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Mal di terra
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E-book153 pagine1 ora

Mal di terra

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Info su questo ebook

Anni ‘50, Liguria. Francesco ha venticinque anni e lavora, insieme al suo migliore amico Leonardo, come apprendista maestro d’ascia nel cantiere di padron Berto. Un lavoro che gli dà modo di coltivare la sua grande passione per la vela.
La perdita del padre gli preclude la possibilità di laurearsi e di evadere dalla sua piccola realtà che sente stretta. Alla morte della madre, per arrotondare, nella stagione estiva affitta le camere della sua umile casa sul mare. Conosce così Elisabetta, venuta a godersi le vacanze col padre, ingegnere lombardo. I due condividono serate, sguardi: s’innamorano.
Elisabetta deve tornare a Milano, mentre Francesco resta a vivere al Borgo, sognando un giorno di poter andare per mare con una barca tutta sua. I primi mesi la lontananza è tenuta viva da lettere d’amore, poi lei gli comunica che dovrà sposare un giovane in grado di risollevare le sorti dell’azienda di famiglia.
Pochi anni e il progresso arriva anche al Borgo: padron Berto è costretto a chiudere il cantiere e Francesco e Leonardo a iniziare una nuova vita: uno diventa marinaio in giro per il mondo, l’altro trova lavoro al paese come pescatore.
Francesco tornerà dopo un anno senza aver mai rinunciato alla barca dei suoi sogni o aver dimenticato Elisabetta. Ma forse, non è mai troppo tardi…
Una storia che sa di vele bagnate di mare, legno e salsedine.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita15 ott 2020
ISBN9788833666761
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    Anteprima del libro

    Mal di terra - Tomas Gazo

    TOMAS GAZO

    Mal di terra

    ROMANZO

    Mal di terra

    di Tomas Gazo

    Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi, persone reali o defunte, è del tutto casuale.

    Ogni riferimento a persone esistenti, a luoghi o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

    Copyright © 2020 Tomas Gazo

    Collana Gli scrittori della porta accanto

    Pubblicato in accordo con Gli scrittori della porta accanto e PubMe

    Responsabile editoriale: Tamara Marcelli

    Immagine di copertina: ©

    Progetto grafico: Stefania Bergo

    Prima edizione ottobre 2020

    Per essere informati sulle novità

    della collana Gli Scrittori della Porta Accanto

    visitate il sito:

    www.gliscrittoridellaportaaccanto.com

    Il vento è il respiro della mia anima.

    Anonimo

    PRIMA PARTE

    1.

    Accontentarsi

    Lo scafo azzurro scivolava sull’acqua. Lì, tra i due moli di Porto Maurizio, sembrava un gabbiano che dispiegava le ali, senza rumore.

    Francesco, il pennello in mano, accucciato sotto il gozzo, guardava e soffriva. Succedeva raramente che venisse invitato in regata. Il signor Aicardi aveva un compagno fisso e Francesco poteva salire a bordo di Vera soltanto quando c’era posto.
    Un quasi maestro d’ascia e per di più giovane, doveva adattarsi a verniciare i gozzi dei pescatori, a sostituire qualche tavola consumata dal tempo e dal salino. Altro che costruire scafi a vela o a motore. E poi, comunque, chissà se sarebbe stato in grado di maneggiare gli attrezzi, tagliare il legno e disegnare madieri e ordinate, chiglie e paramezzali a soli venticinque anni. L’ultimo suo contributo a una costruzione se lo ricordava bene, era una cosa bella di qualche anno prima, quando il cantiere era di padron Beppe che ad un certo punto s’era ritirato e aveva ceduto l’attività a padron Berto. Lo scalo era sempre pieno di gozzi da riparare o costruire; i pescatori venivano lì con le loro richieste: barche robuste che tenessero bene il mare e fossero in grado di sopportare il peso delle reti. E Francesco eseguiva: pare fosse diventato piuttosto bravo a maneggiare l’ascia.
    Nel frattempo, la fama del cantiere si era diffusa, molti venivano a vedere le barche in costruzione sullo scalo. Tra i curiosi non c’erano soltanto pescatori, veniva anche gente che con il mare aveva ben poco da spartire. Era per lo più gente ricca che voleva fare vela, gente che non sapeva cosa fossero i calli sulle mani e che voleva soltanto giocare con il vento. Il pesce, questi signori, lo andavano a comprare al mercato o, meglio, ci mandavano la domestica. Era gente che stava in disparte, lontana dal popolo del borgo che odorava di sale e verdura. Gente che s’atteggiava a superiore anche in barca, che andava in regata – oh certo, andava in regata – ma alla pulizia dello scafo ci doveva pensare qualcun altro. Sì, è gente così si diceva Francesco con il pennello a mezz’aria.

