Onesto Romeno
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Anteprima del libro
Onesto Romeno - Giovanni Franceschi
Blaga
Introduzione
Quando nel 1969 mi laureai in lettere moderne con una tesi di laurea sulla poesia di Lucian Blaga, pochissime persone in Italia conoscevano lingua e letteratura romena. Quasi nessuna conosceva Lucian Blaga. Altrettante oggi.
Molti amici, nel corso degli anni, mi hanno chiesto perché mai abbia scelto a quel tempo un poeta, una lingua, una cultura che sembravano così lontane ed estranee alla nostra. Ancora oggi non saprei dare una risposta sicura; è invece certo che fin da allora mi innamorai di quella cultura e di quel Paese.
Dopo la laurea ho utilizzato solo un paio di volte la mia conoscenza della lingua romena: la prima per tradurre una Guida Automobilistica della Romania
, nel ’71, commissionatami dell’Ufficio Nazionale del Turismo Romeno. Tale Ufficio, in un Paese Comunista, era un ufficio statale sicché si può proprio dire che ho inconsapevolmente lavorato per Ceausescu. La seconda volta ho tradotto un libro di linguistica di un autore romeno per il Mulino di Bologna nel’72.
Da allora, per oltre due decenni, non ho fatto più nulla che avesse qualche relazione con la Romania, a parte un breve viaggio turistico nell’80, mi pare.
Quel Paese, però, è sempre rimasto nel mio cuore.
Verso la metà degli anni novanta, quasi improvvisamente, la Romania è arrivata in Italia. Prima qualche rarissimo immigrato clandestino, poi sempre di più. Improvvisamente la mia competenza linguistica, per la verità assai attenuata, è tornata a essermi utile. Lavorando nel mondo della scuola ho cominciato a incontrare ragazzi e famiglie romene che, sempre clandestinamente, ma sempre più numerose, arrivavano in Italia: ho sempre cercato di aiutarle.
Ho assistito in silenzio, ma da attento osservatore, al fenomeno della scoperta della Romania e dei lavoratori romeni da parte di costruttori senza troppi scrupoli e, in seguito, d’industriali aggressivi e rampanti che hanno cominciato a delocalizzare in quel paese le proprie attività.
Sono tornato in Romania nel ’99, una settimana per un convegno di dirigenti scolastici, ed ho osservato con interesse ed amore il cambiamento, le frustrazioni, le speranze di quel popolo.
A cinquanta anni dalla nascita dell’Europa Comunitaria, oggi che la Romania è entrata a far parte di questa Comunità, sento il bisogno di una riflessione su quanto accaduto in quel Paese nel veloce passaggio dal Comunismo alla situazione odierna. Tale bisogno è acuito da vicende di attualità , fatti anche criminosi ormai quasi quotidiani che rischiano di creare forti pregiudizi nei confronti del popolo romeno e degli extracomunitari in genere.
In questo romanzo poliziesco, perché di questo si tratta, ho tentato di introdurre per il tramite dei vari personaggi qualche mia riflessione che spero possa aiutare a meglio comprendere la questione Romania e non solo.
Premesso che, ovviamente, ogni cultura ha i suoi valori che non sono mai migliori o peggiori di quelli di un’altra, ho cercato di filtrare, attraverso le vicende della storia, il mio convincimento più profondo: l’accettazione e l’apprezzamento di valori, ma anche di semplici usi e costumi diversi, sarà sempre utile a relativizzare i nostri e probabilmente anche a modificarli in valori di livello superiore che siano sintesi dei precedenti posseduti e dei nuovi acquisiti.
Proprio a questo scopo ho evidenziato notizie d’interesse storico e sociale, stereotipi, pregiudizi, riflessioni riguardanti il confronto delle culture e, sopratutto, i dubbi.
In un mondo che cambia così rapidamente, che così in fretta vede mescolarsi i suoi abitanti, non dare giudizi definitivi è un atto di saggezza.
Non avere sicurezze è la prima sicurezza che mi sento di consigliare.
So bene che saper di non sapere
non è una grande novità filosofica, ma su questo terreno l’unico consiglio che mi sento di dare a me stesso ed a chi vuol provare a capire è solo quello di cominciare ad ascoltare.
