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In the end: Una biografia non ufficiale di Chester Bennington
In the end: Una biografia non ufficiale di Chester Bennington
In the end: Una biografia non ufficiale di Chester Bennington
E-book375 pagine4 ore

In the end: Una biografia non ufficiale di Chester Bennington

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Info su questo ebook

«Ho fatto un bellissimo viaggio nella vita di Chester Bennington.
Ho attraversato paesaggi meravigliosi e posti incantevoli, radure smisurate e boschi maestosi. Ma mi sono imbattuta anche in aride alture e spaventosi e bui anfratti. Ho pianto e riso a perdifiato. E ho avuto paura, ansia, mi sono sentita persa e ho ritrovato un’altra me stessa.»

Chester Bennington, frontman dei Linkin Park, è stato inserito tra i 100 migliori cantanti metal di tutti i tempi secondo Hit Parader. Ha avuto un’infanzia difficile e per tutta la vita ha lottato contro i demoni della depressione e della dipendenza. La musica è stata la sua salvezza, lo strumento attraverso cui ha raccontato i suoi tormenti interiori, aiutando così milioni di persone ad affrontare le stesse inquietudini.
Nonostante il successo e tutti gli sforzi per non arrendersi, la depressione ha avuto la meglio e il 20 luglio 2017, a soli 41 anni, è stato trovato senza vita nella sua casa di Los Angeles, lasciando sgomenti i fans e il mondo della musica.
Ancora oggi, la sua arte catartica continua a infondere un essenziale e inesauribile conforto.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita4 feb 2021
ISBN9788833667898
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    Anteprima del libro

    In the end - Rosanna Costantino

    ROSANNA COSTANTINO

    In the end

    Una biografia non ufficiale di Chester Bennington.

    In the end

    di Rosanna Costantino

    Questo libro è una biografia non ufficiale. Tutte le fonti da cui sono state tratte le citazioni sono elencate in bibliografia.

    La traduzione dei testi delle canzoni citate – salvo qualche lieve revisione ove ritenuto necessario – sono ripresi dal sito www.linkinpark.it.

    Copyright © 2020 Rosanna Costantino

    Collana Gli scrittori della porta accanto

    Pubblicato in accordo con Gli scrittori della porta accanto e PubMe

    Responsabile editoriale: Davide Dotto

    Progetto grafico: Stefania Bergo

    Impaginazione ePub: Valentina Gerini

    Gennaio 2021

    Per essere informati sulle novità

    della collana Gli Scrittori della Porta Accanto

    visitate il sito:

    www.gliscrittoridellaportaaccanto.com

    A Chester Bennington,

    per ogni poesia sussurrata o urlata,

    per il coraggio delle sue debolezze

    e la voglia di essere migliore.

    A Mike Shinoda,

    per avermi mostrato come uscire indenne

    dalle fiamme dell’inferno.

    Il loro talento è la mia fonte di ispirazione.

    Chester Bennington

    20 marzo 1976 - 20 luglio 2017

    ©Tobias Fance, 2020

    Così tanto dolore

    Quel mare puro e cristallino, con la sua profondità calma e rassicurante, brillava di un azzurro cangiante dagli impercettibili riflessi color argento. Tutti i miei pensieri affaticati da un’intensa giornata trovavano ristoro fra il mormorio delicato delle onde appena accennate.

    I miei sensi venivano accarezzati dolcemente da quello spettacolo di beatitudine e di meraviglia. Mi immergevo in un’atmosfera molto vicina al paradisiaco, godendone ogni beneficio.

    Posai per un attimo gli occhi sullo smartphone e lessi qualcosa che mi turbò in profondità. Alzai lo sguardo e l’infinita e placida distesa d’acqua salata diventò nera e burrascosa, divorando minacciosa l'orizzonte di un cielo rosso fuoco per il tramonto. Mi sentii inghiottire da un vortice malevolo e infernale da cui era impossibile salvarsi.

    Stordita e incredula, realizzai che nella mia percezione il paesaggio era mutato. Dapprima così meraviglioso e straordinario, si trasformò nella peggiore delle tragedie.

    Avevo letto una notizia che mi aveva raggelato il sangue e fermato il cuore: Il cantante dei Linkin Park, Chester Bennington, si è tolto la vita a soli 41 anni.

