Madri
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Beppe Gaido è un chirurgo. Dal 1981 è anche un religioso, missionario prima in Tanzania, poi in Kenya, dove ha prestato la sua opera a Chaaria e in seguito a Matiri.
Vive e lavora qui, nel “luogo della polvere”, dove sorge un ospedale affacciato su una splendida vallata. Il reparto che preferisce è la Maternità, dove vita e morte si incontrano e scontrano di continuo, tra gioie persistenti e dolori che si piazzano sotto lo sterno come macigni.
È di queste madri che Beppe racconta in una lunga intervista a Sara.
Per aprire una finestra sulla vita al limite di queste donne, spesso sole, fragili, fiere come guerrieri Masai e resilienti come dei Don Quichotte avvolti in coloratissimi kikoi.
Per aiutare il St. Orsola, cui andrà tutto il ricavato della vendita di questo libro.
Grazie.
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Anteprima del libro
Madri - Stefania Bergo
madre.
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Madri
«È appena scoccata la mezzanotte quando ricoveriamo una donna in preda a forti contrazioni. A giudicare dai vestiti impolverati arriva da molto lontano. Sono in sala parto con Carol, cui ho appena augurato il buon anno. Giustamente lei mi suggerisce di visitare insieme la mamma per vedere se si tratta di un parto naturale o bisogna invece organizzarsi per un cesareo. E mentre discutiamo, vediamo la testolina del bambino fare capolino dal canale del parto.
«La donna non è una primipara e ci aspettiamo che faccia molto in fretta. Lei, poi, spinge molto. Abbiamo appena il tempo di preparare il necessario. È passata la mezzanotte da appena dieci minuti quando a Matiri accogliamo il primo neonato del 2019. Una bellissima bambina di 3.500 grammi, con APGAR¹ perfetto e in ottime condizioni di salute. Un parto nei primi dieci minuti dell’anno nuovo è di buon auspicio. Che bello iniziare così!»
Beppe ha gli occhi lucidi mentre racconta. Beve un sorso del suo caffè e posa la tazza sul tavolino davanti a noi. Con l’indice ne segue il bordo, pare essersi perso dietro un ricordo.
La cameriera viene verso di noi. Ordino un chai e del chapati con uova strapazzate, ma non faccio in tempo a dirle che non ci metta anche le cipolle, come usano spesso qui. Alle otto del mattino faticherei a mandarle giù. Speriamo, vista l’ora, non lo faccia, penso.
«Chissà quante cose ha da raccontare, dottor Gaido…»
«Oh no, no, prego. Mi chiami Beppe, che sono tutte queste formalità?» mi interrompe. Sorride quasi imbarazzato. Ha un sorriso pulito, quello tipico delle persone buone, incorniciato da due rughe marcate agli angoli della bocca che la fanno sembrare chiusa tra parentesi. Invece quel sorriso è un vero protagonista, non un inciso. Dietro gli occhiali tondi di metallo brunito nasconde due occhi chiari, trasparenti e intensi come lo è la sincerità, l’autentica meraviglia dei bambini. È minuto e siede di fronte a me con le spalle impercettibilmente incurvate in avanti, modesto nel porsi all’interlocutore, quasi a sminuire la sua storia che probabilmente a lui sembra ordinaria. Io, invece, la trovo straordinaria, quanto lo sono i medici che si mettono al servizio di realtà missionarie come quella di Matiri, un piccolo villaggio del Kenya a pochi passi dall’equatore, il luogo della polvere
, come dice la gente di queste parti. In realtà, della polvere pare essere rimasto poco, quest’anno, dopo l’arrivo di violenti temporali e inondazioni che hanno spazzato via le fragili capanne del bush qui intorno.
Beppe Gaido è un chirurgo. È anche un religioso dal 1981. Dopo il diploma in Igiene e Medicina Tropicale conseguito a Londra, ha deciso di partire, prima per la Tanzania e poi per il Kenya, dove risiede dal 1998. Prima è stato direttore dell’ospedale missionario di Chaaria, nella regione del Meru, poi, da poco più di un anno, ha iniziato una nuova avventura al St. Orsola di Matiri, nel Tharaka, una zona ancora più povera e più arida².
«Ma certo – sorrido di rimando – e io sono Sara, Sara Bellucco, inviata in East Africa per il format televisivo MigrAzioni. Come le ho accennato per telefono, mi occupo di intervistare imprenditori italiani che hanno favorito l’occupazione e il bilancio economico locale e volontari di associazioni umanitarie che si sono innestate negli strappi dell’assistenza governativa nei paesi in via di sviluppo. Ho sentito molto parlare di lei… di te, di come hai gestito l’ospedale di Chaaria e di quello che stai facendo al St. Orsola – dico, leggendo il nome sul mio blocchetto che, malgrado la tecnologia, trovo ancora il modo più efficace di appuntarmi le informazioni importanti – Ti ringrazio per il tempo che potrai dedicarci» aggiungo congiungendo i palmi delle mani e inclinando la testa in avanti.
Nello stesso momento la cameriera mi porta la colazione. Le uova strapazzate sono ricoperte di cipolla stufata. La metto da parte ma ovviamente il suo aroma non sarà facile da digerire. Il chai invece è profumato, speziato come piace a me. Come lo ricordavo.
Finisco le uova e, mentre sorseggio di tanto in tanto il mio chai, inizio con l’intervista.
«Vorrei poterti promettere che sarà breve e non ti ruberemo troppo tempo. In realtà voglio conoscere il più possibile di te e di questa tua nuova sfida. So bene che non è facile affrontare ogni giorno, spesso da soli, realtà prepotenti come quella di un ospedale missionario.»
Realtà che bussano continuamente alla porta, senza dar modo di voltarsi dall’altra parte, perché sono tutt’intorno, totalizzanti. Emozioni che travolgono come la grande onda di Kanagawa, lasciandoci sospesi tra la meraviglia e l’apnea.
Bevo un ultimo sorso di chai, mentre Beppe continua a sorridere, in attesa delle mie domande.
«Tu sei un chirurgo, a Matiri, ma ti occupi prevalentemente di maternità, che poi è il reparto da sempre più affollato negli ospedali missionari. Da te vorrei conoscere proprio questo, sedermi tra le tue mamme e comprendere cosa significhi dare alla luce un figlio in un paese tanto disgraziato, dove mancano strutture sanitarie adeguate e l’assistenza dello stato pare essere rivolta solo ai più agiati. E le tue mamme non sono certo benestanti, giusto?» chiedo cercando conferma da lui.
«Certo. Matiri è un villaggio nel bush, non c’è molto qui intorno, soprattutto in termini di possibilità. È per questo che quasi vent’anni fa i primi volontari italiani ci hanno costruito un ospedale. E hanno fatto un ottimo