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Granelli di sabbia
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E-book393 pagine5 ore

Granelli di sabbia

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Info su questo ebook

La parola “sabbia” non mi era mai parsa così affascinante come in quel momento: non erano solo minuscoli granelli colorati, erano impronte, memoria, storie di paesi lontani che probabilmente non avrei mai visitato.
E’ proprio attorno alla sabbia che si snoda il caso che impegna l’Ispettore Luca Veloso, il Tenente Camilla Dell’Angelo e gli altri uomini della squadra in una serrata lotta contro il tempo, per proteggere le ragazze che calcano le passerelle dell’alta moda dalla mano assassina di un serial killer.
L’obiettivo sarà scoprire chi si cela dietro agli omicidi delle modelle, e per farlo gli investigatori si ritroveranno ad attraversare la Penisola, ricorrendo a soluzioni non sempre conformi ai metodi canonici della scienza investigativa.
Se per i ragazzi della squadra l’indagine è un compito da eseguire al meglio, per Luca rappresenta un ritorno al passato, che riemerge minaccioso con prepotente crudeltà.
L’Ispettore dovrà fare i conti con vecchie paure relegate ai confini della coscienza, che riporteranno sulla scena incubi sopiti nel tempo.
Una storia di omicidi che avvince fino all’ultima pagina, lasciando la sensazione che qualcosa debba ancora accadere.
Forse la storia non è finita.
LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2014
ISBN9786050311143
Granelli di sabbia

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    Anteprima del libro

    Granelli di sabbia - Andrea Gerosa

    Prologo

    Era impossibile farci l’abitudine, la scena di un delitto mi turbava ogni volta.

    Ispettore, venga a vedere! Ehi tu attento, spostati da qui. Ragazzi allontanatevi.

    Che c’è ? chiesi rivolto a Giovanni, di sicuro il migliore tra i miei uomini.

    Guardi qui, c’è qualcosa che sporge appena dalla bocca, sembrerebbe un oggetto di plastica!

    Giovanni era inginocchiato ai piedi del cadavere di una bellissima ragazza; età compresa tra i venticinque e i trent’anni, biondi capelli lunghi e un fisico da modella. Il corpo era disteso sul marmo freddo davanti alla fontana posta al centro della piazza, dove fino a qualche ora prima c’erano solo bambini che correvano e turisti che si gustavano una bevanda fresca.

    Piazza Erbe, il centro vitale della città, uno straordinario concentrato di architetture che testimoniano il divenire della storia, era stata anch’essa ferita e imbruttita dall’irruenza della Polizia che ne calpestava il suolo e dalle luci accese delle sirene, che si erano sovrapposte al chiaro di luna. Il crimine aveva sfigurato la stessa bellezza della statua di Madonna Verona posta al centro della fontana, che dominava su di noi, con la sua testa medievale e il corpo romano di una dea pagana, costretta ad assistere impotente a quanto avveniva attorno a lei; l’assassino aveva infierito su un corpo di una donna che a sua volta ne aveva deturpato un altro.

    Abbandonai quei pensieri e mi avvicinai a Giovanni, affiancandomi a lui per vedere cosa voleva mostrarmi, con la sensazione che ciò che avrei visto avrebbe turbato a lungo le mie notti.

    Hai chiamato la Scientifica?

    Sì, hanno già incaricato qualcuno.

    Qui ci vorrebbe il dottor De Caroli, speriamo mandino lui. Comunque nel frattempo nessuno deve toccare niente. Né il corpo, né tantomeno la bocca.

    Bella bocca, vero Ispettore?

    Già, gran bella bocca… e non solo quella.

    Mentre pronunciavo quelle parole, riconobbi l’amico Fabrizio a bordo dell’auto che si stava fermando dietro di noi, autorizzata ad avvicinarsi dagli agenti che delimitavano la scena del crimine.

    Fabrizio De Caroli era sicuramente uno dei migliori anatomopatologi in circolazione, oltre che un grande amico. Mi aveva affiancato in molteplici occasioni nel corso d’indagini per reati di omicidio, quando la medicina legale doveva dare il meglio di sé.