    Capitava allora che, quando il signor Aldo lo faceva salire a bordo, fosse per il ritorno a terra, per fargli mettere a posto la barca. Poi il signor Aldo allungava una mano e lasciava l’elemosina, cento lire, una volta perfino cinquecento perché non aveva altro nel portafogli. Ma fu una volta soltanto.

    Quel guadagno gli faceva anche comodo, andava a vela ed era pagato. Cosa poteva volere di più? Certo, il timone se lo poteva scordare, quello era un affare privato del signor Aldo. Eppure, Francesco era capace di stare al timone e se glielo avesse lasciato, avrebbe fatto vedere quanto era bravo. Invece si doveva accontentare. E si accontentava.

    Quando c’era suo padre però, era un’altra cosa. Luigi aveva la Frine, un bellissimo 4 e 50, tutto in legno a vista. E quando era libero dal lavoro – faceva il panettiere – usciva in mare con Francesco. Non di rado, durante le regate, teneva testa al signor Aldo. Anzi, lo lasciava dietro nonostante i suoi soldi e la sua vantata signorilità.

    Francesco mollò il pennello e chiuse gli occhi. Gli tornavano alla mente i discorsi dopo-regata, il signor Aldo che accettava con fatica la sconfitta. Eh, la vela non guarda mica in faccia a nessuno, si disse, lì non ci sono né ricchi né poveri… tutti uguali.

    Da suo padre aveva ereditato la passione per il mare e si sa come vanno queste cose, tra tutto ciò che un padre può lasciare ad un figlio, in fondo quella voglia è ancora il meno peggio, ragionava tra sé.

    Ricordava la prima volta, quando il padre lo aveva portato in regata, non doveva avere più di dieci anni, ma a bordo ci sapeva già stare. Era troppo leggero per la barca e ci voleva un’altra persona. Così, pur trattandosi di una regata estiva e con poco vento, a bordo c’era un amico.

    Avevano vinto e non solo, suo padre gli aveva fatto i complimenti. Del resto, lui aveva ciecamente obbedito agli ordini: all’occorrenza si era seduto sul bordo, si era spostato sull’altro senza fare domande inutili, non s’era mai lamentato, inzuppato com’era. Speriamo che quando rientriamo la mamma non mi maledica per essermi ridotto così.

    E infatti la madre si infuriò. Accidenti a tuo padre! Lui e la sua barca! Mentre io adesso ti devo mettere i vestiti asciutti che ho appena stirato…

    Ma cosa vuoi che sia, abbiamo un bravo marinaio in casa ed un giorno sarà lui al timone della Frine. Aveva torto, Francesco non avrebbe mai preso il comando della Frine.

    «Ti vuoi sbrigare o no con quel pennello?» disse Leonardo, l’amico delle serate e dei lavoretti.

    Era sempre là, sotto il gozzo, il pennello in mano, la vernice rossastra, indurita.

    Francesco fece un gesto con la mano che poteva significare tutto o niente.

    «Dai, che ho quasi finito. Domani passo con l’ultima mano, così abbiamo concluso il lavoro e dopodomani possiamo varare.»

    Dopo un po’ Francesco si rialzò da sotto lo scafo.

    «Sono stanco.»

    «Lo credo, è da questa mattina che siamo qui.»

    «Sono stanco di guardare da terra gli altri che vanno in mare.»

    «Eh, dovevi nascere ricco.»

