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E-book189 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Federico Fantini, classe 1990, è un personaggio che, non riuscendo a scovare un autore che parlasse di lui, ha deciso di diventare autore di se stesso e di scrivere un’autobiografia sul suo rocambolesco esordio nel mondo del lavoro. Non pago di essere nato e cresciuto nella città di R., ha pure trovato impiego a pochi chilometri da casa, per la gioia di sua madre, dalla quale ha un’intensa dipendenza psicologica. Ha una sorella maggiore, Emilia, e due nipoti scatenati. Gli piace chiacchierare con gli amici davanti a una birra e ha un rapporto controverso col caffè. Ha una passione sfrenata per i fumetti della Marvel e il sogno di un contratto a tempo indeterminato nella sua azienda, la “prima in Italia nel suo settore”.
Riuscirà a ottenere il tanto agognato posto fisso? Riuscirà a entrare nelle grazie della sua responsabile, Paola Zara?
Questo è il suo primo libro, e, se non succede più nulla di folle, se la girandola di colleghi e parenti che lo circonda si darà una calmata, sarà anche l’ultimo.
LinguaItaliano
EditorePubMe
Data di uscita20 lug 2020
ISBN9788833666136
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    Anteprima del libro

    Sei mesi di prova - Federico Fantini

    famoso)

    1.

    Barba: rasata di fresco. Ascelle: lavate e deodorate. Alito: profumato di dentifricio alla menta. Camicia: stirata. La mamma ci ha messo anche l’appretto e adesso la stoffa è tesa e rigida dal colletto ai polsini. Pantalone: gessato, che cade morbido, ma non moscio, sul bordo delle scarpe lucide. Giacca abbinata, ovviamente. E cravatta intonata, di raso, lucida, ma di una nuance più tenue.

    No, non sto andando a sposarmi. Ciò significherebbe che ho una ragazza, per lo meno, e non ce l’ho. No, non mi sto neanche preparando per essere il testimone. Vi do un indizio.

    Se voi poteste vedermi adesso che sono uscito dal bagno, dove mi sono osservato tanto a lungo di fronte allo specchio appannato dall’umidità, notereste che tengo in mano un’elegantissima valigetta ventiquattro ore, nera, di pelle, regalo della mamma per la mia laurea.

    Sul naso ho appoggiati un paio di occhiali dalla montatura nera, molto seriosi e professionali. Afferro le chiavi della macchina, sorrido con un sorriso smagliante e sono pronto.

    Non avete ancora capito? Oggi è il mio primo giorno di lavoro.

    La mamma, in vestaglia e pantofole, cerca di stamparmi un bacio: «Oh, che emozione, Federico, che emozione!»

    «Mamma, no, ti prego! Così mi scombini tutto!» cerco di divincolarmi dalla presa.

    Mi guardo sgomento allo specchio. Mi ha lasciato il segno del rossetto sulla guancia e la camicia non è più impeccabile, ma presenta un cedimento sull’avambraccio destro. Mi sto innervosendo. Però non voglio risponderle male. È più agitata di me, a momenti. Si è svegliata alle sei e un quarto per prepararmi un’abbondante colazione, con una bella tazza di caffè carico perché voleva che io fossi in forma. Per lei è un evento. Dopo un anno speso a bivaccare tra corsi vari ed eventuali, stage non retribuiti e formazione a pagamento, questo è il mio primo impiego remunerato. Anche se, per dirla tutta, durerà solo sei mesi. È una borsa.

    L’assunzione successiva, a tempo indeterminato, non è per niente scontata. Ma avrò uno stipendio: i miei primi ottocento euro mensili, da spendere come voglio.

    La mamma sorride beata e sembra una bambina.

    «Io andrei!» azzardo.

    «No! Aspetta! – mi impone lei – Devo farti una foto. Questo giorno è storico. Fermo lì, in posa.»

    Dopo circa quindici scatti, effettuati con una vecchia macchina analogica, mia madre pare soddisfatta.

    Con il primo stipendio voglio regalarle una macchina fotografica digitale. Non se ne può più di quel catorcio giurassico. Ma lei sembra esserci così affezionata…

    «Queste le mettiamo nell’album, accanto a quelle del primo giorno d’asilo, delle elementari, delle medie, delle superiori, dell’università e della laurea!»