    Scese dall’auto con l'espressione indignata che esibisce sempre quando sa di trovarsi a tu per tu con l’ennesimo corpo da scrutare, tagliare e sezionare. Da quel momento ne avrebbe indagato organi e tessuti con tutti gli apporti possibili che gli avrebbero fornito la scienza e la sua passione per la professione. Per quel mestiere che esercitava con perizia da sempre, malgrado tutto ciò che i suoi occhi avevano visto.

    Ci salutammo con un abbraccio, quindi si avvicinò al cadavere e dopo pochi minuti fu già in grado di riferirmi ciò che pensava.

    Questa donna è stata ferita più volte con un coltello molto tagliente, forse un bisturi e quindi strangolata con un filo sottile. Il tutto è avvenuto certamente lontano da qui, in un altro luogo; il corpo dev’essere stato portato in seguito sul posto.

    E di quello che ha in bocca che mi dici?"

    Vuoi che guardi ora? Sarebbe meglio esaminare il corpo in ospedale, con calma.

    Sì, conosco le regole, ma preferirei sapere subito di cosa si tratta. Potrebbe essere un elemento importante.

    Mi rendevo conto di forzare la procedura, ma Fabrizio conosceva la mia testardaggine e del resto sapevo che non mi avrebbe detto di no; anche lui non aveva voglia di aspettare per scoprire cosa c’era in quella bocca.

    Prese un attrezzo dalla sua borsa e, molto lentamente cercò di abbassare la mandibola della ragazza per facilitare l’estrazione di quello che, a prima vista, sembrava un involucro di plastica. Mentre con una mano teneva aperta la bocca, con l’altra recuperò l’oggetto conficcato nel palato. In effetti, si trattava proprio di un banale sacchettino di plastica trasparente ma, dal movimento delle sue dita che ne comprimevano la superficie, intuii che dentro doveva esserci qualcosa di morbido.

    Sabbia!

    Tanta sabbia quanta una bocca riusciva a contenerne, ma non solo: ciò che l’omicida aveva in mente si stava rivelando.

    Fabrizio recuperò tra la sabbia un pezzetto di carta; un biglietto piegato a metà, con lettere incise con una macchina da scrivere. Ascoltai ciò che c’era scritto, mentre la mia mente correva già a quindici anni prima.

    Sono tornato Luca

    Il Maestro

    Io

    Dopo aver assistito ai rilievi della Scientifica e coordinato gli agenti cui era stato assegnato il compito di verificare se ci fossero testimoni oculari, potevo concedermi una tregua. Nonostante l’insistenza dei miei collaboratori, Fabrizio in primis, che volevano starmi vicino dopo aver compreso la provenienza del biglietto, dovevo staccare un attimo. Li salutai e decisi di tornare a casa a piedi; in qualche modo avrei poi recuperato la mia auto, ancora ferma nel parcheggio della Questura.

    Alle cinque del mattino Verona, silenziosa e deserta, era ancora più bella di quanto fosse durante il giorno. I colori dell'alba ne esaltavano il fascino antico e romantico; sembrava che i palazzi mi osservassero dall’alto cercando di comunicarmi qualcosa, quasi le mura antiche volessero darmi conforto e forza. Malgrado ciò che avevo appena visto, la sentivo come una città tranquilla e serena; un luogo a dimensione d’uomo, nel quale avrei potuto far crescere un figlio, se mai ne avessi avuto uno. Era lo stesso pensiero che avevo fatto quando mi ero trasferito dopo aver lasciato Milano, la grande metropoli che mi aveva inghiottito nell’abisso. Verona, mi dissi all’epoca, mi avrebbe aiutato a ritrovare me stesso.

    Nel mio appartamento sulle Torricelle, ricavato dalla ristrutturazione di un vecchio deposito di attrezzi agricoli, regnava un silenzio assoluto e non circolava un filo d’aria; aprii la porta che dava sulla terrazza, ritrovandomi davanti al profilo della città che sembrava attendermi, quasi fosse il corpo di una donna disteso sul mio letto. Mi rifugiai sotto la doccia, lasciando che il getto dell’acqua avesse effetto, togliendomi un po’ di tensione.

