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E-book237 pagine3 ore

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Un giorno alcune parole hanno cominciato a guizzarmi in testa come trote. Facevano di tutto per attirare la mia attenzione, gridavano: “Sono qui, prestami ascolto!”. Ho preso allora a interrogarle una per una, a partire da quelle che iniziavano con la lettera A. Ciascuna di esse rappresenta un pianeta a sé, ha per satellite un'associazione mentale, è ghiotta di ricordi, genera minuscoli componimenti poetici che ne racchiudono l'essenza.
Sei brevi racconti e sessantasei voci, attraverso i quali scorrono una vita (la mia) e un'epoca che già appare molto, molto lontana.
LinguaItaliano
Data di uscita25 apr 2018
ISBN9788833280844
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    Anteprima del libro

    Parole presenti - Adriana Libretti

    twist.

    Acquerello

    Comincio da qui, mentre le setole del pennello mi solleticano ancora i polpastrelli.

    Dipingere con l’acqua è una goduria. Spostare il colore, diluirlo quanto si vuole per renderlo più trasparente; usare il pigmento prescelto quasi puro, se invece si desidera una tonalità più intensa. O ancora bagnare prima il foglio, lasciare che il colore, entrando in contatto con la carta umida, riveli forme sorprendenti. I pigmenti, temperati con gomma arabica, hanno spesso l’aspetto di pastiglie, tanto che a volte vengo colta dalla tentazione di succhiarli. Ma anche di strofinarli sui denti, se invece sono chiusi in tubetti da spremere come pasta dentifricia.

    Di rossi ce ne sono parecchi, così come di verdi, di gialli e di blu, però scegliere la sfumatura esatta attraverso il rimescolamento dei colori primari dà una soddisfazione molto maggiore. Mentre lo stendo sul foglio, penso solo al colore. Prepararlo, vederlo dilagare, accompagnarlo verso l’alto o il basso, assorbirne l’acqua in eccesso con lo straccio, alleggerirlo e appesantirlo, mi fa bene. Mi dà gioia.

    Acquerella era il nome di una barca a vela su cui feci un viaggio, un’estate di tantissimi anni fa. Fu chiamata così dal proprietario per via della passione che condivideva con il resto dell’equipaggio. Raggiungemmo Capraia e l’Elba partendo da Marina di Pisa, a bordo eravamo in sei. Il mare forniva acqua salata a volontà per acquarellare cieli e spiriti, sia tempestosi sia quieti. Su Acquerella avvennero aspri diverbi e altri eventi poco gradevoli, che però andarono in fretta stemperandosi, fino a non lasciare quasi traccia. Una notte, nella rada di Portoferraio, il mare s’incapricciò con la complicità del vento. Fummo costretti a scendere a terra e a passarla in bianco, nell’attesa che la buriana si placasse. Le barche cozzavano tra loro, si accatastavano; il pericolo che si danneggiassero a vicenda era concreto. Con noi c’era anche un bambino, dovevamo evitargli qualsiasi rischio. Scesi sulla banchina camminammo per il paese, finché, in un angolo riparato, sotto una pensilina, trovammo un paio di panchine. Dalla barca avevamo preso il necessario per trascorrere tutti insieme quelle lunghe ore senza essere divorati dall’ansia. Si acquerellò sottovoce, nel buio, fino all’alba, mentre il bimbo dormiva su un materassino di gomma, chiuso nel sacco a pelo. Si acquerellò allo sfinimento, come se un raptus ci avesse contagiati tutti, su fogli di pesante cartoncino a prova di vento, fermati comunque dalle pietre; si consumarono in un lampo tutte le pastiglie. La luna se la rideva tra le nubi.

    Acquerella navigò anni dopo sul Po. Arrivò fino a Chioggia, dove concluse la sua carriera natatoria prima del guasto che ne causò la vendita. In una trattoria del centro storico, per consolarci della perdita, facemmo una scorpacciata di linguine alle cicale di mare, scolando vino bianco. Nel pomeriggio, in una specie di ritrovo per marinai, su tavolacci di legno tarlato, dipingemmo la laguna e le isole, le secche, i pesci di acqua dolce e salata, i filamenti delle alghe, i sassi levigati; tutto quello che grazie alla navigazione su Acquerella avevamo potuto osservare da vicino. Gli autoritratti in grigio, che in città eseguimmo una sera, al ritorno, seduti davanti allo specchio, rispecchiano le nostre acque interiori, i canali delle nostre segrete rughe. Dipingere in gruppo è un’esperienza unica e accomuna più di tanti discorsi.

    Acquerellare è verbo (ehi, non prendetemi sul serio!) che si compone della parola acqua e del verbo rollare (poiché rellare non esiste), come il rollìo della nave sulle onde. Riempio d’acqua una specie di piccola acquasantiera portatile e la mia preghiera inizia appena intingo il pennello. Acquerellando mi è capitato di tutto, perfino di piangere.