    Pensieri e domande di ogni tipo cominciarono ad affollare la mia mente sconvolta. Davvero quella voce stupenda non c’era più? Non avrei più provato l'eccitazione per una nuova pubblicazione. Non l’avrei mai visto esibirsi live. Perché l’aveva fatto? Pensieri egoistici di una semplice fan che aveva appena perso il proprio idolo.

    Cominciai a ripensare a quei giorni, intorno ai primi anni Duemila, in cui facevo la spola tra l’università e il lavoro, con l’autoradio rigorosamente accesa.

    Fra un pezzo dei Nirvana e uno dei Red Hot Chili Peppers, amavo ascoltare questo nuovo brano rap-rock elettrizzante ed energico. Con quell’urlo che esplodeva con una frase rabbiosa: "Shut up when I’m talking to you".

    Una voce graffiante e roca che, molto più contemporanea e fresca, mi ricordava i miei amati cantanti grunge. Con il passare del tempo, canzone dopo canzone scoprii tutte le gamme dei colori di cui era fatta. Un arcobaleno di emozioni che mi abbagliava e quasi intimoriva per la struggente intensità. Perché il cantato di Chester poteva cullarti o farti a brandelli.

    Capitava che non avessi il coraggio di andare fino in fondo a quel dolore così candidamente esibito. Un po’ per l’imbarazzo di violare la sua intima emotività e un po’ per paura di inciampare nelle miserie della mia anima. Un canto delle sirene in chiave rock che creava dipendenza in chi lo ascoltava, stordendo con la sua dolcezza e il suo calore, ammaliante per la sua forza distruttrice.

    Non sapevo nulla della vita privata di Chester. Ignoravo i tasselli che avrebbero chiarito i mille interrogativi dietro la sua tragica morte. Non lo conoscevo, non era un mio amico o un familiare, lui non aveva nemmeno saputo che io esistessi. Eppure mi sentivo connessa alla sofferenza che lo aveva portato al drammatico epilogo, così come lo ero stata negli anni attraverso i suoi album. Ognuno con un percorso melodico diverso, capace di conciliare le mie eterogenee anime musicali. Ero sì devastata dalla decisione dolorosa che aveva preso, ma non tanto quanto lo sarei stata nei mesi successivi. Da quel giorno in me cambiò tutto.

    Era il 20 luglio 2017.

    Chester Charles Bennington era nato il 20 marzo 1976 a Phoenix, in Arizona, terra di imponenti rocce rosse dalle forme più strane, infinite distese desertiche e maestosi cactus. Quei paesaggi, per certi versi poetici ed evocativi di malinconici sentimenti, devono averlo ispirato sin dagli inizi della sua carriera, già in età adolescenziale.

    La vocazione per la musica era iniziata da bambino, quando diceva a tutti che sarebbe diventato una rockstar o un grande attore di Broadway. Professioni molto lontane da quelle dei suoi genitori: la madre, Susan Elaine Johnson, faceva l’infermiera; il padre, Lee Russell, era poliziotto.

    A soli due anni imparò la sua prima canzone, un successo heavy metal dei Foreigner, Hot Blooded. Gruppo che iniziò ad ascoltare grazie al fratello, insieme a Loverboy e Rush. Sua madre raccontò che cantava e recitava tutte le parti di Popeye Braccio di ferro, un film musicale del 1980. Come ogni bambino, trovava nella musica il giusto svago gioioso e ricreativo.

    Due intensi occhi scuri brillavano di vivacità e intelligenza. Potevano divorarti l’anima con quell’entusiasmo acerbo da fanciullino, incantarti con un sorriso disarmante nel rivelare il suo stato d’animo. E annientarti con una perforante schiettezza che non temeva di mostrarsi com’era.

    Quando scoppiava in quello scroscio di risata ritmica, travolgente e contagiosa, percepivi un’esplosione di gioia autentica. Venivi letteralmente travolto da un flusso intenso di parole e di gesti rapidi. Non c’era possibilità di intravedere altro che un universo di fervore ed euforia positiva. Quella passione impetuosa e raggiante era la sua essenza, la sua natura più profonda.

    C’era qualcosa di ben più viscerale in lui che poteva investirti come una tempesta e lasciarti senza fiato. Erano i suoi demoni che scavavano nel profondo, fino a emergere prepotenti attraverso la sua arte, poiché la vita non gli concesse un’infanzia felice.