    Quel messaggio indirizzato personalmente a me da parte dell’assassino, diede una scossa all’indagine, diventata oggetto di particolare attenzione nel momento in cui avevamo saputo che la vittima era la figlia di un noto magistrato veronese. Una ragazza che faceva la modella, sempre in giro per il mondo, partita da Parigi cinque giorni prima, dove aveva festeggiato il ventisettesimo compleanno, per passare qualche giorno con i familiari. Questi erano già stati interrogati e avevano riferito che Vanessa, così si chiamava, era solita cambiare programmi all’ultimo momento, tanto che loro non si erano preoccupati del ritardo. I genitori avevano raccontato che gli stilisti con i quali aveva lavorato, sia italiani che francesi, la adoravano e la viziavano. Vanessa stava vivendo un momento magico; un impegno professionale straordinario, appagato da grandi riconoscimenti che le prospettavano immense soddisfazioni, contornate di lusso e ricchezza.

    Uscito dalla doccia, mi fermai davanti allo specchio a tutta parete del bagno a guardare il mio viso. Due occhi stanchi mi ritornavano scene già vissute. I capelli una volta color biondo cenere, così mi disse il mio amico barbiere Raffaele, ora cominciavano a tendere al bianco e anche il corpo portava i segni di una vita passata sempre in prima linea contro il crimine. Sul viso, a lato dell’occhio destro, s’intravedeva una piccola cicatrice, una specie di virgola, in ricordo di uno scontro con un balordo che avevo arrestato.

    Anche la spalla sinistra esibiva il suo trofeo, ma in quel caso la cicatrice a forma di L, era opera di una donna; una ragazza russa, assoldata da una gang di compatrioti per preparare una serie di furti nelle gioiellerie del capoluogo lombardo. Durante una rapina la ragazza ebbe la brillante idea di mettersi a sparare e uno dei proiettili oltrepassò la mia spalla, lasciandomi un souvenir della giornata. Non badavo più a quei segni sul corpo, se non quand’era qualcun altro a farmeli notare, e quando si trattava di una donna, la cosa poteva avere sviluppi piacevoli.

    Appena vedevano la cicatrice accanto all’occhio, si facevano particolarmente tenere e premurose. Ma per le dita che accarezzavano il viso, la strada verso la mia bocca non era poi così lunga e quando mi trovavo davanti una di quelle donne che non volevo lasciarmi sfuggire, ero abile nello scostare il palmo della mano dal volto e attirarlo alle mie labbra per scoccare un bacio, che spesso diveniva il primo di una lunga serie. Non era comunque quello il momento di soffermarmi sulle mie conquiste, né tanto meno sulle cicatrici che segnavano il mio corpo, mentre avevo ancora davanti agli occhi quello straziato di Vanessa.

    Tornai sulla terrazza e sorseggiai un caffè, pronto ad affrontare la riunione con i miei superiori e il successivo incontro con la Stampa. Dovevo farmi vedere determinato e pronto a tutto, pur di avere la responsabilità di quell’indagine.

    Sapevo che non sarebbe stato facile; in molti avrebbero fatto sentire la propria voce per tagliarmi fuori ed escludermi completamente da quella trama investigativa incardinata sul mio nome. Mi sembrava già di sentirle le voci di corridoio sulle imprecazioni del Questore e del suo vice, nonchè mio capo, Roberto Valfracca. Quel maledetto figlio di puttana non aveva altri nomi da scrivere su quel cazzo di biglietto?! Quello psicopatico non poteva mettersi a giocare a guardie e ladri con i suoi amici d’infanzia, anziché con Veloso?!

    Il dottor Valfracca, con quei capelli sempre unti e il solito completo gessato che indossava anche nelle più calde giornate d'estate, era un burocrate prestato agli intrecci della politica; il suo ufficio era il tempio degli accordi sottobanco e delle intese tacite, nulla che avesse a che fare con l’azione sul campo. I problemi del Commissariato, il fatto che ci fossero pochissimi agenti e scarsissime risorse di attrezzature e supporti logistici, per lui erano solo tediosi argomenti di conversazione, di cui rimandava all’infinito la soluzione, salvo delegarne talvolta la questione a qualche agente desideroso di entrare nelle sue grazie. Il Ministero non navigava nell’oro e le difficoltà nei conti erano il suo pretesto principale per limitare l’impegno al minimo indispensabile e non dover presentare, alla fine dell’anno, un bilancio in disavanzo.