    Rain and watercolours.

    GUAZZO DI MARZO

    VOGLIO ASCIUGARTI AL SOLE

    UMIDA CARTA.

    ACQUERELLO PIGMENTO

    CHE LASCIA TRASPARIRE.

    Arabesco

    In Italia la linea più breve tra due punti è l’arabesco. Così scrive Ennio Flaiano. Perché l’italiano, nell’accezione di nativo d’Italia, è complicato e contraddittorio per natura, si sa. Se vuole viaggiare, per esempio, spesso predilige paesi dai tetti ricurvi, ma raramente chiede spiegazioni sulla loro origine o sui canoni estetici che ne hanno determinato la foggia; la cultura orientale gli risulta, il più delle volte, abbastanza incomprensibile. L’italiano vero subisce la fascinazione dell’altrove, e più l’altrove si mostra indecifrabile, più ne viene ammaliato, sempre che detto altrove non lo invada. E anche sul fenomeno dell’ammaliamento ci sarebbe da dire.

    La malìa, com’è noto, può produrre abbagli. Gli umani, in generale, s’invaghiscono di sciocche persone, sciocche cose, sciocchi discorsi. Di questioni inutili persino all’esercizio retorico. Pertanto si consumano ore dissertando sul nulla, ma non alla maniera zen. Le parole vengono mitragliate nell’aria a profusione, per svanire all’istante, non prima, però, di avere liberato particelle altamente inquinanti.

    Per tornare però al titolo di cui sopra, e cioè all’arabesco, non nascondo di venirne ammaliata anch’io. I caratteri arabi, così armoniosamente arricciolati, sono di rara bellezza, quanto i ghirigori e le figure geometriche dalle linee intersecate che abbelliscono arazzi, porcellane, moschee, antichi palazzi. Meravigliosi i canti nei quali la modulazione della voce crea vorticose onde sonore, il gorgheggio sapiente tra alti e bassi, il viluppo di sfumature tonali. Gli arabeggianti virtuosismi musicali risultano a volte davvero incantevoli, tanto da sembrare di origine arcana.

    Ho di recente assistito dal vivo a un concerto sufi. Il sufismo è la corrente più mistica dell’Islam, quella che più si preoccupa di accompagnare ogni fedele in un approfondito percorso di ricerca interiore. Il concerto è stato piacevolissimo; al canto e alla musica, eseguita con strumenti tradizionali, si è aggiunta la presenza di un derviscio rotante che ha creato attorno a sé una moltitudine di cerchi, di cui l’alto copricapo indossato rappresentava il centro. Non si trattava di arabeschi disegnati nell’aria, dunque, ma di figure geometriche molto più semplici, come quelle create da un sasso lanciato nell’acqua.

    Quando ci si riferisce a ragionamenti, programmi, azioni, all’arabesco preferisco il cerchio. Forse però si tratta solo di una questione legata alla mia educazione e al mio gusto personale.

    ARABESCATA

    NEI MARGINI LA NUBE

    NON L’ORIZZONTE.

    Armadio

    È stato inventato secoli addietro, l’armadio. In origine si trattava, pare, di una nicchia scavata nella roccia, di un incavo murale, di una rientranza naturale. Già i Romani, come si può facilmente intuire dalla parola armarium, vi riponevano per l’appunto le armi e altri oggetti di svariata natura.

    Nel corso del tempo l’armadio ha subìto molti cambiamenti, specie nella foggia, giacché si è sempre conformato agli stili e ai gusti delle epoche e dei luoghi in cui veniva prodotto. Adesso l’armadio campeggia ovunque: nelle biblioteche, nelle scuole, negli studi professionali, negli ospedali. Oserei dire che è davvero cosa rara trovare spazi che al loro interno non ospitino almeno qualche genere d’armadiatura.

    Il mobile in questione può essere minuscolo, enorme, a una sola anta, a due, a tre e più; avere altezza variabile, ripiani, cassetti, appenderie; la sua superficie può apparire decorata, intagliata, liscia; essere dotato di specchiera interna o esterna; ricavato da essenze pregiate; in massello, impiallacciato, laminato, plastificato. Può anche dirsi a muro e tentare di mimetizzarsi con le pareti come un camaleonte, oppure farsi stanza a sé, superficie calpestabile chiusa da una porta: in tal caso si parla di cabina-armadio.

    Nel corso della vita, di armadi ne ho cambiati parecchi. Ne ho posseduti di diversa forma e dimensione; il mio armadio, da ragazza, era di rovere laccato in rosa salmone, a quattro ante, due superiori e due inferiori. Arrivava fino al soffitto e si poteva chiudere a chiave. L’aveva disegnato mio padre, che negli anni sessanta aveva aperto un negozio d’arredamento in via Manzoni, a Milano, dove vendeva mobili di sua ideazione, realizzati da abili artigiani.