    «Beh, allora vado», faccio di nuovo.

    «Non se ne parla proprio!» mia madre in pantofole, vestaglia e camicia da notte, con i bigodini sulla testa, si piazza di fronte alla porta dell’appartamento e mi impedisce di uscire. Ha le mani sui fianchi.

    «Come no? Che altro c’è?» balbetto sgomento. Vuole farmi arrivare in ritardo il primo giorno?

    «Oggi ti porta papà!» esclama la mamma, risoluta.

    «Come, mi porta papà?» la mia espressione è angosciata al limite dell’imbarazzo.

    «Certamente! Non voglio mica che arrivi in ritardo il primo giorno!» ha un’aria trionfale.

    Ma cosa crede, mia madre? Che mi possa perdere strada facendo? Che nel tragitto io mi faccia traviare da Lucignolo e anziché raggiungere il tanto agognato luogo di lavoro mi lasci condurre nel Paese dei Balocchi con un sorriso beota stampato sulla faccia?

    E poi, da dove dovrebbe sbucare fuori Lucignolo? – In realtà per questa domanda mia sorella avrebbe una risposta. L’unico rischio, semmai, è incontrare i lavavetri ai semafori, però, insomma, penso di saperli gestire.

    «Sono quasi pronto, Fede.»

    Mio padre, in mutande, con la barba di un giorno e i capelli tutti scombinati, fa capolino dalla camera da letto.

    «Vedo, papà.»

    «Lasciami solo il tempo di bere un caffelatte.»

    «Pure?»

    Cerco di convincerli a lasciarmi andare: «Ce la faccio, veramente. Vado in ufficio da solo!»

    Ma la mamma è irremovibile: «Ah, no. Oggi è un giorno troppo importante! Giuseppe, diglielo anche tu!»

    Non è che io non li capisca. Io sono il loro primo figlio arrivato alla laurea. Il primo e l’unico, dato che mia sorella Emilia a ventidue anni si è sposata e chi s’è visto s’è visto. Ora ha due figli maschi, due monelli impertinenti che appioppa ai nostri genitori ogni volta che vuole farsi i fatti suoi. E pensare che di lavoro fa l’estetista, potrebbe gestirsi il tempo come le pare, invece no, tre pomeriggi la settimana vuole andare in palestra e guai a chi le dice qualcosa. Però almeno è indipendente economicamente. Io invece non lo sono ancora. Papà si è spezzato la schiena per farmi studiare. Ha fatto i doppi turni e quelli di notte, lui è operaio, e adesso, ingobbito, con i capelli grigi, ci tiene un sacco a vedermi sistemato. Il giorno della laurea, alla facoltà di Economia, l’ho visto piangere. Quando sono stato proclamato, con il mio centodieci, a lui è sembrato di essere stato ripagato di tutti i sacrifici fatti. Ancora non sapeva che sarebbe trascorso un altro anno prima che io trovassi un impiego. Un altro anno di depressione (mia, sua, di tutta la famiglia) in cui la prospettiva di un lavoro, uno qualunque, continuava a restare remota.

    Ma alla fine è arrivato anche il mio giorno.

    Papà inzuppa il pane nel caffelatte e si inzacchera da testa a piedi. La mamma lo insegue per fargli cambiare la camicia. Poi mi offre una nuova tazza di caffè: «Dai, bevi, Federico, che così dopo hai più energia».

    Mi dico: perché no? Oggi devo essere lucido, reattivo. Anche se, in tutta onestà, mi sto innervosendo perché i minuti passano e papà si sta ancora legando le scarpe. Stamattina mi sono alzato con le galline per essere puntuale. Ora rischio davvero di arrivare tardi.

    Alla fine riusciamo a uscire di casa, tra gli in bocca al lupo della mamma e le pacche sulle spalle di papà.