    Valfracca si sarebbe meritato un impiego in banca, o nel ramo delle assicurazioni, ma di certo non il ruolo che ricopriva nella Sezione Omicidi che si era conquistato sfruttando al massimo la raccomandazione di un politico influente. Era del tutto estraneo alle logiche ispettive, ignaro della psicologia criminale e se anche avesse avuto nella sua squadra il migliore Ispettore, il fatto di doverlo assecondare più degli altri nelle richieste di supporto investigativo, l’avrebbe indotto di certo a liberarsene per non dover presentare un rendiconto negativo.

    Ispettore Veloso, lei è fuori da questo caso, troppi coinvolgimenti personali. Sapevo che avrebbe pronunciato quelle parole.

    Lo dovevo anticipare con argomenti sufficienti a convincere tutti che io ero la sola mossa possibile della partita, e che il mio coinvolgimento emotivo sarebbe stato un’arma in più per sconfiggere quel mostro tornato a trovarci. Dovevo riuscire a portare dalla mia parte altre pedine tessendo, dentro e fuori dalla Questura, una rete in mio favore prima che l’appuntamento avesse inizio; forse sarebbe bastata un’unica telefonata e tutto si sarebbe risolto, ma era la sola telefonata che non avevo nessuna voglia di fare.

    Avevo ancora la tazzina del caffè tra le mani mentre riflettevo sulla giornata che mi aspettava e su ciò che era meglio fare. Qualcosa mi tratteneva ancora lì, lontano dalla città che iniziava a svegliarsi e che mi richiamava all’azione.

    Avevo scelto quell’appartamento proprio per quella terrazza, per il suo panorama e per la pace che vi si respirava; attorno a me non c’erano che olivi, qualche albero da frutto e case basse camuffate dalla vegetazione. Il traffico era dettato per lo più solo dai movimenti dei residenti e di sera era in pratica inesistente. Il resto del mio appartamento non era niente di speciale, una piccola cucina che usavo principalmente per la colazione, un salotto, un bagno e due camere, una per il letto e l’altra utilizzata come studio.

    Di certo l’impronta dell’uomo single era inconfondibile; pochi soprammobili in giro per la casa, nessun oggetto inutile ma solo tecnologia e piacere; un grande stereo e una tv a mega schermo, collegata a un proiettore con relativo impianto, per quelle serate in cui mi concedevo un film cult con la sensazione di essere al cinema. Alle pareti un meraviglioso batik che ritraeva un sensuale profilo femminile, un quadro di pittura astratta e una serie di mensole, cariche di libri, qualche foto di famiglia e una collezione di sveglie antiche, una mia passione fin da piccolo. Quasi nulla che avesse a che fare col mio mestiere, salvo il modellino di un’auto della polizia, regalo di un vecchio compagno di Accademia.

    Lo studio invece era stipato da copie e fascicoli di casi vecchi e nuovi che facevano parte della mia storia. Ognuno di loro aveva segnato la mia vita tranne uno che, a differenza degli altri, l’aveva cambiata totalmente e per sempre.

    Era a causa di quell’inchiesta se ora, a quarantasette anni, ero Ispettore in una città di provincia; se avevo sfiorato il suicidio dopo aver risolto uno dei più clamorosi casi di serial-killer in Italia; se avevo perso ogni speranza di felicità e la mia vita privata si era ridotta a solitarie serate davanti alla TV e a qualche scopata di una notte con donne che volevano aggiungere un nuovo trofeo nel loro carnet.

    Era stato a causa di un assassino se non avevo sposato la donna della mia vita; un agente di Polizia che, testarda quanto e più di me, aveva voluto sfidarlo per indurlo in un errore che sarebbe stato fatale per lei prima ancora che per lui.

