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Guenda: Professione: bulldog
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Guenda: Professione: bulldog
E-book179 pagine2 ore

Guenda: Professione: bulldog

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Info su questo ebook

In Guenda – che considero il cane della mia vita – la valanga di avvenimenti e di avventurosi disastri procurati dalla protagonista, simpatico giullare a quattro zampe, viene ripercorsa fin dal giorno del suo arrivo (imprevisto e indesiderato), in veste decisamente tragicomica. La sua missione è quella di prendersi cura dei suoi coinquilini bipedi, da lei considerati una coppia di imbranati.
Con tenace impegno, Guenda utilizza intraprendenza e senso pratico (doti che possiede a tonnellate) per risolvere quotidianamente – a modo suo – i problemi dell’esistenza, per sé e per i propri cari.
Su qualsiasi vicenda narrata nel libro, primeggiano comunque l’intelligenza e il cuore generoso di questo grande cane, che migliora l’umore e il carattere di chiunque abbia il privilegio di condividere il proprio tetto con lui.
Quando in casa c’è un essere come Guenda, l’istituzione familiare diventa una realtà con cui riappacificarsi, arricchita dall’assenza degli aspetti meno nobili insiti nei rapporti umani.
Guenda non giudica, ama senza critiche, con gioioso (e contagioso) slancio epicureo.
Se, dopo la lettura, avrò suscitato la curiosità di qualcuno al punto da indurlo ad adottare un bulldog inglese, ne sarò orgogliosa; ma devo confessare che sarò altrettanto sollevata se avrò aperto gli occhi a chi fosse ancora incerto sul da farsi, evitandogli di avventurarsi in un vero e proprio lavoro a tempo pieno.

LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2013
ISBN9781301369225
Guenda: Professione: bulldog
Autore

Diana Prandi d'Ulmhort

Diana Prandi d’Ulmhort è nata a Milano nel 1952 e nel 1955 si è trasferita con la famiglia in provincia di Gorizia, dove il padre era titolare di un’azienda vitivinicola. Ha frequentato il liceo classico a Gorizia e si è laureata in giurisprudenza all’Università di Trieste. Dopo l’apprendistato in uno studio legale, durato il tempo necessario a escludere dalla sua vita la professione forense, ha vinto un concorso alla Regione Friuli Venezia Giulia e ha fatto carriera nella pubblica amministrazione, diventando dirigente. Da poco in pensione, vive a Trieste con il marito e due cani molto impegnativi, Guenda e Liù.

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    Anteprima del libro

    Guenda - Diana Prandi d'Ulmhort

    «Hai da fare?» mi chiese mio marito alle 15 di un freddo pomeriggio di dicembre. Era il giorno di San Nicolò, ma la giornata festiva era stata soppressa da qualche burocrate insensibile, anche se i bambini continuavano a ricevere – come sempre – i loro regali.

    Io ero in ufficio e il consorte chiamava da casa. La sua domanda mi era sembrata insulsa, anzi, offensiva, visto che stavo lavorando e lo sapeva. Però lui non è uno che parli molto, per cui cominciai a pensare a un problema.

    Rilanciare con una domanda serve sempre a prendere tempo: «Perché?».

    «Prenditi un permesso e vieni a casa.»

    Dopo qualche tira e molla verbale, confessò: aveva comprato un cane.

    un cane!!! Senza dirmi niente, senza farmi scegliere, ignorando qualsiasi eventuale dissenso. Ce n’era abbastanza per infuriarsi. E se avesse comprato un terranova, o roba del genere? Dal tono di voce – gentilissimo – c’era da aspettarselo. Non mi fidavo, mio marito (che per brevità chiamerò MioM) è un razionale-impulsivo; il problema è che la miscela non è mai in percentuali prevedibili.

    È ovvio che presi un permesso, dopo aver comunicato a una collega il motivo della mia uscita precipitosa.

    «Vengo anch’io» fu la risposta, e non c’è stato verso di impedirglielo.

    Così mi sono ritrovata sulla porta di casa, con il cuore in gola e un testimone oculare alle calcagna: avevo uno strano presentimento su quello che avrei visto, e la certezza che niente sarebbe più stato come prima.

