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Il monologo del 7
Il monologo del 7
Il monologo del 7
E-book144 pagine2 ore

Il monologo del 7

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Info su questo ebook

Il Signor Ermenegildo Sette, ricoverato in una clinica per malati mentali, trascorre molte ore del giorno a parlare da solo. Racconta in una stanza isolata di cose che gli sono accadute molto tempo prima nella sua vita normale, quando ancora era in pieno possesso delle sue facoltà.

In questo resoconto narra del suo rapporto con il lavoro e le diverse fidanzate. Non mancheranno rapporti con la vicina di casa, gli zii, e poi incontri con altre persone che lui chiamerà in modo originale Stambecca, Teiera e il vecchio fumatore accanito Caminetto. Infine, il tragico incidente del cugino Dario lo porterà a conoscere l'infermiera Fernanda, chiamata affettuosamente Vampira, che diventerà la sua futura moglie.
LinguaItaliano
Data di uscita25 giu 2024
ISBN9791222750767
Il monologo del 7

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    Il monologo del 7 - Egidio Capodiferro

    Egidio Capodiferro

    IL MONOLOGO DEL 7

    Titolo | Il monologo del 7

    Autore | Egidio Capodiferro

    Copertina a cura di Gianluca Galati

    ISBN | 9791222750767

    © 2024 - Tutti i diritti riservati all’Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6 - 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Made by human

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a persone, cose o fatti realmente accaduti è puramente casuale.

    "Si chiudono alcuni matti

    in una casa di salute,

    per dare a credere che quelli

    che stanno fuori sono savi"

    Charles-Louis de Montesquieu

    La mia vita scorre sotto le stelle. Stelle di notte e una stella di giorno; il mio nome è Ermenegildo Sette, sono di provenienza meridionale e indole timida, proteso nel futuro e sempre in attesa di qualcosa che mai arriva ed è sempre in agguato: la morte.

    Sono disteso sul divano di casa, affondo nel centro e quasi sonnecchio, mentre una vecchia televisione sullo sfondo dei miei giorni farfuglia di cose alle quali non presto mai attenzione. Ho pensato a ciò che fu, e dentro agli anni passati, ormai perduti nel nulla, ho pescato ricordi belli e gravosi, e avrei piacere di raccontarli a qualcuno.

    Iniziamo...

    ... La mia ragazza si chiamava Clementina.

    La frequentavo da circa tre mesi, quando un pomeriggio volle presentarmi alla madre: la signora Rosa era bassa e grassa, serviva gli ospiti con passi corti, da formica... sembrava una grossa teiera, intenta a riversare nelle orecchie dei presenti un torrente di banalità che non riusciva a trattenere dentro il recinto dei denti. Criticava i coniugi Pomodoro, colpevoli di aver acquistato un’autovettura che a sua detta non si potevano permettere, aiutata in quest’alta opera di taglio e cucito dagli ospiti, che si guardavano bene dal contraddirla per non doverne sopportare gli sbuffi.

    - Incassano debiti come un pugile - sentenziò, spietata, per chiudere la questione.

    Poi prese a parlare del cane che alcuni amici avevano regalato alla famiglia Cinque: un carlino che lei, Rosa la Teiera, non sopportava per via della coda attorcigliata. - Sembra che voglia dire: So tutto io, proprio come un alunno secchione che alza sempre il dito per svergognare gli altri - precisò con una risata, e agitando la mano nell’aria assunse uno sguardo burlone, come ad avvertire di prepararsi perché l’avrebbe sparata grossa: - Avrebbero fatto meglio a prendere un basset hound.

    - Perché? - volle sapere un’ospite.

    - Perché con quelle orecchie... - Rise, aspirò, e puntuale sputò la cavolata che tutti si aspettavano: - Almeno eviti di spazzare per terra! - La risata di Teiera fu come una serie di tuoni a cui ne seguirono altri, che rimbombarono in tutta la casa.

    A questi boati in serie, fecero eco gli Ah! Ah!, del signor Miele e consorte, della signora Volpe e consorte, del Signor Ferro senza consorte, delle zitellone centenarie Costantino, e delle sobrie ragazze Grappa, in un tono via via discendente, fino a raggiungere l’allampanato signor Data, una canna al vento che sembrava il figlio adottivo del signor Stuzzicadenti; questi fece un Ah! Ah! forzato, la catena di montaggio di un eco abortito, insomma una simulazione ben riuscita; Data stava lì da due ore, con il sedere addormentato e ormai marmoreo, ma si prevedeva che fra non molto sarebbe caduto a terra, fatto secco da un attacco di noia fulminante.