    Quell’indagine iniziò nel settembre del 1998, con l’assassinio di una modella americana a Milano, durante le sfilate dell'Alta Moda. Il corpo, ritrovato dopo dieci giorni dalla scomparsa, era coperto di ferite inferte con un coltello non per uccidere, ma al solo scopo di procurare dolore. La morte, avvenuta poche ore prima del ritrovamento, era stata provocata per strangolamento con un filo sottile, quando la ragazza non era ormai che un corpo dissanguato.

    Alla prima vittima ne erano seguite altre sei, tutte modelle, tutte ritrovate dopo almeno sette giorni dalla scomparsa e tutte con gli stessi segni sul corpo, a infierire indissolubilmente sulla bellezza, nelle sue splendide e molteplici incarnazioni.

    All'epoca feci parte della squadra investigativa; un gruppo che, per quanto con il passare dei giorni e con il crescere del numero degli omicidi, si facesse sempre più consistente, in realtà ottenne pochi risultati utili ad arginare le pressioni del Ministero, gli assalti della Stampa e le preoccupazioni dell'opinione pubblica.

    A causa degli omicidi le giornate dell'Alta Moda furono interrotte, tantissime modelle tornarono nei loro paesi d'origine o proseguirono il loro lavoro in altre località. Il danno d'immagine per la moda italiana fu enorme. Qualcuno a Roma continuava a insistere per chiamare esperti dall'estero, ritenendo che le forze di Polizia italiane si stessero dimostrando inadeguate.

    Quando sembrò che tutti i nostri sforzi non approdassero a nulla, mentre io stesso iniziavo a dubitare delle nostre capacità, la chiave di volta s’incarnò in una donna tornata dal passato; fu lei che ci portò alla soluzione dell’inchiesta, che ci condusse al Maestro, come venne in seguito ribattezzato dalla stampa, e che ritornò nella mia vita segnandola per sempre.

    La prima volta che incontrai Sara avvenne a Firenze quando io, venticinquenne e fresco di Accademia, ero al mio primo incarico e lei, ventenne, era appena entrata in servizio finita la scuola di polizia.

    Più che un incontro il nostro fu un vero e proprio scontro nei corridoi del Palazzo di Giustizia, mentre entrambi andavamo di corsa carichi di documenti da consegnare ai rispettivi superiori. Ci ritrovammo l’uno addosso all’altra, come nelle vignette delle comiche, facendo cadere documenti dappertutto e provocando l’ilarità generale di chi assisteva alla scena. M’inginocchiai per aiutarla a raccogliere e riordinare le carte e mi ritrovai a osservare i suoi occhi, desiderandoli nei miei più di qualsiasi altra cosa. Fu quello che tutti chiamano il colpo di fulmine: le nostre mani si toccarono, i corpi si sfiorarono e la scintilla scoppiò all’istante.

    Purtroppo ero già in procinto di trasferirmi a Milano, la carriera per entrambi in quel momento era una priorità e nessuno di noi due ebbe voglia di imbarcarsi in una storia a distanza, ma dopo sette anni, mentre la fiducia stava abbandonando me e l’intera squadra, me la ritrovai davanti, sorpreso e felice allo stesso tempo.

    Si presentò alla mia scrivania dicendo di aver chiesto di far parte del gruppo d'indagine sul serial killer; voleva catturare il Maestro e lavorare al mio fianco. Venne autorizzata ed era pronta a mettersi in azione.

    L’azione dovette però arrendersi alla passione, perché tra me e Sara la scintilla non si era spenta. Rivederci, toccarci, baciarci fu questione di poche ore. Quella sera stessa, dopo una veloce cena trascorsa nel ricordo di Firenze e nel racconto degli ultimi anni, eravamo già avvinghiati nel mio appartamento, stregati dall’alchimia che unì i nostri corpi in modo assoluto.

    Dopo le giornate dedicate alle indagini, il mio letto diventò il nostro rifugio; tra quelle mura il dialogo tra i nostri corpi si fece sempre più aperto e appassionato, ardendo l’uno e l’altra dal desiderio di saper donare e ricevere un piacere sempre maggiore. Nei momenti di relax facevamo congetture, ideavamo soluzioni, progettavamo ipotesi per riuscire a fermare quell'uomo che ci teneva in scacco, ma l'indagine restava in una fase di stallo.