    Ho veduto armadi stipati all’inverosimile, ho assistito al loro smontaggio e rimontaggio, al loro svuotamento, la qual cosa mi ha sempre lasciata un po’ smarrita, direi vagamente pensosa. A volte il loro interiore disordine ha prodotto in me puro sgomento; quella stessa sensazione è nata anche davanti a un ordine meticoloso, perfetto, dove tutto appariva piegato e collocato in posizione strategica, in assoluto la migliore. Quasi esistesse davvero un’indubbia ragione, un’imprescindibile verità metafisica. Davanti a tale credenza mi faccio sospettosa e inquieta. A ogni modo, una buona dose d’inquietudine deve essermi congenita.

    Gli armadi vanno e vengono, la rotazione degli abiti da sopra a sotto e viceversa sembra segnare ogni anno una sorta di rito di passaggio. Un armadio è spesso depositario di segreti; questa funzione è già riscontrabile nel nome del cosiddetto sécretaire, piccolo armadio dotato di ante, cassettini e piano ribaltabile, studiato apposta per fungere anche da scrittoio.

    Anni addietro il mio sécretaire fu oggetto di aspra contesa. Lo consideravo miissimo, era stato regalato a me; l’avevo riempito di tante care cose accumulatesi nel corso del tempo, che finalmente avevano trovato degna collocazione. Non c’erano scheletri al suo interno, al massimo qualche bigliettino galante, qualche lettera un poco velleitaria, molti copioni teatrali, fotografie di scena e l’album dei ricordi scritto a penna da mia madre per documentare la mia nascita e i miei primi anni di vita.

    Accadde dunque, un giorno, che il mio compagno di allora manifestasse l’intenzione di depositare, proprio all’interno di quel sécretaire, alcuni suoi documenti. Gli negai l’accesso, difesi con i denti il mio piccolo spazio di legno. Fu il tracollo, la goccia che fece traboccare il vaso. Alla fine del litigio ci lasciammo. Lui avrebbe desiderato mettere in comune tutto, tra di noi: parole, abiti, estati, inverni. Io avrei desiderato continuare ad accompagnarmi al suo passo, mantenendo però integre identità e autonomia. A volte ancora ci rifletto: quell’uomo pareva determinato in modo ossessivo a riempire ogni pertugio, ogni fessura, ogni vuoto e devo ammettere che non si tratta nemmeno di un desiderio tra i più infami. In teoria. In pratica sì, quanto meno per me. Rischiavo di morire soffocata, seppure vittima di una gragnola di baci. Un abbraccio troppo serrato mozza il respiro.

    Altro armadio importante fu quello ereditato dai nonni, a tre ante, due laterali piccole e una centrale, a specchiera. Impiallacciato in radica, con otto piedini, un grande cassetto centrale esterno sotto all’anta a specchio, il profilo superiore ondulato, che dalla sommità centrale andava digradando ai lati. Non conosco la sua precisa datazione, ma credo risalisse alla prima metà del novecento. Mi è sempre piaciuto. Non mi sarei mai privata di quell’armadio - pensavo portandomelo a casa. Finché un caro amico mi spiegò che gli specchi non vanno posizionati in camera da letto. Secondo il Feng Shui, l’immagine riflessa s’insinua minacciosa tra gli amanti; inoltre, è meglio che l’anima non si veda mai specchiata durante i suoi vagabondaggi notturni; o ancora, lo specchio devia l’energia di chi dorme nelle vicinanze. In verità non furono queste le ragioni che mi spinsero a smontare l’armadio dei nonni; dopo la morte di mia madre arrivò inaspettata una splendida cassettiera di noce a reclamare quella collocazione. Così l’armadio dei nonni finì in soffitta, dove ancora si trova ad accogliere gli abiti dismessi.

    È grande come un armadio, si suole dire di persone dalla mole imponente. Beh, io un amico del genere ce l’ho. Il gigante e la bambina, ci chiamano gli altri quando ci vedono insieme. E insieme abbiamo spesso recitato. Recitare, in inglese, si dice to play, ossia giocare, se si traduce il verbo alla lettera. Lo so, molti ci considerano dei privilegiati bighelloni, degli eterni bambini: siamo attori. Giochiamo, non lo nego. Lo facciamo per lavoro con la massima concentrazione, ci alleniamo a lungo per cercare di mostrare, come sotto una specie di lente d’ingrandimento, brandelli di realtà al pubblico, la qual cosa ci pare tutt’altro che riprovevole.

    MANICHEO ARMADIO

    IN DUE DIVIDI IL MONDO

    INVERNO ESTATE.

