Madri allo specchio: Riflessioni in prosa e versi
Di Autori Vari
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Neppure una riga si impantana nella palude dei luoghi comuni: della felicità di essere mamma, del completarsi di una donna nella maternità.
La maternità mostra tutta la gioia, ma anche le paure, l’amore, e il dolore, ma anche quel desiderio inconfessabile di prendere le distanze. Le distanze, da quello che hai dentro, le distanze da quello che dovresti essere e proprio non ce la fai. Da quel “sei tu inadeguata”.
Oppure è inadeguata la vita che non ti concede mai un giorno di pausa? O sono inadeguati quelli che ti circondano, che ti ballano intorno e possono gridare come allo stadio, ma non capiscono che sei dentro una battaglia, che sei tremendamente prigioniera di te stessa?
È qui che ci vuole più coraggio. È qui che una donna può sentire nelle sue vene la forza di una tigre. È qui il dilemma: restare donna che abita la sua indispensabile libertà o distanziarsi senza soffocare nell’abuso di maternità, una guerra interiore molto complessa, che come tutte le guerre, lascia indietro le sue vittime, e segna con le sue ferite. Di quelle che non rimarginano mai.
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Anteprima del libro
Madri allo specchio - Autori Vari
PREFAZIONE
La donna della copertina
Una creatura di spalle.
I capelli sollevati in uno chignon scomposto, con quella ciocca sempre troppo corta per congiungersi alle altre, sempre troppo ribelle e desiderosa di sfiorare la nuca e il collo. Sei una Donna: una madre, ma non solo una madre; una figlia, pur sempre una figlia.
La catenina sottile, d’argento placcato oro, con appesi in forma di simbolo i ricordi: le stelle del presepe la notte di Natale, la luna piena quando il tuo ventre si è dischiuso, il sole da rincorrere prima dell’alba. Sei una Donna: una madre, anche se non hai concepito nel segreto dell’utero; una figlia anche se ti sei svezzata da sola di latte amaro.
La mappa di nei sulle spalle è la tua costellazione di buchi neri in cui sprofondare, perderti, ritrovarti, cadere, risalire. Sei una Donna: una madre che non deve dimostrare di essere perfetta; una figlia che ha diritto all’amore assoluto.
Un riflesso nello specchio.
Le mani chiuse all’altezza del cuore, a tenere al caldo un segreto, quello che ti spezza il fiato e accelera i battiti di un cuore gonfio. Chi sei?
La bocca serrata, ad ispirare forza, ancora forza, e resistenza, ancora resistenza. Chi sei?
Palpebre abbassate, per non scoprirti o, al contrario, per concederti una rivelazione plateale. Chi sei?
Sei una Donna, una madre e una figlia.
Bellissima e sfinita, triste e propositiva, benedetta o negata, consapevole o incosciente, mai perfetta, sempre te stessa. Con il coraggio di raccontarsi.
L’antologia Madri allo specchio: riflessioni in prosa e versi nasce da un progetto, giunto alla terza edizione, promosso dall’associazione culturale Cultura al Femminile in collaborazione con Gli scrittori della porta accanto e Ail Sassari: un concorso di racconti e poesie, dedicato a Pierpaolo Fadda, i cui elaborati finalisti sono inclusi in queste pagine.
Le due giurie, rispettivamente per prosa e poesia, hanno dovuto impegnarsi e scavare a fondo fra il bianco e il nero dei partecipanti, e anche di se stessi. Non è un caso che in una danza di luci e ombre, animus e anima, fluttuanti su specchi infranti ci si ferisse e si facesse del sangue cordone, unione, incontro. Sono moltissimi gli exequo e i finalisti, acclamati, non hanno avuto vittoria facile.
Non mi resta che invitarvi alla lettura, ricordandovi che il ricavato dei diritti d’autore di Madri allo Specchio
è interamente devoluto a Casa Ail Sassari.
Buona riflessione.
Emma Fenu
fondatrice e presidente di Cultura al Femminile
RACCONTI
I miei occhi bassi
Silvia Argento
prima classificata
Non dimenticherò mai il momento in cui ho capito che nella mia vita sarei stata sola. Non è stato un fulmine a ciel sereno, una di quelle cose che ti sbalordiscono e scuotono per sempre, ma il risultato di un lento e innaturale processo per cui ho compreso che non sarei mai stata compresa. Utilizzo lo stesso termine, perché al di fuori della comprensione io non credo si possa mai andare nelle cose umane. Durante un viaggio in Giappone, ho appreso che cos’è l’omoiyari: in breve rappresenta l’empatia, rendere la vita più facile agli altri, prendersi cura di loro. Ecco, ho capito che io questo lo avrei potuto fare per gli altri, ma non per un figlio. Ho scoperto che non avrei potuto avere figli. E da quel momento, a raccontarlo, non mi ero sentita subito totalmente sola, ma gradualmente lo diventai sempre di più. Le persone non erano in grado di comprendermi, mi giudicavano e basta.