    Per fortuna non c’erano stati più delitti, probabilmente perché il Maestro non riusciva a trovare merce di suo gradimento, come pensava Sara. Era dell’idea che una modella dovesse sfidare il nostro uomo con proclami sui giornali, partecipando apertamente a dibattiti pubblici e continuando tranquillamente il suo lavoro, ma era altrettanto certa che nessuna si sarebbe mai resa disponibile e dunque si era convinta che quel compito spettasse a lei.

    Si era persuasa che doveva usare quel fisico che madre natura le aveva donato per una buona causa e nonostante le facessi osservare, cercando di dissuaderla con l’arma dell’ironia, che quel fisico lo stava già usando benissimo con me, lei non volle rinunciare a fare da esca per catturare il Maestro.

    Che Sara avesse un corpo da indossatrice non c’erano dubbi; tutti si meravigliavano della sua carriera in Polizia anziché nel campo della moda. Con il suo metro e ottanta di altezza, una chioma di capelli rossi, due occhi verdi incantevoli, un corpo che sembrava disegnato da uno scultore, avrebbe campeggiato come una regina di bellezza su qualsiasi rivista.

    Davanti alla sfacciata verità di quegli argomenti non potei che accettare la sua idea, nonostante temessi fortemente per la sua vita. Ne parlai con il mio superiore, responsabile delle indagini; la strategia prevedeva che Sara fosse presentata alla stampa come una nuova top-model arrivata in Italia spinta dal desiderio di affermarsi, incurante del pericolo che poteva correre. Nessun serial killer le avrebbe impedito di fare il suo lavoro; di posare per una macchina fotografica, di sfilare davanti a giornalisti e compratori, né tanto meno di partecipare a talk show televisivi.

    L'idea venne approvata e Sara iniziò subito a frequentare un corso accelerato di portamento, prima di essere data in pasto ai media. La stampa si scatenò; giornalisti e gente dello spettacolo s’intrattenero in dibattiti televisivi incentrati sulla giovane modella che sfidava il mostro; chi la sosteneva, chi la metteva in guardia, chi le suggeriva di tornarsene a casa.

    Sara era costantemente monitorata grazie agli strumenti che la tecnologia moderna era in grado di offrirci; all’epoca a Milano non si badava a spese e certamente per quell'indagine non c'erano problemi di bilancio. Apparecchiature GPS, minuscole telecamere, microfoni invisibili, si camuffavano tra le pieghe di un vestito o dietro un accessorio quando si esibiva in pubblico; alcuni agenti in borghese la seguivano con discrezione durante il giorno e sorvegliavano il suo nuovo appartamento durante la notte.

    Nel frattempo la nostra relazione dovette arrendersi alle circostanze; era impossibile riuscire a vederci senza che la cosa diventasse di dominio pubblico. Peraltro io ero il suo superiore e l’aggravante del rapporto gerarchico ci avrebbe causato altri problemi. Cercavamo, quando ne avevamo l’occasione, di parlare per telefono incoraggiandoci l’un l’altro; Sara aveva una fiducia assoluta in quello che stava facendo e sentiva che non avrebbe fallito. La ammiravo per questo, stimavo la sua professionalità e la sua dedizione. E ciò che temevo avvenne.

    Una sera dopo l'ennesima sfilata, al suo ritorno in appartamento, trovò il Maestro ad attenderla per portarla via con sé. Ancora oggi, a distanza di anni dalla chiusura delle indagini, è rimasto ignoto il modo in cui quell’uomo poté entrare e uscire indisturbato dall’appartamento senza che nessuno si accorgesse di nulla, considerando tutte le misure di sicurezza predisposte e tutta la sorveglianza organizzata.

    Sara era sparita, come una goccia nel mare, e noi eravamo di nuovo al punto di partenza.

    Io diventai l’ombra di me stesso, ogni giorno più nervoso e irrequieto e con il vizio del fumo tornato a perseguitarmi. Non dormivo mai e continuavo inutilmente a cercare nel suo appartamento un indizio che fosse sfuggito alle perquisizioni.