    Il cucciolo era in salotto, su un plaid scozzese, con un giocattolo di gomma appoggiato vezzosamente accanto: il fedifrago aveva preparato un bel quadretto domestico per far sembrare l’ingresso di un cane in casa un fatto naturale, quasi innocuo.

    Era un fagottino bianco e nocciola, con due occhi neri bistrati come Cleopatra, e mi guardava in uno strano modo, da sotto in su, imbronciatissimo, come se fosse lui a essere scocciato per questo trasferimento imprevisto.

    Mi avvicinai e... porca miseria, era un bulldog inglese!

    Sarà perché mi ero sempre imbattuta in esemplari maschi, ma era una razza che non mi piaceva: quei testoni sproporzionati, tutte quelle rughe e i canini di fuori. Un cane è un cane, mica uno scherzo della natura. Borbottai qualcosa di poco cordiale, e mi fu chiesto subdolamente se volevo che fosse riportato in negozio. Il modo migliore per farmi sentire un verme: chi può restituire un cucciolo, se non un mostro senza cuore, del tipo vacanzieri che lasciano i loro cani in autostrada?

    Ormai mi ero avvicinata e lo toccavo fra le orecchie con un dito. Era una femmina, morbida come il velluto, e aveva qualche piccolo neo peloso, come certe vecchie signore.

    «Non devi sollevarla tenendola per le zampe, perché pesa troppo e si storcono.» Ormai MioM mi dava istruzioni; evidentemente si stava allargando, perché si sentiva sicuro del fatto suo.

    «E chi la solleva? Non ci penso neanche.»

    Intanto la collega emetteva suoni entusiastici; la invitai a smetterla subito, perché il cane mica avrebbe pisciato sui suoi tappeti.

    In effetti, mentre lo dicevo, realizzai all’istante le terrificanti attività fisiologiche di un cucciolo. Un neonato lo ficchi in una culla, quando è più grande in un box, e lì dentro può sbizzarrirsi a fare di tutto. Almeno c’è da bonificare solo un paio di metri quadrati. Ma un cane gira per casa e la molla allegramente dove vuole.

    Mi stavano crescendo due canini da Dracula, e misi subito le mani avanti: «Io lavoro tutto il giorno, chi la porta fuori? E poi i bulldog sono cani che non camminano. Non andremo più in montagna, e neppure a fare passeggiate sul Carso».

    «Farò tutto io. Come vuoi chiamarla?»

    Guardai di nuovo quell’essere, che adesso emetteva un leggero ronfare con gli occhi aperti e le palpebre che calavano, e mi venne in mente la segretaria di mio nonno, che allevava schnauzer nani a cui dava nomi strepitosi. Gli ultimi due che aveva tirato su erano Ulisse e Guendalina, per gli amici Guenda.

    «Guenda ti va bene?»

    E Guenda fu.

    * * *

    In cucina si era materializzata una brandina da campo con una dotazione di due copertine di pyle. Il tutto era sistemato vicino alla porta della caldaia, per assicurare alla nuova venuta un letto confortevole e un amichevole, caldo ronzìo nelle vicinanze. Non era proprio come avere mamma bulldog vicina, ma era comunque il posto migliore della casa dove Guenda potesse dormire.

    Mi sembrava quasi che non fosse un guaio così grande. In fondo, nella mia vita avevo sempre avuto cani, e anche Frou, l’ultima che aveva vissuto con noi, era stata una compagna educata e silenziosa.

    Andai a dormire convinta che forse esageravo a preoccuparmi. Guenda non era un cane da corsa, d’accordo, ma avremmo trovato un accordo onorevole.

    La mattina dopo mi alzai come al solito verso le sette e, aprendo la porta della cucina per prepararmi il caffè, fui sopraffatta da un odore inequivocabile. Il pavimento, la brandina e perfino le tende della portafinestra erano istoriati da spruzzi di diarrea.

    Guenda zampettava amichevole in mezzo a quel guano, imprimendo orme giallognole sulle piastrelle di cotto. Non sembrava preoccupata né sofferente, anzi, mi pareva contenta di vedermi.

    Non sapevo che fare in mezzo a tanto orrore, tranne che battere in ritirata e chiamare a gran voce il responsabile dello tsunami che si era abbattuto sulla mia vita.