    Gli uomini ridevano in maniera più misurata, quasi contenendosi, mentre le donne starnazzavano come oche rincitrullite dall’età, e le giovani, per imitazione irrefrenabile e idiota, imitavano le vecchie.

    Accadeva tutto questo quando Clementina entrò, e chiamata la madre in disparte, le disse che voleva presentarle il suo ragazzo, cioè io. Teiera la guardò di traverso, irritata perché, quando aveva ospiti (e la figlia lo sapeva bene, quella era l’ora di adorazione: gli astanti l’adulavano e le giravano attorno, erano sotto la sua influenza come dei pianeti, e lei per questo motivo si considerava molto più di quanto fosse in realtà), non voleva alcun tipo di disturbo ed era sempre maldisposta.

    Stavo a un cinque metri da Teiera, sotto l’arco della porta d’ingresso, e lei prese a squadrarmi. Forse pretendeva che fossi un ricco arabo o uno snob vestito da qualche stilista famoso, ma ero solo me stesso, con l’abbigliamento casual tipico dei ragazzi della mia età: jeans, maglietta e scarpe di tela. Non la smetteva più di fissarmi in quel modo, manco fosse carnevale e indossassi chissà quale costume originale...

    Alla fine, disse alla figlia che le sembravo un viso conosciuto, e lei rispose sottovoce che ero il figlio di Sette (queste cose Clementina me le riferì dopo, quando ci salutammo per sempre). Teiera allora si fece nervosa e sbuffò, sbuffò... sbuffò... come un treno in corsa, come un toro imbufalito, e prese a camminare in un modo tale da sembrare un millepiedi. Investì e spezzò il nostro legame. Mi cacciò fuori di casa, senza darmi spiegazioni, mentre la figlia venne mandata in camera sua, a fare la clarissa in casa per un mese intero.

    Il giorno in cui Clementina uscì dalla clausura, mi raccontò com’era andata e mi pregò di non rivolgerle più nemmeno il saluto, altrimenti sarebbe ritornata a fare la monaca in casa. Accettai le sue condizioni, accettai di perdere Clementina: la signora Teiera ci aveva divisi per sempre. Avrei voluta fargliela pagare cara, ma essendo di animo più nobile di quella donna triviale sempre intenta a intrattenere gli amici con le sue corbellerie, decisi di passarci sopra.

    Tornai a casa, addolorato ma non troppo. Avevo già sofferto per un mese, e in cuor mio ero preparato a quel triste epilogo.

    Trascorse un altro mese, e Clementina era ormai un vecchio e sterile ricordo, ammucchiato nella stiva dell’inconscio alla rinfusa con tanti altri della stessa specie e importanza.

    Una sera ero steso sul divano, e il mio bacino affondava nel cuscino al centro.

    Il cielo è azzurro quando gli va, quando lo è, e nessuno potrà negarmelo, ma quel giorno era grigio, e altro ancora sarebbe sopraggiunto: nembi neri si stagliavano all’orizzonte, e avanzavano come cisterne piene d’acqua da scaricare dalle mie parti. Di positivo, però, c’era che il principale mi aveva pagato; di conseguenza il cielo avrebbe potuto essere azzurro, grigio, giallo, rosso, nero, ma io lo vedevo sereno come me, soddisfatto delle mie mani che stringevano le poche banconote del lavoro di un mese. Il lavoro? Non lo so. Forse è stupido, è una cosa buona? Non lo so. Fatto sta che senza quei fogli di valore colorati a pastello, senza quel lavoro noioso, non avrei saputo come riempirmi la pancia. Tra le soluzioni possibili intravedevo quella di inginocchiarmi dinanzi a una chiesa o lungo una strada, con un cartello attaccato al collo: alcuni scrivono Sono malato; altri, Ho sei figli; altri ancora, Sono straniero; oppure, Sono disoccupato. Io avrei scritto Sono uno scansafatiche, vi prego di provvedere. Di sicuro sarei morto di lì a poco, forse lapidato da una marmaglia di scansafatiche come me, o di passanti scandalizzati dal cartello.

    Qualche lavoretto lo facevo, in nero, il che mi fa pensare di essere stato un fuorilegge, però con i quattro ceci che prendevo appena mi ci sfamavo... meglio chiudere qui questa parentesi... insomma, in un baleno si era fatto sera. La mia consuetudine, prima di addormentarmi, era di leggere un libro. Quel giorno erano arrivate delle bollette e le avevo poggiate sul libro, posto a sua volta sul comodino, e così le aprii: luce, acqua, gas, immondizia, telefono e, dulcis in fundo, assicurazione auto.

