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La Squadra: La Pro Cangiani tra gli anni '80 e '90
La Squadra: La Pro Cangiani tra gli anni '80 e '90
La Squadra: La Pro Cangiani tra gli anni '80 e '90
E-book132 pagine1 ora

La Squadra: La Pro Cangiani tra gli anni '80 e '90

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Info su questo ebook

Fine anni ‘80. La decisione di formare un nuovo gruppo sconvolge gli atleti della Pro Cangiani, la squadra napoletana di pallacanestro fondata dal visionario Piero Pastore, inaugurando però anche una stagione memorabile, culminata in un epico scontro con la nemica storica, la Partenope.
Attraverso le testimonianze dell’autore e di altri giocatori della Pro Cangiani, vengono ricostruiti eventi e ricordati i protagonisti di quegli anni, come Pierpaolo Mamone, il giocatore il cui talento e le gesta hanno segnato la storia della squadra.
I destini dei protagonisti si intrecciano con la passione, la dedizione alla comunità e la crescita della Pro Cangiani nel periodo a cavallo tra gli anni ’80 e ‘90. 
Il racconto si snoda tra trionfi effimeri, momenti chiave delle partite, emozioni degli ultimi secondi di gioco, tenace impegno e difficoltà e sottolinea l’importanza della lealtà, della forza e del sacrificio per il gruppo.
Le strade di alcuni di quei giocatori si sono separate ma loro conservano ancora il ricordo di quegli anni, i successi e le sconfitte che hanno alimentato la passione di giocatori e tifosi, trasformando ogni partita in un’epopea.

«È la storia vera di un gruppo di amici che aveva imparato a stare insieme, o se preferite, un racconto a tratti sconclusionato che parla di tanti giocatori, alcuni dei quali non troppo dotati dal punto di vista tecnico, diventati però protagonisti per una singola stagione, una sola partita, pochi minuti. In un certo senso, per sempre.»
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita10 mag 2024
ISBN9791254585870
La Squadra: La Pro Cangiani tra gli anni '80 e '90

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    Anteprima del libro

    La Squadra - Francesco Prignano

    FRANCESCO PRIGNANO

    La Squadra

    La Pro Cangiani tra gli anni '80 e '90

    MEMOIR

    Rione Alto

    Il Rione Alto è il quartiere dormitorio edificato negli anni Sessanta nell’area collinare di Napoli. È impropriamente chiamato Vomero Alto perché si trova nella parte più alta della collina. Chi viene da fuori lo conosce come Zona Ospedaliera, dal nome dell’uscita della tangenziale che conduce all’Ospedale Cardarelli e al Secondo Policlinico.

    Volendo essere buoni, lo potremmo considerare uno dei tentativi, in apparenza riusciti, di trasformare la periferia in città, o di spostare una parte della città in periferia. Le prospettive, a volte, ingannano. Le amministrazioni comunali si sono alternate lasciando questo territorio nelle mani di pochi imprenditori che hanno fatto i propri interessi. Una splendida illusione che non è costata nulla.

    Si tratta di una spettacolare operazione di speculazione edilizia messa in piedi negli ultimi anni. Aggirando alcuni vincoli urbanistici, a partire dagli Anni Settanta vennero costruiti edifici e palazzi di sette piani, garage e locali commerciali che dovevano ricreare, come dichiarato dall’ingegner Corrado Ferlaino in un’intervista al quotidiano Roma del 14 maggio 2018, un’area il cui nome richiamasse un certo prestigio.

    Al Rione Alto non mancano bar, caffetterie, macellerie, supermercati di tutte le principali insegne della grande distribuzione e negozi che vendono prodotti per la casa e per gli uffici.

    È abbastanza semplice trovare profumerie, tabaccherie, fruttivendoli, pescherie, ottici, negozi di telefonia, di abbigliamento e centri estetici.

    Insomma c’è tutto. Quasi tutto.

    Eppure non c’è niente.

    Non c’è un cinema e non ci sono teatri. Non è mai stato creato un punto di ritrovo per i ragazzi e non esiste uno spazio dove le persone possano riunirsi e trascorrere del tempo insieme, a eccezione di un quadrato di cemento con tre panchine, noto come Piazzetta Totò, e i giardinetti Tina Pica.

    L’apertura della Linea 1 della Metropolitana ha stroncato qualsiasi velleità di riqualificare il quartiere, favorendo lo spostamento delle nuove generazioni verso il Vomero e le più centrali Via Luca Giordano e Via Scarlatti.

    Giovani e anziani condividono lo stesso destino. Non sanno cosa fare.

    Gli unici a sopravvivere in questo avamposto di cemento sono i liberi professionisti e gli impiegati che la mattina devono raggiungere la tangenziale per recarsi al lavoro.

    Molti di loro rientrano a casa non prima delle otto di sera, cercando di evitare il traffico straziante di anime stanche e aria sporca che si incontra ogni giorno all’altezza dello svincolo di Corso Malta.

    Tornando al Rione Alto, si possono contare sulle dita di due mani le attività commerciali aperte la sera: una vineria, qualche pizzeria, un paio di buoni ristoranti, un solo pub.

    A ogni modo, il Rione Alto viene considerato dai suoi abitanti una zona abbastanza sicura. Dicono che sia tranquilla. Io dico dormiente, anonima, insulsa. La morte cerebrale della borghesia che negli anni Settanta ha scelto di acquistare un nuovo appartamento all’interno di condomini costruiti senza alcun criterio, addossati uno all’altro come foglie cadute dagli alberi, in questa vecchia zona di campagna.

    Negli ultimi trent’anni non è che sia cambiato qualcosa.