    Poi una mattina, a distanza di ben venti giorni dalla scomparsa, venne ritrovata da alcuni bambini che stavano giocando in un boschetto vicino all'aeroporto di Malpensa. Era ancora viva, ma lo sarebbe stata ancora per poco; il suo corpo era profondamente inciso da un’unica, immensa lacerazione, prodotta da una moltitudine di ferite.

    Fu un miracolo sentire ancora il battito del suo cuore e il respiro che non si arrendeva. Visse un altro giorno per rivelarci, in pochi momenti di lucidità e coscienza, alcune informazioni di vitale importanza sul serial killer.

    Quel giorno lo passai ad accarezzarle la fronte, tenerle la mano, baciare la sua bocca e dirle che non l’avrei mai dimenticata.

    Fu un’eroina, insignita della medaglia al valore. Per lei furono celebrati i funerali di Stato e al passaggio della sua bara, tra la folla immensa intervenuta alle esequie, moltissime persone avevano le lacrime agli occhi.

    Per me iniziò la fine.

    Senza di lei mi mancava tutto, mi mancava l'aria; sentivo di aver perso la mia ragione di vita e pensavo di impazzire. Venni ricoverato per un lungo periodo in una clinica che favorisse il mio recupero psicofisico dove, nonostante il controllo costante, tentai due volte il suicidio.

    Il tempo, però, valse a ritrovare il senso delle cose; iniziai a riprendermi perché Sara avrebbe voluto così. Lei non si era arresa ed io non potevo insultare la sua memoria rinunciando alla vita, soprattutto quando sapevo esserci una questione ancora in sospeso.

    L’assassino era agli arresti, in attesa di processo, ma per me non aveva diritto di vita; avrei usato tutte le mie capacità e influenze per vendicare la morte di Sara e delle altre ragazze.

    Il Maestro, presto o tardi, sarebbe stato un uomo morto.

    Strategia

    Appena arrivai in ufficio, mi accertai che non ci fossero novità. In quel momento era essenziale sentire l’aria che si respirava intorno all’indagine: qualcuno di certo stava tramando alle mie spalle e io dovevo fiutare la direzione del vento per calibrare le contromosse.

    Seppi che le mie preoccupazioni erano fondate quando un collega mi disse che il nostro capo si trovava nel suo ufficio da più di un'ora e che da quella porta erano già entrate e uscite varie persone. Non volevo espormi chiedendo i nomi, ma immaginavo si trattasse di alcuni colleghi che ambivano quanto me alla direzione dell’indagine. Mi era difficile immaginare che qualcuno potesse disturbare il capo per promuovere la mia candidatura, anche se la cosa non sarebbe poi stata così insolita. Era già accaduto in passato che i ragazzi della mia squadra avessero speso parole in mio favore quando si trattò di decidere a chi affidare un’indagine; certo non ero amato da tutti perché ero gran rompiscatole, testardo e cocciuto, ma con me avevano la sicurezza di poter imparare il mestiere.

    Mi dava una grande soddisfazione e anche un certo orgoglio riconoscere, nel loro comportamento, la messa in pratica di quanto avevano appreso dalle mie istruzioni. In questo caso però la faccenda era davvero seria e complicata ed ero convinto che le sorti delle indagini dipendessero da ben altri fattori e non certo dalle parole di stima dei miei collaboratori.

    L’indagine si poteva impantanare, gettando discredito sull’intera Sezione, se la responsabilità del caso fosse stata assegnata a un fantoccio sponsorizzato da qualcuno e abile nel destreggiarsi con la stampa, ma senza alcuna preparazione né capacità.

    Dopo anni di servizio non riuscivo ancora a capacitarmi dell'ignoranza di certe persone, ma probabilmente, più che di ignoranza si trattava di pura presunzione, mista a una buona dose di vanità. Si anteponeva l'interesse personale alla soluzione di una vicenda che poteva attirare su di noi gli sguardi dell’intera nazione e diventare un caso emblematico, citato nei corsi di criminologia.