    All’età di sei anni ci fu una svolta tanto improvvisa quanto detestabile, che accese in lui una serie infernale di meccanismi autodistruttivi. Quel bambino che, come tutti, era nato urlando, trovò che poteva continuare a farlo per il resto dei suoi giorni, incanalando frustrazione, solitudine, rabbia e disperazione in una passione un tempo lieta.

    Non sapeva ancora che mostrando la sua anima ferita e arrabbiata, nel tentativo di placarla e riappacificarla con il mondo, avrebbe cambiato la vita di milioni di persone.

    Fra quelle persone c’ero anch’io, che all’improvviso, dopo tre anni dalla sua scomparsa, decisi di mettere nero su bianco la mia esperienza attraverso le pagine della sua esistenza, con una serenità e una gratitudine mai provate prima.

    Ci sono momenti in cui guardando indietro riesci a percepire con nettezza quei fili invisibili che collegano diversi aspetti della tua vita. Fili così intersecati tra loro da riuscire a sfiorare altre vite, altri mondi; talmente delicati da accarezzare con premura l'anima delle persone. A volte diventano funi graffianti e irti, tali da lasciare segni dolorosi e indelebili. In ogni caso, il corso dell'esistenza segue scie impercettibili, subdole, adattandosi a nuove e diverse direzioni.

    Il capo di questo filo è legato al primo punto di svolta della vita di Chester.

    All'età di circa sette anni, un terribile mostro si impossessò della sua fanciullezza divorandola a poco a poco con cieca voracità. Un mostro chiamato violenza sessuale. Un ragazzo poco più grande di lui fece di quel bambino acerbo e gioioso il suo passatempo preferito, l'oggetto torbido da maneggiare a proprio piacimento. Per sei lunghi anni lo costrinse a fare cose di cui provava un enorme senso di repulsione e vergogna. Si addossò inconsciamente colpe pesanti e ingiuste, come spesso accade alle vittime di molestie e violenze.

    «Avevo troppa paura di dire qualcosa. Non volevo che la gente pensasse che fossi gay o che stessi mentendo. È stata un'esperienza orribile»¹ disse più tardi in un’intervista.

    Il piccolo Chester, che un giorno sarebbe diventato una delle più grandi rockstar dei tempi moderni, non poteva contare sull'aiuto dei familiari perché all'età di undici anni i genitori si separarono, lasciandolo in balia di un se stesso con un’autostima distrutta.

    Crescere con quella solitudine fu molto spaventoso. Con il resto della famiglia che aveva percorso strade differenti dalle sue, era stato affidato alla custodia del padre poliziotto che, ironia della sorte, si occupava di molestie sessuali sui minori.

    Impegnato in turni di lavoro massacranti e infiniti, non poté seguire il figlio come avrebbe dovuto e non si accorse delle violenze. Una giovane mente nel fiore degli anni, così fragile e bisognosa di sostegno, e con un angosciante segreto nel cuore, viveva con intensità il senso di abbandono, arrivando a odiare persino i fratelli e le sorelle: «L'unica cosa che volevo fare era uccidere tutti e scappare»².

    Per fortuna non lo fece. Prese un quaderno e cominciò a buttare giù pensieri, frustrazioni e sue paure. Confessò a un foglio di carta quello che nessuno dei suoi familiari voleva sentire. Raccontò di quando il cielo collassava sulla sua testa, delle sue urla di paura tragicamente inascoltate. Immagini, poesie, fogli e fogli di canzoni, con tanto di strofe e ritornelli. Tutte con l'intento di dare un senso al suo dolore.

    In uno scritto, che da lì a qualche anno diventò poi un brano dal titolo Sometimes³, scrisse:

    Qualche volta

    Le cose sembrano cadere a pezzi

    Quando meno te lo aspetti

    Qualche volta

    Vuoi fare le valigie e lasciarti alle spalle

    Tutti loro e tutti i loro sorrisi

    Io...

    Non so più cosa pensare

    Forse le cose andranno meglio

    Forse le cose sembreranno più luminose

    Può essere

    Può essere

    Può essere

    Qualche volta

    Le persone ti sorprendono

    E la gente mi sorprende

    Beh, immagino che sia il prezzo che paghiamo

    Per volere così tanto

    Io...

