Sognando la libertà
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Anteprima del libro
Sognando la libertà - Silvia Pattarini
Calamandrei
RACCONTI
L’occhio di Horus
Il cadavere della principessa giace immobile, squartato a metà, sul tavolone di pietra degli imbalsamatori.
Lunghi capelli neri come la pece penzolano verso il pavimento bitumato, richiamati dalla forza di gravità. La tetra maschera di Anubi sul volto dell’uomo che inizia il rituale di estrazione degli organi brilla nella luce tremula delle torce. L’atmosfera è inquietante ed esoterica.
In sottofondo, le litanie e le formule magiche recitate dal maestro e dai sacerdoti rendono l’ambiente ancora più spettrale.
Mentre recita una nuova formula magica tratta dal Libro dei Morti, Amethot affonda la sua sapiente mano nell’addome inerme e freddo, maleodorante, senza provare alcun disgusto.
Ne cava il fegato, lo appoggia su un piatto d’argento che Serket, apprendista e schiavo nubiano, s’affretta ad allungargli. Il poveretto emette un gemito di ribrezzo, mantiene quella mercanzia a debita distanza dalle narici; il solo atto di guardare gli costa un enorme sacrificio.
La mano esperta continua a lavorare. È la volta dello stomaco, poi dell’intestino, infine dei polmoni estirpati con forza dalla loro sede dalle dita attente del luminare, che procede a rilento e con la dovuta cura per non danneggiarli.
Il servo nubiano ha il compito di deporre ciascuno di quegli organi nell’apposito contenitore riempito con una salamoia di natron. Sono delicati e riposeranno per l’eternità dentro quattro vasi canopi, collocati nel sepolcro assieme al corpo della principessa.
Il fegato, deposto con cura nel contenitore a forma di testa umana, Hamset, dimorerà al suo interno per secoli. Tributo alla dea Iside, mostra il sud.
L’intestino è convogliato nel Qebehsenuf, vaso a testa di falco. Omaggio per la dea Selket, indica l’ovest.
Lo stomaco è sistemato nel recipiente Duamutef a foggia di sciacallo, è collegato alla dea Neith e determina l’est.
Infine i polmoni, riempiono il vaso Hapi che raffigura un babbuino. Per la sua connessione alla dea Mephtys, rappresenta il nord. Il grande maestro conficca un uncino appuntito nella narice destra.
Lo scorre avanti e indietro con una certa manualità per diverse volte, asporta tutta la materia grigia che fuoriesce copiosa e molliccia dalla cavità nasale. Esegue le stesse manovre nella narice sinistra e completa il lavoro. Raccoglie una sostanza che emana un odore pestilenziale in un contenitore di terracotta e la consegna nelle mani di Serket, con il compito di sbarazzarsene.
Quella mucillagine lattiginosa non vale nulla, funge giusto da frugale pasto per i gatti randagi che, voraci, accorreranno al richiamo del giovane. Il ragazzo esce, risale veloce i gradoni di pietra calcarea che lo conducono all’esterno della Casa delle ombre, ben lieto di rivedere il sole e di liberarsi del composto nauseabondo.
Gli occhi abituati al buio si oppongono alla luce prima di schiudersi. Inebriato dal sole respira a pieni polmoni.
Che sensazione di libertà. Apre gli occhi.
Un branco di gatti selvatici si avventa con voracità sul mucchietto gelatinoso gettato nella strada polverosa. Divorano il tutto in una manciata di secondi. Un nugolo di mosche svolazza sui miseri resti appiccicati sul terreno arido e polveroso.
Nell’osservare schifato il miserabile convito, Serket emette due conati di vomito. I raggi luminosi del sole si riflettono sulla pelle olivastra, mentre s’allontana dalla scena rivoltante.
Cerca l’aria, la vita.
Con una mano sullo stomaco, avanza di qualche passo verso una palma sulla cui sommità scorge alcuni datteri maturi. È proprio ciò che gli serve per ripulirsi l’acidità dalla bocca. Fulmineo come un felino, ne scala il tronco e ne raccoglie fino a riempirsi il gonnellino. Scende adagio dalla pianta, si distende all’ombra di un grande sicomoro e gusta con avidità i succulenti frutti.
Non se la sente di rientrare là sotto, di nuovo al buio, in mezzo alla morte. Se fuggisse, però, le guardie del grande Maestro gli darebbero la caccia e, una volta ritrovato, il suo padrone non gli risparmierebbe una grave punizione.
Non è facile la vita di un giovane schiavo apprendista in un paese straniero come l’Egitto. Meglio non rischiare di prendersi dieci frustate.
Decide di rientrare.
«Serket passami la coppa» tuona la voce cavernosa del primogenito, nell’atto di girare il vino di palma all’illustre padre.
Con la sua esperienza lava in modo maniacale la cavità di quel corpo smembrato, smorza le esalazioni fetide che emana. Passa più volte le bende imbevute di vino in ogni centimetro sventrato, va a toccare gli angoli più remoti, si spinge fino accanto ai reni che, per la loro posizione intricata, non riesce ad asportare. Con una manovra particolare lava con cura il cuore che non può essere rimosso.
Durante la cerimonia funebre verrà pesato dagli dei Anubi e Horus in persona. Su di una bilancia lo confronteranno col peso di una piuma. Solo se il cuore del defunto sarà più leggero, quindi puro e giusto, avrà libero accesso al mondo dei morti, altrimenti la sua anima dannata verrà divorata dal terrificante Amenet.
Serket si prodiga a riempire quel corpo svuotato, passa al suo superiore ingenti quantità di mirra, cannella, pino, ginepro e altre essenze profumate. La mano esperta del grande Maestro termina il lavoro, ricuce l’intera ferita e il cadavere è pronto per il trasporto