    Cominciò da quel giorno una lunga serie di risvegli analoghi, in cui la porta della cucina veniva aperta con la stessa cautela con cui si schiude il ventaglio delle carte da poker.

    Nel frattempo, Guenda veniva curata con tonnellate di fermenti lattici e con altre medicine di cui non sapevo niente.

    La diarrea continuava in modo preoccupante, e infatti eravamo molto allarmati; il cucciolo era tosto, ma cominciava a risentirne e camminava barcollando, indebolito da quel disastro.

    Fu allora che cominciai veramente a volerle bene: mi inteneriva quel suo modo fiero di tenere testa alla sventura, di non avvilirsi e di tentare perfino di farci le feste quando al mattino entravamo in cucina.

    Dopo un mese abbondante, quando non sapevamo più che pesci pigliare, una mattina Guenda sfornò una specie di tagliatelle fatte in casa, i cosiddetti vermi. Un parto disgustoso e risolutivo. Venni a sapere da MioM che il vermifugo le era stato dato da lui, dopo che gli era venuto il sospetto che la sverminazione garantita dal venditore era stata evidentemente una balla. Una balla si rivelò anche la provenienza geografica di Guenda, al momento in cui pretendemmo il suo pèdigrée. All’atto dell’acquisto era stato previsto un periodo di attesa per i documenti, quantificato all’incirca in qualche mese. Dopo un anno e un crescendo di solleciti, diffide e minacce di denunce, il documento arrivò a certificare che Guenda – spacciata per italiana e nata in un allevamento familiare – era in realtà un’ex clandestina ungherese nata chissà dove, battezzata originariamente Carolina, e che i suoi antenati portavano nomi minacciosi come Dracula e Lucifero.

    Nel primo periodo di permanenza a casa nostra c’era stata una totale simbiosi tra Guenda e MioM, un po’ per la malattia di lei e un po’ per le mie quotidiane assenze lavorative (lui era già andato in pensione).

    Quando tornavo, verso le sei del pomeriggio, li trovavo spesso sul divano del salotto, lui sdraiato con un libro aperto in mano e una massa informe spalmata sulla pancia, come una borsa dell’acqua calda con le zampe. Lei non si muoveva, mi seguiva soltanto con la coda dell’occhio: ma che occhio! Un faro perforante, un bottone di brace nera, uno sguardo da Gioconda di Leonardo. Mi sentivo quasi in imbarazzo; in fondo è solo un cucciolo, mi dicevo, ma uscivo veloce dalla stanza per evitare quell’occhio scrutatore.

    Quando scendeva dalla pancia, in casa aveva cominciato a fare la bulla. Aveva un modo tutto suo di passare in rassegna le stanze da cima a fondo, fiutando le cose nuove e voltandosi a guardarci con aria interrogativa, se il giorno prima non si trovavano già lì. Una specie d’ispezione continua del territorio, certe volte anche un po’ snervante, accompagnata da suoni di vario genere: un grugnito modulato per significare approvazione o piacere, un sospiro per indicare una pausa nelle sue molteplici attività, un abbaiare stizzoso se non riusciva a raggiungere qualcosa fuori della sua portata.

    Sapevamo sempre in che stanza trovarla: il silenzio è una caratteristica sconosciuta ai bulldog, che vivono in un continuo borbottìo; ci ho messo mesi per capire che i suoi miagolii dolorosi non indicavano un atroce mal di pancia, bensì una profonda noia esistenziale che richiedeva un immediato intervento per vivacizzare la situazione. Non bisogna farsi fuorviare neppure dagli atteggiamenti tristi e pensierosi: quando un bulldog china la testa e sospira, probabilmente pensa a cosa mangerà a cena o a come fregarti il posto sulla poltrona.

    Un altro aspetto di questi cani – che non corrisponde a quello fisico – è la rapidità di reazione, specialmente nelle operazioni più trasgressive: rubare qualcosa e scappare con la velocità della luce, per esempio, è qualcosa che non ti aspetti da una massa tondeggiante e caracollante. Infatti ci ha sempre spiazzati, perché unisce scatti da centometrista a un’astuzia orientale nel mostrare assoluto disinteresse per l’oggetto del desiderio.