Gli obiettivi della globalizzazione o più semplicemente dell’educazione multiculturale o interculturale li lascio reclamizzare ad altri.
G.Franceschi
CAPITOLO I
Timisoara (RO), 17 dicembre 1989
Che dolce il tepore delle coperte pesanti in quella straordinaria mattina di dicembre!
Da ormai qualche anno il riscaldamento veniva autorizzato solo in condizioni di freddo estremo e il pensiero di uscire dal letto mi terrorizzava.
L’acqua poi, lo sapevo bene, sarebbe stata gelidissima, ed io dovevo anche radermi perché la barba lunga non era ammessa nella rispettabile libreria del dottor Oprescu dove lavoravo quando ero libero dai miei impegni d’insegnante: mi coprii il volto con la coperta ruvida per godermi ancora qualche minuto di calduccio.
Già, il mio lavoro era proprio quello, bellissimo e tristissimo insieme, d’insegnante di scuola media di primo livello: i miei alunni erano ragazzine e ragazzini dagli undici ai quattordici anni.
Subito dopo la laurea, con un’efficienza che talora rimpiango, mi era stata assegnata una cattedra. Un telegramma speditomi dal ministero non consentiva esitazioni: Al compagno professor Vladimir Comodzinschi è assegnata la cattedra n° 3427 di lingua e letteratura romena presso la scuola media di primo grado
Ion Luca Caragiale di Timisoara: il compagno Comodzinschi dovrà prendere servizio entro tre giorni dal ricevimento della presente nomina. La mancata assunzione di servizio sarà considerata definitiva rinuncia
. A quel tempo non si scherzava!
Ma sarebbe potuta andarmi peggio; Timisoara era una città colta e vivace, la vera porta della Romania verso l’Occidente, la prima città dove, in qualche modo, giungessero notizie non ufficiali del mondo esterno
, come ormai molti miei amici definivano i paesi dell’Europa occidentale .
E poi era la città di Valentina... una collega, un’insegnante di Educazione fisica con cui, quasi immediatamente, avevo stretto un rapporto di simpatia istintiva ed ambigua.
La sua bellezza, la sua disinvoltura, la sua intelligenza avevano acceso in me una imbarazzante indecifrabile ossessione: al forte desiderio del suo corpo si univano rispetto e ammirazione per la sua personalità. Era una donna in cui, all’esuberanza della giovinezza, si univa un’antica saggezza popolare assolutamente sorprendente per la sua età…. E proprio a Valentina Minulescu pensavo, in quella fredda mattina di dicembre, mentre mi godevo qualche minuto in più sotto le coperte calde: pensavo ai suoi occhi, neri e guizzanti, alla sua indole battagliera, al suo coraggio, ma anche, lo confesso, alla sua pelle, bianca come il gelato di panna, al suo seno, quasi estraneo, nel suo profilo morbido e pastoso, a quel corpo così magro e forte … e così, cullandomi nel ricordo della sua immagine, ripensando le sue ambigue, eccitanti frasi sulla necessità di vera libertà come presupposto per un amore vero, stavo per addormentarmi di nuovo... quando un rumore insolito per quell’ora del mattino, come di cori, di canti , di grida, mi dette la forza di abbandonare il rifugio caldo dei miei sogni.
Probabilmente per la fretta di uscire per vedere, per capire, non mi accorsi neppure, nel radermi, di quanto fosse gelata l’acqua della brocca di ferro smaltato.
Protetto da un pellicciotto consunto, mi precipitai, attraverso le strade strette del quartiere, le pietre grigie del selciato ancora lucide per la brina della notte, nella direzione dell’insolito clamore.
Il vocio, gli schiamazzi, lo capii immediatamente, provenivano dalla piazza della cattedrale ortodossa. *
Prima ancora di giungervi mi resi conto che stava accadendo qualcosa di serio perché le persone che incrociavo camminavano in fretta o addirittura correvano, ma in direzioni diverse: chi verso la piazza, chi in senso opposto.
Erano già due giorni che si verificavano in città manifestazioni di aperta rivolta, ma quella mattina, era il 17, una folla enorme di persone si era riunita nella piazza principale della città e gridava esasperata frasi di protesta verso il regime che ci affamava e sfruttava, e...congelava.