    Non so più cosa pensare…

    L’unica cosa che gli rendeva sopportabile tutta quella situazione era la musica di Depeche Mode, Stone Temple Pilots, Nirvana, The Cure, The Misfits, Fugazi, Minor Threat, The Smiths, Skinny Puppy, Neitzer Ebb, Soundgarden, Alice In Chains, Temple Of The Dog, Ministry, Machines Of Loving Grace, Jane’s Addiction, Pearl Jam, Nine Inch Nails, Metallica, Refused, The Descendants, Beastie Boys, Run DMC, A Tribe Called Quest, Rob Base, NWA, Public Enemy, KRS One e Red Hot Chili Peppers.

    I primi concerti a cui assistette da giovanissimo furono di gruppi come Front 242 e Material Issue. Tutti cantanti dalle voci particolari a cui si ispirò fin dal momento in cui prese un microfono in mano.

    Nel 2013 disse: «Quando ero in quarta elementare sognavo i Depeche Mode che facevano atterrare un jet nel cortile della mia scuola e io uscivo e annunciavo a tutti che sarei stato il quinto membro»⁴.

    La musica c’era, ma l’adolescenza in completa solitudine non fu comunque facile da gestire. «Avevo 13 anni quando ho sentito per la prima volta Break On Through. Non avevo idea di chi fossero i Doors o di quanto la loro musica avrebbe avuto un impatto su di me. Ero un tipo impacciato, un nerd e un quattr'occhi divertente in un corso di teatro, pronto a iniziare la mia infruttuosa carriera scolastica. La maggior parte della mia energia è stata riversata nella recitazione e nel frequentare il resto dei fanatici del teatro. La musica stava appena iniziando a diventare la parte più importante della mia vita.»

    Arrivarono troppo presto altre compagnie questa volta deleterie per il suo fisico e per la sua mente: sostanze stupefacenti e alcol. Anche lui, come milioni di adolescenti degli anni Novanta, si illuse di poter gestire i suoi sentimenti intorpidendo l'anima e i sensi con le droghe.

    Un’abitudine che gli fece perdere definitivamente ogni motivazione. C’erano dei momenti in cui era tanto trascurato da sembrare un senzatetto, scavato dall’eccessiva magrezza e indigenza, fin troppo emaciato. Gli facevano compagnia solo la musica e i suoi versi:

    La pioggia viene dalla mia parte

    Modella la mia testa come una palla di argilla

    Appassendo lievemente nella mia tomba

    Senza più vedere il sole

    Parole dure come macigni che si materializzarono in un brano composto anni più tardi con la sua prima band, dal titolo Hole⁶.

    Gli unici amici in carne e ossa erano altre persone emarginate e problematiche come lui. Era il 1992 quando a casa di un amico, nel mezzo di un pomeriggio dominato da trip di stupefacenti e alcolici, irruppero per derubarli pericolosi membri della Mafia Messicana.

    Davanti a quelle pistole minacciose puntate alla testa, per la prima volta Chester realizzò la meschinità delle sue abitudini e decise di interromperle. In una giornata, infatti, poteva assumere così tante droghe diverse e alcol da perdere completamente il controllo delle sue viscere.

    Era consapevole di quanto fosse degradante vivere in quel modo con, da una parte, i bulli a scuola e dall’altra amicizie poco raccomandabili: «Non è bello. Devo cambiare i miei modi, devo smettere di drogarmi. Devo cambiare la mia vita»⁷.

    Le dipendenze erano diventate un vergognoso carcere invisibile, senza sconto di pena:

    È facile abituarsi al dolore

    Cosa c'è in me, è in te

    Quello che mi ha preso, ha preso te

    E qualunque cosa detta, deve diventare realtà

    Fingendo di essere reale, dimenticando chi sei

    Il peccato è sempre alla mia porta

    Tagliate le vene, sangue versato sul pavimento

    Luce brillante nei miei occhi

    La morte mi saluta con un sorriso

    Dolore

    Così tanto dolore

    Dolore

    Così tanto dolore

    Parole pesanti e spaventose di In Time⁸, un pezzo che descriveva ciò che lo divorava giorno dopo giorno: senso di inadeguatezze, angoscia e voglia di annebbiare quei terribili ricordi fatti di violenze sessuali e abbandono. Sapeva che solo grazie a una ferrea e inespugnabile volontà sarebbe potuto uscire da quella gabbia, ma era troppo debole e troppo provato per servirsene. A diciassette anni tornò a vivere da sua madre che, turbata nel vederlo pallido e magro, lo paragonò a un deportato di Auschwitz. Per tenerlo lontano dai guai lo chiuse in casa. «Ero diventato una persona che non ero io. Perché io sono un ragazzo simpatico e amichevole che è sempre stato bloccato dietro questo mostro che era un bambino molto ferito.»⁹

    «So cantare»

    Fra una difficoltà e l’altra, quel ragazzino con gli occhiali dalle lenti spesse e i capelli ricci, dall’aspetto un po’ nerd, finalmente arrivava alle scuole superiori. All’epoca viveva con la madre.

