel processo di narrazione e divulgazione della storia, che richiederebbe altresì una comprensione approfondita, ma ne distorce anche la fruizione in un contesto di immediata gratificazione e consumo superficiale. Nasce dunque la necessità di ripensare il passato nel presente, di rivalutare e rileggere sotto nuove e più partecipative forme le piccole storie della grande Storia.
A partire dagli anni Novanta, la riforma degli enti che contribuiscono alla pubblica conoscenza ha introdotto
l’outsourcing, quel sistema di collaborazione tra pubblico e privato che legittima, mediante appalti, la concessione a terzi di alcune attività connesse ai beni culturali al fine di alleggerire il peso economico sulle casse pubbliche. In sintesi, viene stabilito che la tutela del Bene resti allo Stato, la valorizzazionee la gestione al privato.
La stessa legge Ronchey[1], n. 4 del 14 gennaio 1993, ha concesso «la possibilità ai musei italiani di creare quei servizi aggiuntivi già presenti in tutti i musei del mondo» come attività editoriali, caffetterie, ristoranti ecc. Pertanto, l’area museale si è evoluta in uno spazio attivo, non più statico, in cui il merchandising agisce da mezzo per arginare la distanza tra pubblico e sapere[2]. Tale riforma fu rivista nel 1997, allargando il campo delle attività dei privati e includendo «servizi di accoglienza, di informazione, di guida e di assistenza didattica» fino alle iniziative culturali, eventi musicali e attività di promozione delle tradizioni locali. Una vera e propria valorizzazione economica del Bene gestito «allo scopo di perseguire il più efficace esercizio delle sue funzioni e, in particolare, della gestione e valorizzazione dei beni culturali e la promozione culturale»[3].
Successivamente, l’avvento delle nuove tecnologie ha modificato radicalmente il sistema degli enti culturali di divulgare e rappresentare la storia ma, soprattutto, ha intensificato la loro apertura alle comunità coinvolte sul territorio. Nell’ultimo ventennio, la connessione a Internet e l’accesso alle numerose informazioni presenti sul web hanno rivoluzionato le forme di approccio alla ricerca e all’acquisizione di nuove conoscenze, mettendo a disposizione un inusitato e stimolante materiale oggetto di studio. L’universo digitale ha restituito una storia altra
, che infrange stereotipi e tende talvolta a ribaltare dogmi e finanche negare il passato[4].
Oggi, i ricordi individuali e collettivi hanno invaso la sfera pubblica, offrendo visioni contrastanti del passato schiacciate sul presente con, spesso, una incapacità a dimenticare che sconfina talvolta in una attrazione morbosa per le diverse ‘verità’ proposte da memorie individuali e collettive senza la storia[5].
Di conseguenza, sostenuti ancor più dalla Convenzione di Faro[6], fondazioni, musei, archivi e parchi si sono convertiti in autentici centri di dibattito culturale esterni agli ambienti