    Dovevo agire. Se volevo l'inchiesta dovevo tralasciare le procedure rispettose delle regole perché sarebbero servite a ben poco.

    Chiuso nel mio ufficio, presi in mano la cornetta del telefono e iniziai a comporre un numero che da molto tempo non facevo più, dopo di che d’istinto riagganciai, prima ancora di rendermi conto se la chiamata fosse partita.

    Tu non sei mio padre.

    Quelle parole mi rimbombavano nella testa. Quante volte avevo indirizzato quella frase contro di lui, quando si ergeva davanti a me severo come un tiranno, mentre ero ancora un ragazzo.

    Dopo la morte di mio padre, si era persuaso a raccoglierne le redini, con il tacito consenso di mia madre, convinta che la mia educazione ne avrebbe tratto giovamento. I suoi metodi però, intrisi d’ipocrisia e opportunismo, non mi appartenevano; io ero completamente estraneo a quel suo modo di concepire il mondo, quasi fosse un palcoscenico a proprio uso e consumo.

    Eppure egli non si curava del mio animo ribelle e mi dimostrava il suo affetto con una generosità e una premura che travalicavano ogni mia aspettativa. Per quanto i suoi incarichi lo impegnassero altrove, e fosse dedito per la maggior parte del tempo a curare quella trama di relazioni che avrebbero favorito la sua carriera, non vi era circostanza della mia vita che egli non avesse avuto a cuore e per la quale non si fosse prodigato in prima persona.

    Tu sei l’avvenire Luca mi ripeteva sempre, quando più avanti negli anni s’informava sui miei progressi negli studi, tenendomi all’oscuro del fatto che egli era ben a conoscenza del mio percorso accademico perché altri, prima di me, lo informavano.

    Tuttavia con gli anni aumentò il mio disappunto per quel suo carattere spregevole e arrivista, che si rivelava in ogni circostanza in cui mi metteva in guardia dal condurre una vita sui binari dell’onestà e della lealtà. Assistevo alla sua ascesa al potere, lastricata di falsità e arroganza, e mi ripromettevo di non spartire nulla con la sua influenza.

    Eppure in quel momento, per quanto lui rappresentasse tutto ciò che io non volevo essere e avevo sempre osteggiato, il mio animo vacillava.

    Mi arresi e composi nuovamente quel numero di telefono.

    Al secondo squillo mi rispose una voce d'uomo, gentile e risoluta. Ufficio del Segretario di Stato Vaticano.

    Salve, sono l'Ispettore Veloso.

    Buongiorno Ispettore, come posso aiutarla?

    Sono il nipote del Cardinale D'Ambrosio, avrei necessità di parlare con lui.

    Attenda un attimo per cortesia, sento se è disponibile.

    Aspettai per alcuni momenti, mentre dal telefono si diffondeva una musica celestiale che mi fece sorridere; anche il Vaticano si era adeguato ai tempi, scegliendo un intermezzo musicale personalizzato per rendere l’attesa meno noiosa.

    La voce di mio zio proruppe in tutta la sua composta sicurezza. Mi sembrava di immaginare la sua figura austera, con il viso segnato dagli anni, mentre si aggirava nelle sontuose stanze del Vaticano come un faccendiere, malgrado la carica che ricopriva. Il Segretario di Stato incarnava un potere secondo solo a quello del Santo Padre, con l’accesso esclusivo e riservato a molte stanze, dietro le quali si celavano persone pronte in qualsiasi momento a mostrargli rispetto e devozione andando ben oltre ai sentimenti religiosi.

    Carissimo Luca, cosa porta il figliol prodigo di famiglia a questa telefonata mattutina, non vorrai che interceda per un posto in Paradiso?

    Non lo trovai cambiato; l’ironia era una delle sue armi privilegiate per mettermi a disagio e farmi pagare gli anni di silenzio trascorsi dall’ultima volta in cui ci eravamo parlati. Avvenne a Ravenna, a casa di mia madre, in occasione della festività pasquale. All'epoca lui era Vescovo della città e già allora mi biasimava in tono aspro e irriverente per il fatto che mi stavo costruendo un futuro

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