Non erano in grado di vedere i miei occhi abbassati. Ci sono cose che, se raccontate, abbandonano il tuo animo per sempre, ma una credo di aver capito non mi lascerà mai, poiché è costitutiva di quel mio stesso animo. Prima di quel che successe al Teatro Rose, ero abbastanza forte e mi ero buttata sulla carriera. Io e Adrien, il mio fidanzato, non c’eravamo separati per questa notizia, mentre invece il mio compagno a lui precedente mi aveva mollata senza nemmeno farmi parlare. La mia carriera stava decollando nel momento in cui venni scelta per uno stage proprio lì, al Teatro Rose. Attorno a me tante studentesse che facevano tirocinio non pagato per l’università e altre persone, trentenni come me, scelte per quello stage pagato.
Tra le tirocinanti universitarie un giorno arrivò una strana ragazza. Non mi piace il termine che uso nel descriverla, ma devo essere onesta: fu la prima parola che pensai quando la vidi. Strana. Non tanto per l’abbigliamento (sono cresciuta in una grande città, ho visto di tutto e indossato di tutto, sono stata anche una gothic girl), quanto per l’atteggiamento. Non erano gli anfibi molto alti di Emily a renderla particolare e neppure i vestiti eccentrici. Era ciò che suscitava in me. Solitamente non mi interessava entrare nei panni degli altri, forse per questo non potevo avere figli: non ne ero degna? Invece, avrei voluto essere Emily ogni volta che la vedevo, quindi forse potevo cambiare, forse non ero una persona cattiva o una donna inutile.
Mi infastidivano i commenti delle altre ragazze, che ne criticavano l’abbigliamento eccentrico inadeguato al tirocinio. Oltre a questo, occhiate, bisbigli, indolenza. Non trascorse molto tempo prima che Emily si accorgesse dell’atteggiamento ostile che c’era nei suoi confronti a Teatro; la sola persona a difenderla era una delle tutor, Camilla, una donna di mezza età, con occhiatacce agli altri oppure spostandola di sezione e mansione, ma a Emily sembrava non importare dove stesse: era sempre molto signorile nell’atteggiamento. Finché un giorno io non scoprii che la signora Camilla era sua zia. Adrien, infatti, la conosceva. Da quando me lo aveva detto, Adrien non volle parlare più di Camilla o Emily e anzi evitava con cura l’argomento: non capivo perché, ma non insistetti. Tuttavia, proprio perché non potevo parlarne con lui, avevo deciso da sola che avrei cercato di aiutare la ragazza. Lo decisi una sera di un venerdì, quando mi trovai a sentirmi male per uno dei miei soliti attacchi di panico.
Non poter avere figli era stata la notizia più brutta della mia vita, poiché già me lo vedevo il mio bambino vestito da Fantasma dell’Opera a Carnevale, da che ne ho memoria avevo sempre voluto almeno due figli. Con Adrien avevamo parlato spesso di altre vie, ad esempio l’adozione, ma non eravamo nemmeno sposati, c’era ancora molto da fare. Forse cercavo in Emily quell’azione mancata, per quanto forse fossi più grande di lei di nemmeno dieci anni. Forse vedevo in lei una mia possibilità di prendermi cura di qualcuno che fosse più piccolo di me.
Adrien era visibilmente turbato il successivo sabato sera. Avevamo ordinato del sushi, io avevo un completo nuovo da casa, ma mi ignorava. Da quando avevamo saputo che non potevo avere figli, era sempre molto attento a valorizzare ogni aspetto di me, temendo che andasse in crisi la mia femminilità. Quella sera, invece, nulla. Soprattutto quando accennavo al Teatro Rose, quel weekend, si incupiva.
«Sai, stavo pensando – disse a un tratto la domenica – Forse dovresti lasciare stare questo stage, posso trovarti qualcosa io in azienda.»
Ecco, sapeva benissimo che quell’affermazione mi avrebbe dato fastidio: non volevo niente da nessuno.