    Lavoro per me o per delle cose?, mi dissi, e spensi la luce. Mi addormentai col pensiero che il mio stipendio se ne era andato in fumo per delle bollette, dei fogli di carta; che i miei soldi, anch’essi fogli di carta, se ne erano andati per altri fogli di carta che prima della data di scadenza dovevano essere scambiati alla presenza di un impiegato delle Poste.

    Erano le 2:00, quando riaccesi la luce. Stordito dal sonno, mi diressi barcollando in cucina. Riempii un grosso bicchiere con dell’aranciata e lo bevvi d’un fiato. Spensi la luce e sbirciai dalla finestra, o forse la aprii, non ricordo... le stelle brillavano più di me, che pure ero brillo di sonno. Domani sarà una bella giornata, pensai ad alta voce, e a tentoni ritornai a letto.

    Mentre dormivo, l’aranciata mi fece uno strano effetto, tanto che verso le 5:00 presi la strada del bagno, mi affacciai dalla finestra e vidi che sorgeva il sole. Che bel tramonto! Stordito dal sonno, avevo confuso l’alba col tramonto, perché in un certo qual modo sono due fratelli gemelli. Alla finestra avevo visto questo: il colore arancione invadeva le montagne, che per poco perdevano il loro colore naturale. Posso dormire ancora. E così feci.

    Alle 7:00 in punto suonò la sveglia, e non mi lasciò in pace fino a quando non mi alzai. La tenevo sul comò, come una bomboniera di matrimonio, a una distanza di quattro metri circa dal letto, per non correre il rischio di rimanere prigioniero del sonno. Fosse stato per me avrei continuato a dormire, ma il lavoro non consente agli uomini del nostro tempo di soddisfare le minime necessità naturali (e le mie erano molto esigenti, riguardo al riposo). La mia vita era un rituale e certe cose erano sacrosante; fra queste c’era il caffè, mentre la colazione variava a seconda di come mi svegliavo, in base ai capricci e alle voglie di prima mattina. Ora, raccontare del mio lavoro, e di quante ore mi rubasse, è noioso più del lavoro stesso, quindi sorvolo. Aggiungo solo che tornavo alla mia tana alle 17:00, arrangiavo una merenda, andavo a riposare un’oretta e, se rimaneva tempo, leggevo una pagina del libro sul comodino.

    Era estate. Alle 19:00 il sole scemava e si annidava fra i monti, così, quando ne avevo voglia, mi vestivo in maniera presentabile e scendevo in strada. Alla mia destra stavano i lampioni, a sinistra le case attaccate come con la colla. Al centro una fiumana di persone mi veniva incontro, così almeno mi sembrava, e passava oltre per ricoprire il resto del passeggio sullo sfondo di un paesaggio urbano. Il lavoro mi aveva stancato e avevo gli occhi leggermente assonnati, ma ci vedevo ancora abbastanza bene: tante persone che consumavano le suole sulla strada maestra, si specchiavano nelle vetrine, pronte a dilapidare gli stipendi nei negozi, e far portare le buste ai figli ignari di acquisti a volte assurdi. Per molte donne i negozi sono un’attrazione fatale. Dentro di me girava un mondo alquanto strano, mentre fuori giriamo un po’ tutti, aggrappati alla trottola della terra, un vortice che ruota per ciascuno, ma non tutti si divertono. A un certo punto ero solito sedermi su una poltrona di marmo, e continuavo a guardare la gente. Era, scusate, un bel passatempo, gratuito e a tratti divertente, almeno nel breve periodo. Passavano delle vecchiette vestite in modo comico, per esempio, e io continuavo a osservare fino a che gli occhi non ne potevano più.

    Una di quelle sere, a qualcuno parve il caso che non stessi in mezzo a quel viavai come un fantasma. - Sveglia! – mi fece, passandomi una mano davanti agli occhi.

    Era un mio amico, lo salutai con un sorriso.

    Mi invitò a prendere qualcosa al bar. In queste circostanze venivo colto da una sorta di smarrimento; non sapevo cosa scegliere: liquore? Cioccolata? Bibite? Gelato? Birra? Aperitivo? Ero, forse lo sono tuttora, sempre indeciso. Così chiedevo agli altri cosa prendessero e mi regolavo di conseguenza.

    Quella volta ero solo, il mio amico domandò: - Cosa prendi?

    Mi aveva colto alla sprovvista. - Ci sto pensando. - Avevo raggiunto comunque il mio scopo.

    - Io, una birra.

    - Anch’io.

    Usciti dal bar,

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