Appena sbucato nella parte bassa della piazza, rettangolare e in leggera pendenza, quella più lontana dalla cattedrale, dimenticai per un attimo il clamore e tutto il resto.
Timisoara non è una città esteticamente entusiasmante, ma le guglie piramidali della cattedrale, nella luce fredda del mattino, sullo sfondo di un cielo azzurro chiaro, un mare calmo su un fondale di sabbia bianca, scintillavano come smeraldi incastonati nelle cascate delle tegole dorate.
Mentre, estraneo al tumulto, fissavo quella chiesa dall’architettura così insolita da sorprenderti sempre, fui a mia volta sorpreso da Radu Anastasiu, un collega docente di matematica del Caragiale
.
Senza troppi preamboli Radu mi apostrofò: Era l’ora che ti decidessi anche tu, Comodzinschi!
– Decidermi? Su che cosa?
risposi fingendomi sorpreso.
In realtà era ormai dall’inizio dell’anno scolastico che, non solo a scuola, si parlava di organizzare una manifestazione di protesta contro il partito per le condizioni in cui il Paese era ridotto ma anche, più egoisticamente, contro i ritardi sempre maggiori con cui venivano pagati i nostri miseri stipendi.
Io ero da poco a Timisoara e non avevo ancora ben capito quanto profonda fosse, nella popolazione di quella città, l’insoddisfazione per le disperate condizioni economiche in cui quasi tutti versavano. Ben più grave era che ancora non mi fossi reso conto di quanto ormai in tutta la Romania, non solo a Timisoara, fosse montato un insopprimibile desiderio di libertà. Il collasso del comunismo nel resto dell’Est europeo e i fatti del mese precedente a Berlino non avevano lasciato indifferenti neppure i più distratti.
Di fronte all’incalzare di Radu, al suo stupore per la mia esitazione, la mia incertezza evidente, passarono vertiginosamente nella mia mente cento episodi della mia giovinezza. Erano piccoli fatti che, per qualche ragione misteriosa, si erano impressi nel mio subconscio e che lì, sempre, avevo ricacciato. Come in una serie di flash rividi i miei genitori che un giorno, con sorriso ammiccante, mi annunciavano: Abbiamo ottenuto un’abitazione di ben quattro stanze
; rividi l’ingegner Ghica, un amico di famiglia che, grazie alle sue conoscenze, aveva a disposizione una piccola villetta sul lago di Snagov; rividi domnul tovaric Stelian che proprio così, il signor compagno
, veniva chiamato dal cameriere capo del Cristal, uno dei migliori ristoranti di Bucarest… rividi…rividi...rividi…
Ma che fai, Vlad, ti sei addormentato di nuovo?
mi redarguì concitato Radu. No, no, è che stavo pensando…
- Ora non è il momento di pensare, ma di agire
– E prima che potessi replicare aggiunse: Vieni, andiamo, il gruppo del Caragiale è più avanti, sulla destra, raggiungiamoli, dobbiamo stare uniti
.
Spingendo e gridando per farsi largo fra una folla che diveniva sempre più fitta e nervosa, raggiungemmo il punto della piazza dove si trovavano i nostri colleghi. C’erano quasi tutti: il professor Tanase, decano della scuola, con l’immancabile papillon, a fiori, per l’occasione; c’era Rostas con un grandissimo colbacco russo che forse non si addiceva troppo alla circostanza e lo stesso Preside, il professor Nicolae Costantinescu, agitatissimo, in prima fila.
Tutti, con il viso colorito non so se per il freddo o per l’eccitazione, saltavano e gridavano tenendosi per mano, dietro ad un lungo manifesto di stoffa bianca: c’era un’unica parola sul manifesto, dipinta in rosso accuratamente al centro: " Libertate , ed una sorta di firma in basso:
I.L.Caragiale".