    Spesso fu costretto a cambiare città dell’Arizona: Scottsdale, Tolleson, Tempe e di conseguenza anche scuole. Frequentò la Centennial High School e la Greenway High School, dove diede sfogo alle sue passioni.

    Come tutti i mancini era un eclettico e primeggiava tanto in campo artistico quanto in quello atletico. Corse in diverse gare di atletica leggera, dimostrando di avere talento. Riusciva a percorrere dieci chilometri con stacco notevole sugli altri partecipanti.

    Recitò in una compagnia teatrale musicale, You Are The Child. Questa esperienza gli diede la possibilità di girare per tutto lo Stato e di esibirsi per un pubblico molto vario: «Sono entrato nel teatro musicale a scuola. [...] Sapevo di poter cantare. Non pensavo di essere un cantante eccellente, ma sapevo di poter cantare piuttosto bene. [...] Interpretavo sempre ruoli diversi, voci divertenti e cose del genere¹⁰. In realtà ero molto coinvolto nel teatro prima ancora di voler diventare un cantante. Era quella la professione che volevo esercitare. Pensavo che mi sarei dedicato per tutta la vita anche al teatro. Amo recitare, per me è pur sempre una seconda natura. Faccio un po' finta di essere molte cose quando sono sul palco»¹¹.

    La sua vera passione era il canto. Per acquisire un suo stile personale studiò un modo per allenare la voce. Una volta confessò di averlo fatto, forse, nel modo sbagliato e cioè fin quando non gli faceva male la gola. Imparò quindi a usare il diaframma. Cercava di imitare la voce metal di Al Jourgensen, cantante dei Ministry, senza l’aiuto di alcun effetto. Al padre, che meravigliato gli chiedeva come riuscisse a ottenere quel suono rauco, rispondeva che si era preparato molto.

    Era un dono che era una benedizione. La voce di Chester aveva una grande varietà di sfumature: dal melodico dolce, capace di cullare e accarezzare l’anima di chi lo ascolta, ai suoni più cupi dello scream, un urlato orecchiabile e intonato, passando per il tipico cantato rock, metal e grunge. Una voce capace di cambiare con velocità registro: da suoni graffianti e gutturali che esprimono dolore, rabbia e disperazione, a suoni chiari e limpidi che trasmettono malinconia, struggimento e benevolenza. Per questa sua caratteristica quasi unica i fan dicevano di lui: «Urla come un diavolo e canta come un angelo».

    In prima superiore partecipò a un contest canoro e lo vinse cantando l’acapella di A Question Of Lust dei Depeche Mode.

    Frequentando ragazzi più grandi di lui, una sera a una festa incontrò Jason, un chitarrista talentuoso che, per gli amici, suonava le canzoni dei Doors. Vedendo quanto interesse provasse Chester gli disse: «Avrei bisogno di qualcuno che sappia cantare». Lui disse subito: «So cantare! Voglio dire, penso di essere abbastanza bravo». Così Jason gli rispose: «Beh, sarebbe fantastico, se solo avessimo un microfono!»

    Elaborarono un piano per rubarne uno nella chiesa del quartiere. «Io lo chiamo intervento divino, non lo chiamo furto, perché è stato davvero facile entrare in quella chiesa», disse Chester ironico.

    «Quando finalmente abbiamo recuperato microfono e cavo, siamo tornati di corsa a casa di Jason, e abbiamo suonato tutte le canzoni dei Doors che conosceva.»¹²

    Cominciarono le loro piccole sessioni tre volte a settimana, facendo gavetta nel campus della scuola. Iniziarono a divorare acido, speed, funghi, erba e alcol, ossessionati dalla musica dei Doors, dal mistero, dalla magia e dal caos. Fantasticavano di quanto sarebbe stato bello vivere le loro vite oltre i limiti. Credevano che questo stile di vita li rendesse più simili ai loro beniamini. Divennero molto popolari alle feste: «Di solito eravamo così incasinati che tutto sembrava fantastico. Queste esibizioni hanno iniziato a far parlare di me sulla scena musicale locale»¹³.