    Continuiamo a cascarci come pere cotte: lei guarda altrove, sbadiglia, socchiude gli occhi, immobile come un iguana: e poi, in una frazione di secondo afferra la scarpa, il calzino, la spazzola o qualsiasi altra cosa la interessi e comincia un sabba infernale intorno al tavolo della sala da pranzo, che comprende anche dei meravigliosi scarti laterali se sta per essere agguantata.

    Si permette anche di essere magnanima, la ladra: se ti vede distrutto e vinto, alla fine si degna di mollare il maltolto ai tuoi piedi, ma senza infierire. Semplicemente si gira e se ne va, dondolando quel suo sedere espressivo in un leggero trotterellìo di commiato.

    Come ho detto, avevo deciso di non essere coinvolta nell’educazione di Guenda, ma ciò non toglie che – almeno nei giorni festivi e nelle uscite serali – osservassi esterrefatta gli sviluppi della vicenda.

    A parte il fatto che in un libro sulle razze canine – acquistato ovviamente troppo tardi – i bulldog inglesi erano definiti sadicamente inaddestrabili, il nostro esemplare aveva decisamente delle risorse aggiuntive per confermare ogni giorno la sua assoluta anarchia.

    Il rapporto con il guinzaglio è stato un’esperienza notevole fin dall’inizio: il cane se lo lasciava mettere, sembrava accettarlo docilmente e usciva dalla porta di casa come un qualsiasi cane normale. Ma al primo accenno di tensione della corda puntava le quattro zampe e contemporaneamente fissava con sfida minacciosa il poveretto che reggeva l’altra estremità. Anche un cucciolo è inamovibile, se ha quattro ruote motrici. Se poi ha un posteriore più pesante dell’avantreno, il discorso è chiuso, a meno di non trascinarlo in un’umiliante prova di sci nautico.

    Noi abitiamo in piazza, letteralmente e in senso figurato. Da un lato c’è il tribunale, dall’altro la sede locale della rai e dal terzo lato un liceo-ginnasio e il nostro bar preferito. Quindi, un microcosmo frequentatissimo dalla più varia umanità.

    I duelli quotidiani all’ultimo sangue tra MioM e Guenda non erano passati certo inosservati; anzi, ben presto erano diventati motivo di sollazzo per i passanti e per i frequentatori del bar.

    Lui aveva deciso di farla cedere per sfinimento, e si piantava con aria indifferente nel punto in cui lei si era bloccata. Entrambi si guardavano intorno, ignorandosi a vicenda; lei si sedeva con esasperante lentezza e lì rimanevano, come statue di sale, anche per dieci minuti buoni: sole, pioggia, bora a cento chilometri all’ora, niente cambiava il rito quotidiano. A un certo punto, improvvisamente Guenda decideva che i bisogni fisiologici avevano il sopravvento, e si avviava verso il prato.

    Durante questa manfrina rituale, alle volte a MioM saltavano i nervi, per cui si chinava e le parlava minacciandola con un dito – immagino non si trattasse di versetti francescani – e anche questa era una scenetta esilarante. Lei lo guardava compunta, sembrava quasi annuire pentita, ma poi gli spalancava la bocca in faccia in un enorme sbadiglio. A peggiorare la faccenda c’era la tifoseria: alcuni habitué del bar alimentavano l’autostima di Guenda, complimentandosi con lei mentre MioM la stava strapazzando sottovoce. Il che creava un contesto altamente diseducativo, anche se sospetto che Guenda non avesse alcun bisogno di sostenitori per essere convinta delle sue ragioni.

    * * *

    Come Picasso attraversò il periodo rosa e il periodo blu, il nostro cane si appassionò in un primo tempo al legno, liscio o lavorato, e successivamente al cemento e alla muratura in genere. Nel periodo in cui metteva i denti, rosicchiava artisticamente qualsiasi oggetto in legno massiccio le capitasse a tiro (compensato e impiallacciature non erano sufficientemente degni di nota).

    Cominciò con gli angoli delle porte e lo zoccolo dei battiscopa, del quale apprezzava soprattutto lo strato di colla sottostante. Non vorrei passare per visionaria, ma niente mi toglie dalla testa che

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