Mentre, a quella vista, restavo immobile, davvero paralizzato in mezzo alla crescente confusione, due occhi neri comparvero nel mio campo visivo come se avessi progressivamente messo a fuoco l’obiettivo di una macchina fotografica, magicamente, nella sfuocata nebbia circostante della folla. Erano accesi da una luce esaltata ed esaltante. Del volto, invece, ricordo il bianco cera della fronte alta e coperta da saltellanti riccioli neri e la bocca, grande e perfetta, che fino a un attimo prima scandiva le parole di uno slogan che non ricordo, e che si aprì, improvvisamente, a un sorriso sfacciato e intrigante. Valentina mi sorrideva, felice di vedermi lì, quasi a dirmi, molto più dolcemente di Radu, la sua gioia di trovarmi finalmente partecipe del suo grande sogno di libertà.
Quel sorriso mi riportò immediatamente alla realtà sicché, animato da un coraggio nuovo, mi lanciai in mezzo ai colleghi del Caragiale e, interrompendo la loro catena, presi posizione dietro lo striscione, a fianco di Valentina.
Il calore della sua mano destra, quel suo stringere la mia che non sapevo più se avesse un significato diverso e più importante di quello che avvertivo vagamente nell’altra mano della catena, tanto mi emozionavano che quasi non riuscivo a seguire il complesso degli avvenimenti della piazza.
Qualcuno, sventolando la bandiera della Romania, ma senza le solite scritte che eravamo abituati a vedervi accanto [1], era salito su un’impalcatura improvvisata al centro dell’aiuola più vicina alla Cattedrale. Da lì, con un megafono artigianale, tentava di esporre alla folla le ragioni della generale insoddisfazione nei confronti del partito e più ancora del leader Ceausescu cui, sostanzialmente, venivano attribuite tutte le responsabilità del degrado del paese, della miseria del popolo, della fame e del freddo. Il capopopolo, fornito di megafono, lo accusava anche della rimozione dal governo di un ministro d’origine ungherese che, a parere del Conducator[2] aveva proposto misure troppo liberali. La folla accompagnava con boati di approvazione ogni frase dell’improvvisato agitatore e più forti si facevano le grida di approvazione quantopiù erano denunciati il lusso esagerato in cuiviveva il dittatore e il potere smisurato dell’intera sua famiglia.
Tutto ciò era ovviamente vietato e si configurava già come un vero e proprio atto rivoluzionario.
Non so, ripensandoci adesso, quanto la folla fosse consapevole della gravità di quanto stava accadendo, ma so per certo che non erano pochi quelli che proprio questo volevano e che fra questi c’erano, sicuramente, gli insegnanti del Caragiale, ma anche molti contadini, molti studenti e moltissime donne.
Mentre qualcuno spiegava alla folla le buone ragioni di Laszlo Tokes, un pastore evangelico che da diversi giorni tuonava nella sua piccola chiesa ed anche per strada contro il regime dittatoriale di Ceausescu, improvvisamente, dai due lati della cattedrale, perfettamente schierati in formazione antisommossa, con scudi in resina trasparente, casco, manganelli e pistole al fianco sbucarono due massicci plotoni di poliziotti. Era la famigerata securitate, una sorta di polizia di sicurezza del regime, fedelissima (così si credeva[3]) al leader Ceasescu, ed assolutamente libera di adottare ogni metodo repressivo ritenuto idoneo alla conservazione dello status quo.
In un primo momento il suo intento sembrò essere solo quello di disperdere i manifestanti, ma l’opposizione si rivelò subito molto tenace: la folla, infatti, anziché indietreggiare, in preda ad un’esaltazione che solo anni di silenziosa sopportazione potevano spiegare, si slanciò contro la securitate.
La confusione era massima: gruppi sempre più numerosi di dimostranti si azzuffavano con i poliziotti che rispondevano usando i manganelli piombati; i primi feriti dall’una e dall’altra parte cominciavano a cadere a terra sanguinanti quando, a sovrastare il caos furibondo, risuonò il primo colpo di arma da fuoco.
Nell’improvviso, innaturale silenzio che seguì la deflagrazione sentii l’inconfondibile rumore di carri armati che avanzavano e subito grida di terrore che si levavano da chi era più vicino ai due punti degli scontri. Poi la folla che indietreggiava e tentava di darsi alla fuga impedita dalla pressione di chi, indietro, tentava ancora di avanzare.
Anche il nostro gruppo si era scomposto a causa delle forze contrastanti di chi spingeva e di chi tentava di fuggire; della nostra catena ormai non era rimasta traccia se non nella mia