    P.s.:

    Esistono anche gli armadi quattro stagioni ma in questo haiku mi sono presa una licenza poetica. Tanto ormai le mezze stagioni non esistono più!

    Bacio

    Sembrerebbe facile buttare giù poche righe intorno alla parola bacio. In realtà non lo è affatto, proprio come non lo è cuocere alla perfezione un uovo al tegamino.

    Sul bacio, la sua specificità, la sua diffusione e origine, rimando alle pagine di prestigiose enciclopedie consultabili anche in rete. Mi limiterò a farne un breve sunto, per pigri e renitenti al web.

    Il bacio è un’azione di altissimo valore simbolico, attraverso la quale si manifesta amore, rispetto, devozione, asservimento. Sull’intero pianeta (e forse perfino su altri, per quanto ne sappiamo) si usa baciare persone e oggetti sacri, seppure con modalità differenti a seconda del luogo e della sua posizione sul globo terracqueo. C’è il bacio dato premendo con le labbra su varie parti di un corpo o di una cosa, il bacio labiale, e quello cosiddetto olfattivo, che si dà col naso, quasi ad aspirare l’odore, il fiato, l’anima dell’altra persona. I Romani chiamavano il bacio con nomi differenti a seconda della sua natura. Osculum era quello tra amici, basium quello d’affetto, suavium il bacio tra innamorati.

    Ai giorni nostri esiste perfino una scienza che studia il bacio: la filematologia. Tra le altre cose, essa asserisce che il bacio, prima di una eventuale gravidanza, è utile alla baciante perché favorisce uno scambio di germi, permettendo così alla futura madre di produrre per tempo gli anticorpi che andranno a proteggere il nascituro da molte malattie.

    Ma al di là di questi brevi cenni storici e delle ricostruzioni antropologiche in merito, che cosa rappresenta, che cos’è oggi, nel mondo globalizzato al quale apparteniamo, un bacio d’amore? Se ne potrebbero trovare delle definizioni anche solo scartando cioccolatini, però la cosa mi pare insufficiente. Ci si potrebbe chiedere che cos’è l’amore, ma sull’argomento, pur esistendo una mole enorme di saggi e trattati, si continua ad annaspare nel buio. Le emozioni sfuggono al dominio della ragione e di conseguenza anche alle definizioni, bisogna arrendersi.

    Parto dunque da un’approfondita indagine su di me, in assoluto il soggetto che ho più spesso sottomano. Recentemente mi sono accorta di trattenere i baci. Non quelli materni, bensì, a volte, quelli amichevoli, più spesso ancora quelli che sarei spinta a dare alla persona da cui sono attratta. C’è da domandarsi dove risieda la causa della sindrome baciofobica da cui sono affetta. Non so se possa essere considerata una patologia grave, né se esista un qualche rimedio per farla regredire. Fatto sta che davanti a persone poco espansive, di temperamento alquanto algido, prontamente mi adeguo e inibisco il mio impulso a baciare. Ciò produce in me, e forse in tutti i soggetti baciofobici, un’acuta sensazione d’impotenza e, a volte, perfino uno smaccato senso di colpa, ma qui s’impone una digressione, un piccolo volo pindarico, per mettere un po’ meglio a fuoco il concetto di paura.

    Delle paure umane si potrebbe compilare un interminabile catalogo: la paura è multiforme e abbraccia tutta quanta la nostra specie. Anche gli animali la provano, ma non sono in grado d’inventarsi paure, o di proiettare le proprie su altri, come invece fanno gli umani. Infatti, persino un che di ipotetico e fumoso può generare paura negli uomini. La paura del futuro è attualmente una di quelle più diffuse. Paura di perdere il lavoro, l’amore, la ricchezza, la salute. E con la paura del futuro cresce l’angoscia, che allontana ciascuno di noi dagli altri. È un’angoscia che genera metastasi, si ripresenta senza cause specifiche, diventa paura di vivere allo stato puro. Paura e angoscia sono collegate in maniera indissolubile, dominate dalla certezza della morte, la Signora con la falce pronta a vanificare ogni ambizione, ‘A livella. Su paura e angoscia hanno scritto e dissertato, tra gli altri, i filosofi Søren Kierkegaard e Martin Heidegger.

    Al mondo, è esistito perfino chi di paura è morto.

    Ma è possibile dominarla, annientarla? È auspicabile che le persone si liberino dalle emozioni, dalle passioni, che aspirino a esserne immuni?

    Chi si entusiasma, così come chi s’innamora, affronta dei rischi; è facile preda della delusione e della sofferenza, eppure, rinunciare alle emozioni significherebbe essere incompleti. La ragione non può prevalere sempre e comunque. Senza arrivare ad affermare, con David Hume, che: la ragione è, e può solo essere, schiava delle passioni(D. Hume, Trattato sulla

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