    Invece era rimasto senza padre a sedici anni e sua madre aveva fatto i salti mortali per non farlo morire di fame. Era stata costretta a vendere la panetteria e, con grande dolore di Francesco, anche la Frine. Dopo qualche anno, lei era andata a servizio nella villa del signor Aldo.

    Quelle due cose, panetteria e barca, erano ciò che suo padre aveva amato di più.

    E la gente del borgo non era stata d’accordo con quelle vendite. Con la panetteria ci ha vissuto ed anche bene, dicevano e la barca Luigi non l’avrebbe mai lasciata. Maria, invece, si è sbarazzata di tutte e due.

    Per quanto gli avessero fatto male, capiva le critiche. In effetti quelle decisioni erano state dolorose anche per lui. Sai, figlio mio, gli aveva confessato con un tono quasi complice poco più di un mese dalla scomparsa del marito ho pensato che, oltre alla panetteria, dovremo vendere la barca.

    Era rimasto senza fiato.

    Gli toglieva la parte più bella di suo padre. Al timone della Frine gli sarebbe sembrato di averlo ancora al suo fianco. Rimanere senza barca, proprio lui che considerava una cosa normale navigare a vela. Il suo mondo sarebbe finito sulla battigia. Ma capiva anche che i conti dovevano esser fatti con la ragione; il cuore, a volte, bisognava metterlo da parte. Soprattutto se i soldi erano pochi. E la madre era ormai diventata proprietaria della barca, un bene di cui si poteva e, vista la situazione, si doveva fare a meno.

    Ancora oggi non capiva dove aveva trovato il coraggio di non ribellarsi. Il coraggio di dirle: Va bene, mamma. Fa’ come meglio credi. Ci fu un attimo in cui pensò di aggiungere che anche papà sarebbe stato d’accordo. Ma questa cosa no, proprio non gli uscì di bocca.

    Non avrebbe più avuto una barca tutta sua, l’aveva capito in quel momento. Aveva dovuto accettare di abbandonare il liceo al terzo anno, quando avrebbe potuto scoprire fisica o filosofia, le materie che più lo interessavano. Dovette rassegnarsi a cercare un lavoro. Ed era pure un bravo studente, tanto che suo padre se ne era vantato spesso con gli amici del borgo. Tu non dovrai fare il panettiere gli aveva detto. Devi studiare per non rimanere un ignorante come me. E poi il forno è una vita troppo dura, io voglio che mio figlio diventi qualcuno, magari un professore. Ecco, la qualifica di professore aveva un impatto assoluto su suo padre, pensava che un insegnante fosse una persona speciale, un essere superiore. E Francesco, almeno fin che aveva potuto, aveva continuato a leggere o, meglio, a divorare libri, assecondando una spinta alla conoscenza che, negli anni e con gli impegni di lavoro, si sarebbe sempre più affievolita.

    Neppure sua madre sarebbe stata soltanto casalinga. Da quel momento la sua vita si sarebbe divisa tra la cura del figlio troppo giovane, ancora sedicenne, e la grande casa del signor Aldo. Quella bella villa a pochi metri dalla spiaggia, con il mare piantato negli occhi, il prato verde all’ingresso e gli spruzzi salati che arrivavano in faccia con le mareggiate d’inverno, quando il libeccio strappava le nuvole e rubava la sabbia. Ben diversa dalla sua casa nel vicolo, dove il mare era una presenza più intuita che reale: il blu non si vedeva, come si vedeva ben poco il sole che non riusciva ad infilarsi tra le case. Il vento invece lo si sentiva sempre, da ponente o da levante, da qualunque direzione soffiasse.

    Una cucina, due stanze e un ripostiglio, sempre all’ombra. Una cucina, due stanze e un ripostiglio che senza sua madre, mancata ormai da parecchi anni, erano diventate anche troppe e troppo grandi per lui. Così in estate trovava il modo di affittare le due camere, compresa quella di sua madre, a qualche milanese che usava anche la cucina. Turisti. La spiaggia era a due passi, un grande vantaggio per quei pallidi visitatori.

    Spesso succedeva che i suoi pensionanti li vedesse al momento dell’arrivo e poi soltanto alla partenza, quando gli restituivano le chiavi. Andava a lavorare mentre loro dormivano ancora, tornava per

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