    In macchina papà guida pianissimo. È di una lentezza mostruosa. Si fa tagliare la strada da… chiunque, anche dalle biciclette. Dice che guida piano da quando ha i figli: per riguardo nostro. Una volta gli piaceva correre, poi ha perso l’abitudine. Anche troppo, infatti ora non è più capace di schiacciare l’acceleratore, forse si è dimenticato persino dov’è. In ventisei anni non l’ho mai visto mandare una volta il motore su di giri. Oggi però, se si desse una mossa…

    Per non perdere le staffe, cerco di distrarmi con un giochino sullo smartphone, intanto la mia testa torna al giorno del colloquio.

    Il manager tutto in tiro, la sala con la moquette, le pareti rivestite di legno e acciaio e il grande tavolo di vetro. Io e gli altri candidati che pendevamo dalle sue labbra.

    «La nostra azienda è la numero uno del settore. Cerchiamo gente motivata, giovane, dinamica, disposta a viaggiare, flessibile, propositiva, con un’ottima conoscenza della lingua inglese, che abbia voglia di mettersi in gioco. La nostra realtà è in continuo rinnovamento, vogliamo formare delle nuove risorse e farle crescere. Qui da noi c’è molto da imparare…»

    Quel c’è molto da imparare ancora mi risuona nelle orecchie, ma la cosa importante è che, tra tanti candidati, abbiano scelto me. Ed eccomi qua, pronto a scendere in campo, pronto a farmi valere, a dimostrare ciò che valgo in una realtà nuova e stimolante.

    Ho la grinta di un leone e voglio spaccare il mondo! Ma voglio anche essere umile, capire, apprendere. E farmi rispettare. Sto per entrare in una delle più grandi aziende italiane. Beh, insomma, forse non in una delle più importanti, ma in un’azienda degna di nota, comunque. Ho riposto molte aspettative in questo nuovo inizio, perché farò parte di una realtà globale, con contatti verso l’esterno, con fornitori in giro per l’Europa.

    Mi sentirò cittadino del mondo, mi aprirò a realtà sconosciute, a culture diverse, e riceverò dei nuovi incentivi. Sto entrando in una company worldwide e lo sto facendo dall’ingresso principale.

    E poi chissà, magari, nel tempo, potrei pure fare carriera e avere successo. Già mi figuro nei panni di un giovane manager, in un completo giacca e cravatta come quello che indosso ora, ma più costoso e più elegante, col cellulare aziendale, magari uno smartphone, il tablet aziendale, la company car e mille altri benefit che adesso nemmeno mi immagino.

    2.

    La brusca frenata di papà mi risveglia di colpo dai miei sogni di gloria e dai miei buoni propositi.

    «Dove siamo?» domando guardandomi intorno.

    «Temo di aver superato l’indirizzo giusto, adesso torno indietro! – spiega papà imbarazzato – Mi immetto nel controviale appena il semaforo…»

    «Non importa papà – taglio corto – Saranno duecento metri, vado a piedi.»

    «Sei sicuro Fede?»

    «Sicurissimo, pa’.»

    Mio padre mi passa una mano tra i capelli e me li scompiglia. Porca miseria, ci ho messo un quarto d’ora a domare la chioma riccia e incolta, stamattina: «Bene, allora in bocca al lupo, figliolo».

    Papà ha gli occhi lucidi. Sembra persino commosso. Lo capisco. Lo sono anche io.

    L’aria fresca del mattino mi fa bene. Percorro le centinaia di metri che mi mancano con passo sostenuto. Ora è ufficiale, sono quasi in ritardo. Arrivo alle nove meno due minuti, al pelo.

    Sono assai meno in tiro di quando sono uscito di casa e mi sembra di aver cominciato a sudare un po’. Cerco di rimettermi in ordine.

    In quel momento mi si avvicina un tizio con i capelli rossi arruffati, le lentiggini e un giornale in mano. Ha gli occhi color nocciola e gli occhialini da intellettuale. Mi ferma, mi dà una pacca sulla spalla e mi chiede come se fossimo amici di antica data: «Vorresti comprare il numero di Lotta Comunista di questo mese? Sono solo cinque euro, ma se vuoi puoi fare anche un’offerta per la causa».

    Un comunista il primo giorno di lavoro? Per carità.

    «Scusa, ho fretta» gli rispondo, tentando di non essere aggressivo, ma sono indispettito. Ci manca solo che mi vedano inciuciare con lui: non mi assumerebbero mai.