    Non ci volle molto ad essere notato da altri musicisti alla ricerca di un cantante per un progetto più serio.

    Un giorno l’amico chitarrista venne a sapere che un batterista, un certo Sean Dowdell, cercava un cantante per i Sean Dowdell And His Friends?, una band che aveva fondato con il suo manager Bob Rogers, un direttore di band locali di Phoenix. Così organizzarono un provino alla Greenway High School, scuola dove si diplomò nel 1995.

    All’audizione portò Alive dei Pearl Jam. I presenti rimasero a bocca aperta nel sentire quella sorprendente esibizione. Furono soprattutto colpiti dalle sue eccezionali doti canore, tanto che lo assunsero il giorno stesso.

    Con Chester al microfono, Jason Cekoric al basso e Chris Goad alla chitarra, la band era al completo.

    Ma c’era un ostacolo da superare: chiedere il permesso al padre di Chester, un poliziotto tutto d’un pezzo, che di sicuro avrebbe nutrito qualche riserva nei riguardi di quel gruppo di capelloni rockettari.

    Erano i primi anni Novanta e la cultura popolare era dominata dalla scena grunge: jeans strappati, capelli lunghi, maglioni pesanti e un aspetto trasandato. Chester voleva a tutti i costi diventare un cantante. Finalmente c’era un gruppo di amici a sostenerlo. A scuola, infatti, subiva pesanti episodi di bullismo, un ulteriore colpo alla sua già bassa autostima.

    Sean Dowdell era deciso a portare quel ragazzino nella sua band. Accettò di parlarne con il padre, seppur con qualche timore per via del proprio look da rocker. Per di più, quando si presentò a casa di Chester, fu intimorito dalla divisa da poliziotto. Il consenso arrivò, a condizione che il figlio si impegnasse negli studi. E così fu, Chester avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di realizzare il sogno di cantare in una band.

    Intorno al 1991/1992, messo insieme il gruppo, registrarono una musicassetta con tre demo e la mandarono in giro. Scrissero una decina di canzoni e impararono qualche cover dei Ramones, Nirvana, Pearl Jam, Stone Temple Pilots, Candlebox, Alice In Chains e Guns N’ Roses, facendo una settantina di spettacoli in giro per tutta l’area di Phoenix.

    Lo stile ricalcava il grunge/alternative rock imperante in America (e nel resto del mondo) negli anni Novanta, caratterizzato da testi cupi, chitarre pesanti e dal suono punk grezzo.

    Tennero il primo concerto quando Chester aveva solo quattordici anni, al Frat Party Festival, nel campus dell’Università dell’Arizona. In quasi tre ore, in una situazione di sfacelo totale, tra gente ubriaca e senza inibizioni, eseguirono cinquanta cover famose, tra cui Smells Like Teen Spirit dei Nirvana.

    In questo scenario riaffiorarono problemi mai risolti. Chester litigò con il suo agente Rob Rogers e fu espulso dalla band che, dopo un po’, si sciolse. Ebbe dei guai a scuola per via della droga. Il padre lo tenne lontano da tutto per un lungo periodo.

    Sean mise in piedi una nuova band con il bassista Jonathan Krause. Trovarono un chitarrista di nome Steve Mitchell, ma mancava ancora un cantante convincente.

    Quest’ultimo, ascoltando le registrazioni della vecchia band di Sean suggerì di ingaggiare Chester, il quale accettò subito. All’inizio decisero per il nome Lovelies Bleeding, cambiandolo poi in Gray Daze.

    Il primo vero spettacolo della band si svolse il 22 gennaio 1994 al Thunder & Lightning Bar & Grill di Scottsdale, in Arizona. Poi suonarono allo Spaghetti Factory a Phoenix, al Mason Jar e al Big Fish Pub a Tempe. In seguito, furono chiamati per registrare la prima demo professionale al Conservatory Of Recording Arts & Sciences, una scuola di ingegneria audio e formazione alla produzione in Arizona. In questo periodo insieme a Steve Mitchell Chester scrisse What’s In The Eye?

    Dopo appena cinque mesi, Steve fu licenziato per il suo carattere irascibile e instabile. Ingaggiarono un altro chitarrista, Jason Barnes e cambiarono la grafia del nome da Gray a Grey.