    Se non fosse per la differenza di colori, e per i milioni di pixel che compongono le immagini digitali che affogano la memoria degli smartphone, si potrebbe quasi impazzire confrontando le foto ad altissima risoluzione di oggi con gli scatti imperfetti e romantici delle Polaroid degli anni Ottanta. Le differenze sarebbero impercettibili.

    Chi vorrebbe vivere in un posto come questo? Apparentemente nessuno.

    In realtà, non è proprio così. I Guerrieri della Notte di Walter Hill è un cult movie, in cui un gruppo di teppisti di strada combatte con tenacia contro alcune bande rivali, per ritornare nel quartiere di Coney Island, periferia di New York. Un cesso di posto, almeno per come lo presenta il regista. Be’, il Rione Alto è un po’ la Coney Island di Napoli. Chi viene da fuori stenterebbe a crederci, ma è tutto vero.

    Ci sono persone che qui si trovano bene. La maggior parte di quelli che ci sono nati e cresciuti non lo cambierebbe mai con un altro quartiere. Proprio come i membri della gang di Swan e Cochise.

    L’ultima partita

    Non sono la persona più adatta a raccontare le vicende del quartiere in cui sono cresciuto. Per molti anni l’ho odiato. Non mi sentivo integrato in quell’ambiente e ne detestavo ogni aspetto: i rumori, gli odori, la gente, le abitudini, perfino le strade.

    Avevo diciotto anni quando l’ho lasciato, giurando a me stesso di non farvi più ritorno. Prima di partire, ripetevo la mia convinzione come un mantra a tutte le persone che incontravo, quasi questo potesse dare più forza alla mia decisione. Mi apprestavo ad affrontare un cambiamento radicale e non davo nulla per scontato.

    Ero consapevole che avrei dovuto accettare numerosi compromessi e dimostrare una notevole capacità di adattamento. Di sicuro sarebbero sopraggiunti dei momenti di difficoltà. Ricominciare una nuova vita lontano da casa non era mai stata una priorità fino a quel momento.

    Non era una tragedia, ma nemmeno una cosa semplice. In ogni caso, sentivo che era ciò di cui avevo bisogno.

    Ero pronto? Non ne avevo la minima idea. La mia visione del mondo in quel periodo era offuscata dall’indifferenza.

    Non era una questione di insensibilità. A volte venivo scosso da ciò che mi accadeva intorno, ma tutto questo rimaneva confinato in una dimensione interiore. Conoscevo un solo modo per difendermi e così sviluppai una forma estrema di chiusura al mondo esterno.

    Non era facile. Cercavo di convincermi che nessun evento potesse coinvolgermi emotivamente.

    A volte, per fortuna, funzionava.

    Se stavo bene, non me ne fregava niente: tracciato piatto. Tutto scorreva, io restavo fermo.

    In quegli anni il mio mondo era uno scontro di azioni e di pensieri. Bianco oppure nero, giusto o sbagliato, possibile o impossibile. Non c’erano vie di mezzo.

    Il mio scrittore preferito era Franz Kafka. Non conoscevo ancora i romanzi di Bret Easton Ellis e di Robert Harris che mi avrebbero accompagnato negli anni dell’Università. Al massimo mi rifugiavo nella lettura di qualche novella di Pirandello. Se proprio volevo vantarmi con gli amici, millantavo la conoscenza dei libri di Dostoevskij, anche se in realtà avevo letto solo Il Giocatore.

    Mi ero sostanzialmente chiuso in una gabbia dorata, le cui sbarre erano le pareti della mia stanza. La verità è che mi sentivo bene quando stavo da solo. Dal mio punto di vista, era normale. Infilavo le cuffie e accendevo lo stereo per isolarmi dal mondo esterno, in un perfetto equilibrio dove la musica era tutto.

    Non ero più a Napoli. Volavo con la fantasia a New York per ascoltare Tracy Chapman. Mi spostavo a Los Angeles per intervistare i Toto di Steve Lukather. Giravo per le strade di Londra, tuffandomi nella new wave degli anni Ottanta.

    Mi lasciavo trascinare, forse sarebbe più corretto dire che sprofondavo sempre di più, fino a raggiungere dimensioni spazio temporali senza confini.

    Gli amici di scuola erano un riempitivo trascurabile, i loro interessi non coincidevano con i miei. La maggior parte delle volte che si incontravano il sabato sera era per mangiare una pizza in compagnia, e guardare un blockbuster in cassetta.

    Non avevano nulla di sbagliato. Ero io a essere avulso da quel contesto e non facevo nessuno sforzo per integrarmi nei vari gruppi.

    Credevo nel potere del singolo individuo, confidando solo nelle mie forze e nelle mie capacità. Una sola mente, una sola strada da seguire.

    Se sbaglio… Errore mio. Nessuno su cui scaricare la colpa. Nessun altro, se non me stesso, da biasimare.

    Probabilmente, avevo aspettative troppo alte e temevo di deludere le persone che credevano in me.

    Col tempo, ho imparato a fissare l’asticella degli obiettivi ad altezze più ragionevoli. Nessuno è perfetto o può farcela da solo. Abbiamo tutti bisogno dell’aiuto degli altri, di tanto in tanto.

    In quel caos di pensieri e di emozioni, c’era una parte di me che chiedeva di emergere. Un lato del carattere, meno rigido e più estroverso, che non riuscivo a tirare fuori nei rapporti con le persone e con gli amici più stretti. Cambiare sembrava la scelta più logica.

    Speravo solo che non fosse anche la più dolorosa.

    Non appena si presentò l’opportunità di lasciare la mia zona protetta, non ci pensai su così tanto. Sembrava quasi impossibile, ma dopo i cinque anni di liceo mi trasferii a Roma, cancellando in meno di una settimana ciò

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