    Lo scanso, aggiusto la cravatta e mi presento alla portineria.

    L’azienda è grande, una delle più grandi di R., e tiene un intero isolato, nella zona industriale. È costituita da una serie di edifici grigi, prefabbricati, uno accanto all’altro. Dico il mio nome al sorvegliante.

    «Fantini – scandisco – Federico Fantini. Il dottor Sgherla, il mio responsabile, mi attende per oggi. Devo prendere servizio» specifico con un pizzico di intimo orgoglio. Penso: Ancora non mi conoscete, ma presto capirete che ormai sono dei vostri! e sorrido tra me e me.

    Il guardiano, chiuso nella sua divisa verde come una specie di militare, controlla il mio nome su una lista e poi alza verso di me uno sguardo sospettoso: «Non c’è. È sicuro che fosse proprio oggi?»

    Sbatto le palpebre.

    «Sì, certo. Il Personale mi ha convocato per questa mattina. Devo prendere servizio» ripeto, e comincio a entrare in ansia. Avrò capito male? Non era oggi? Avrò sognato tutto, compresa l’assunzione?

    «Ricontrollo – fa quello, flemmatico fino a farmi saltare i nervi – Fantini, ha detto?»

    «Sì» ripeto speranzoso.

    «No, non c’è.»

    «Come? – inizio ad angosciarmi – E allora che si può fare?»

    «Non so.»

    Il guardiano ha un’espressione impassibile. «Torni un altro giorno.»

    Ho le mani che sudano.

    «Scusi ma quando arriva un ospite di solito come fate?»

    «Quando arriva un ospite di solito telefoniamo a quello che lo attende.»

    Attingo a tutto il mio self-control: «E allora, cortesemente, può telefonare al dottor Sgherla?»

    Il guardiano sbuffa come se gli avessi chiesto di fare qualcosa di improbabile, tipo di prendere una fetta di luna e di servirmela su un piatto con uno spicchio di limone.

    «Provo.»

    Mentre compone il numero, altri impiegati, intorno a me, stanno entrando nel cortile e attraversano dei tornelli dopo avere strisciato il loro badge. Un altro guardiano, in piedi, li osserva con occhio di triglia e controlla che tutto si svolga in modo regolare. Quand’ecco che una donna visibilmente incinta tenta di entrare evitando i tornelli e viene subito fermata dal piantone: «Dove sta andando, lei? Perché non passa dai tornelli come gli altri?»

    La donna incinta sbuffa, alza gli occhi al cielo e prende fiato, come se si apprestasse a fare una cosa che le dà parecchio fastidio: «Perché l’RSPP, il responsabile del servizio prevenzione e protezione, mi ha VI-E-TA-TO di passare in mezzo ai tornelli, visto che sono incinta e potrei farmi male» spiega con una voce cantilenante e con l’intonazione esausta di chi ripete la stessa storia tutte le sacrosante mattine o quasi.

    Il guardiano la scruta con occhio bovino e sembra non vederla nemmeno: «Ha un certificato di gravidanza?»

    La signora rovista nella borsa, tira fuori un foglio spiegazzato e glielo sbatte sotto gli occhi.

    «Ah, okay, vada pure» commenta il guardiano, impassibile.

    Sento la futura mamma imprecare sommessamente mentre si allontana: «Non è possibile, tra un mese nasce, come fa a chiedermi se sono incinta… tutti i giorni? Idiota… Crede forse che io mi diverta a girare con un cuscino sotto il vestito?»

    Mi sfrego gli occhi e ancora non ci credo. Nel frattempo il mio guardiano mette la testa fuori dalla guardiola: «Il dottor Sgherla alla scrivania non c’è. Non risponde».

    «E quindi?» dico a mezza voce.

    «Torni più tardi» mi anticipa lui.

    «Scusi – azzardo – ha provato a chiamarlo al cellulare aziendale?»

    «No, noi qui abbiamo solo l’elenco dei numeri dell’ufficio. I numeri dei cellulari non li abbiamo neanche.»

    Mi cade la mascella, ma ho la prontezza di rispondere: «Ce l’ho io il numero del cellulare aziendale» e scovo

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