    Con questa formazione, nel 1994 lavorarono all’album di debutto Wake Me, con un produttore che investì diecimila dollari, permettendo a Chester e soci di stampare e distribuire alcune copie del CD e girare in varie radio.

    Quando Chester scrisse quei testi cupi e disperati, tutti attribuirono quei sentimenti all’ondata emozionale portata dal grunge anni Novanta. Nessuno aveva mai osato immaginare che quelle parole angoscianti provenissero da un’anima mortalmente ferita. Anche perché all’esterno Chester era una persona solare e divertente. Nell’album confluirono le già citate Sometimes e Hole.

    Stasera ho incontrato un poeta dietro le masse

    Ho cantato una canzone sulle mie diverse dipendenze

    Mi sono visto in un buco, in basso

    In Starting to Fly¹⁴ confessò candidamente, esprimendo la voglia di rinascita o il desiderio di fuggire da quella vita:

    Ho visto l'oceano e ho visto il cielo

    Ho le mie ali e sto iniziando a volare

    Solo pochi amici più fidati sapevano delle violenze sessuali e psicologiche subite da piccolo.

    Non fece mai il nome del suo aguzzino. Anzi, lo perdonò quando venne a sapere che a sua volta aveva subito molestie. Questo gesto gettò una luce agli occhi dei suoi compagni di band che amarono all’istante quell’indole compassionevole verso gli altri, ma non con se stesso.

    In Spin¹⁵ raccontava:

    Ero così frustrato, amico

    Ero tutto confuso, amico

    Ero disilluso

    E stufo dei tuoi amici

    Corri, non camminare per la mia strada

    Non guardare dalla mia parte

    Perché non mi interessa

    Nel brano che diede il nome all’album diceva:

    Se dovessi cadere in un clima burrascoso

    Svegliami, svegliami

    Troppo spaventato per perdere quello per cui ho provato così tanto

    Troppo spaventato per perdere quello che non ho mai avuto¹⁶

    L’ispirazione veniva anche in momenti inaspettati. Come accadde per la stesura di Morei Sky¹⁷, scritta sul retro di un furgone, in una spiaggia di Rocky Point in Messico. Davanti a un fantastico tramonto dall’effetto tessuto di seta moiré, con un colore violaceo cangiante che ricordava le onde del mare. Seduti sul retro del camion che li portava in giro per l’Arizona, Chester e Sean guardavano quel tramonto e scrivevano queste parole:

    Ho vissuto cose che non posso raccontare

    Allora abbiamo sognato di ieri

    Sembrava l'unico modo

    E ora cerchiamo speranza e preghiamo

    Se avessi avuto una seconda possibilità

    Avrei fatto ammenda

    Solo per ritrovare me stesso

    Perdendomi alla fine

    La prima versione in studio conosciuta di Morei Sky fu registrata nel giugno 1994 come parte di una demo a sei tracce fatta ai Teething Studios.

    Quando il 6 ottobre 1994 iniziarono il lavoro su Wake Me, suonarono dal vivo davanti al loro produttore direttamente su nastro, mentre Chester pronunciava il titolo di ogni canzone. Morei Sky fu tra le prime canzoni realizzate per l'album.

    Più tardi ne fu registrata un’altra versione.

    What’s In The Eye?¹⁸ trattava invece il tema della perdita di un amico a causa di un incidente stradale. Il canto intenso di Chester era quasi un pianto: vi si percepiva tutto il dolore, con un urlato straziante.

    Che cosa c’è negli occhi che non riesco a catturare?

    Sono io? Voglio sapere

    Perché è così dura lasciare andare?

    Non andare troppo veloce, amico mio

    O perderai il controllo

    Nel 1995, appena uscito il primo album, il bassista Jonathan Krause decise di non proseguire l’avventura. Fu chiamato un certo Mace Beyers, product manager dell’Electric Ballroom a Tempe. Poco dopo, anche Jason Barnes abbandonò il gruppo permettendo a Bobby Benish di completare la formazione definitiva e maggiormente conosciuta dei Grey Daze.

    Da questo momento in poi i ragazzi si esibirono in ogni evento locale, riscuotendo un discreto successo di pubblico. Intanto tornarono alla scrittura di un nuovo album al Conservatory Of Recording Arts & Sciences a Phoenix.

    Finché nel 1997 uscì …Not Sun Today, da cui i successi radiofonici di B12,

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