«Eravamo d’accordo che avrei pensato io alla mia carriera» risposi stizzita.
«Diciamo che non mi piace che stai in un ambiente ostile, dove una ragazza subisce bullismo.»
«Non lo chiamerei così, ma Adrien, si può – i miei occhi bassi – sapere che ti prende?»
«Potresti farti male se dovesse venire fuori...»
«Venire fuori che cosa?»
«Che non puoi avere figli.»
Rimasi basita.
Quindi secondo Adrien sarei stata bullizzata
anche io perché ero sterile? Mi stava facendo sentire sbagliata per l’ennesima volta. «Non è forse perché Camilla... Sì, insomma, non vuoi che lo sappia lei?» dissi aggressiva.
«Ma che ti salta in mente? E ora che cosa c’entra Camilla? Amore, nel 2021 chi se ne frega se uno ha figli o no, per carità.»
Adrien mi conosceva benissimo e capì subito che ero delusa da quella conversazione. «Ascolta – disse poggiandomi una mano sulla spalla – Non c’entri niente tu. Assolutamente niente. Non voglio che ti fai male.»
«So badare a me stessa» risposi risentita.
«Va bene, ma non parlare con Emily.»
Andammo avanti per circa dieci minuti in cui lui farfugliava qualcosa e poi sviava, finché non pronunciò la frase che, dopo il suo primo ti amo
, è quella che ricordo di più pronunciata da lui.
«Emily ha abortito.» Un tuono, una saetta, qualcosa di assurdo. Capii in quel momento certi commenti, mi resi conto di tante cose. Adrien voleva proteggermi dalla rabbia di una donna che rinunciava ad avere ciò che io, spasmodicamente, desideravo e che mi era negato.
Non parlai con Adrien per il resto della sera. La mattina del lunedì fui costretta a rivedere Emily.
Era chiaro: la zia sapeva tutto, probabilmente anche qualche compagna di università. Tutti guardavano Emily dall’alto in basso, forse come avrebbero guardato me se avessero saputo che non potevo avere figli. La differenza era che la mia non era una scelta, pensai. Provai un enorme rancore verso di lei. Finché un giorno, per la prima volta dopo settimane, Emily abbassò lo sguardo, provata da una delle occhiate delle ragazze. In quel momento vidi la sua difficoltà, il suo imbarazzo, e mi sentii come sua madre. Provai a specchiarmi nei suoi occhi bassi e mi resi conto che di lei non sapevo niente, esattamente come tutti gli altri.
Se avessi voluto essere degna di essere mamma per il figlio che avrei adottato forse era arrivato il momento di comprendere io per prima cosa fosse la comprensione. Così mi avvicinai a lei e le chiesi, come avrei fatto con la figlia che non avevo: «Stai bene?». Non potevo chiederle le sue ragioni, non mi interessava. Era il momento di smettere di giudicare me stessa e quindi anche lei.
Il coccio mancante
Lucrezia Guaita Diani
menzione d’onore
A tutti i cocci scomparsi, che possano un giorno essere ritrovati per ricomporre il vaso rotto.
I cocci di vetro hanno la mania di infilarsi sotto i mobili, così in fondo che è impossibile recuperarli.
Ne ho trovato uno opaco, verde bottiglia spostando la tua libreria. Quella libreria che hai voluto proprio tu, perché era inaccettabile che una casa, per quanto piccola, non avesse un luogo dove si riponessero i libri.
Mi ricordo esattamente il giorno in cui il vaso a cui apparteneva questo coccio si è rotto.
Era un Venini
. Aveva fatto un lungo viaggio per arrivare a casa nostra. Era di tua madre. Impacchettato con tanta cura, come solo la nonna sapeva fare. Arrotolato nei fogli di giornale vecchio, che conservavo e usavo per esercitare il mio italiano. Dentro una scatola di qualche corte agricola che produceva vino. I nonni non compravano mai il vino al supermercato. A loro piaceva comprare le bottiglie di Lambrusco durante le gite fuori porta. Ne compravano una scatola o due che poi riponevano in cantina.
Il giorno in cui il pacco è arrivato ero appena tornato da scuola. Tu eri in giardino con i miei fratelli. Sentivo le vostre voci dalla finestra aperta della cucina.
Il postino aveva suonato ed io avevo ritirato la spedizione. Ansioso di poter usare i vecchi fogli di giornale per le mie lezioni da autodidatta, l’ho aperto