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Un archeologo allo specchio
Un archeologo allo specchio
Un archeologo allo specchio
E-book283 pagine4 ore

Un archeologo allo specchio

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Info su questo ebook

La verità a volte è al contrario di come ci appare. Basta uno specchio per risolvere il caso.

Il romanzo giallo "Un archeologo allo specchio" è il primo lavoro di una trilogia ambientata all'Isola d'Elba, un vero e proprio prequel de "La Torre e il Demone", con cui l'autore ha debuttato nella narrativa noir. Rappresenta l'esordio dell'archeologo Leandro Tertulliani nelle nuove e complesse vicende investigative. Tutto ha inizio da vecchi e tragici fatti che tornano prepotentemente alla ribalta grazie all'intuito e al "fuoco sacro" che anima il protagonista. Un susseguirsi di stringenti indagini, coadiuvate da due carissimi amici elbani. Immagini inquietanti riflesse in uno specchio, un misterioso bunker, un giovane predestinato che diverrà un archeologo cocciuto, una vecchia storia di archeologi che riemerge dall'oblio, l'affetto per un'isola, una "californiana", una grande storia d'amore, un segreto inconfessabile, un'area archeologica situata nel folto di una macchia ricca di profumi, posta nella Valle dell'Inferno. Il tutto ambientato in una delle più belle isole del Mediterraneo, l'Isola d'Elba e descritto da chi l'archeologia l'ha vissuta veramente in prima persona. Un lavoro a tratti riflessivo, anche introspettivo e nostalgico, ma vivacizzato dal dinamismo di una trama avvincente, in continuo crescendo. Lo scopo dell'autore è, come si vedrà anche nei romanzi successivi, trasportare il lettore in alcuni dei luoghi più nascosti e allo stesso tempo più suggestivi della sua Toscana e non solo.
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2022
ISBN9791220399708
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    Anteprima del libro

    Un archeologo allo specchio - Leonardo Giovanni Terreni

    Aethalia

    «Leandro, Leandro, dove sei? Veni qua! Vieni a vedere, guarda!» Leandro si girò verso suo padre Gino e vide che gli stava indicando qualcosa in direzione della costa, mentre la nave stava per entrare in rada a Portoferraio.

    «Arrivo babbo, che c’è da vedere?» Quasi urlò.

    «Do’ vai Leandro?» Gli chiese Caterina a mo’ di rimprovero, con i capelli scompigliati dal vento e che le coprivano il viso sbarazzino.

    «Babbo mi sta indicando qualcosa sulla costa di fronte a Portoferraio. Stai costì! Stai ferma e non montare sul corrimano del parapetto e soprattutto non dare confidenza a nessuno, torno subito.» Lasciò la sorella e si avvicinò ai genitori che erano appoggiati al parapetto della stessa murata, ma un po’ distanti da loro.

    «Che mi volevi far vedere?»

    «Oh... ma che hai lasciato sola tua sorella? C’è troppa gente sulla nave, non mi piace che rimanga da sola in mezzo a tutti.»

    Gli disse, senza nascondere una certa apprensione, sua madre Maria Anna.

    «Mamma torno subito da Caterina, sento che mi vuole dire babbo e torno subito da lei».

    «È troppo vivace, è un argento vivo, non voglio che si spenzoli dalla balaustra della nave e poi una ragazzina sola...»

    Gino interruppe le esternazioni della moglie mettendo il braccio sulla spalla del figlio, accompagnandolo al parapetto, facendosi largo a fatica tra i turisti che ammiravano incuriositi le fasi di attracco della nave.

    «Leandro guarda, la vedi quella scogliera, proprio di fronte alla darsena? La vedi? È un piccolo promontorio... guarda bene.»

    «Si, lo vedo, c’è come un pianoro sopra... Ma che c’è?»

    «È la Buca delle Fate, c’era una grande villa romana, la stanno scavando da alcuni anni. Ci stanno scavando anche in questo momento. Dicono sia enorme. Magari ci informiamo sulla possibilità di visitare gli scavi. Ti è sempre piaciuta l’archeologia... sbaglio o volevi studiare questa materia finito il liceo?»

    «Una villa romana? Ganzo... dai, andiamoci... la vedrei volentieri davvero, lo sai che mi piacciono queste cose...» Ci pensò un po’ sopra e poi aggiunse, come se si volesse scusare... «A dire il vero avrei deciso di iscrivermi a medicina. I miei amici vanno tutti lì...» Suo padre lo ascoltò in silenzio.

    «Intanto pensa a prendere la maturità che c’hai ancora due anni di liceo da fare...»

    Rispose pragmatica sua madre, che non si era persa una sola battuta.

    «Leandro, Leandro, guardami! do da mangiare a un gabbianoo!» Urlò tutta contenta Caterina, salita sulla barra più alta del parapetto della murata, cercando di allungare dei bocconcini di schiacciata ad un gabbiano grifagno, quasi fermo sulla sua verticale.

    «Scendi subito disgraziata! L’avevo detto che non andava lasciata da sola!»

    «Mamma non svenire, corro io...»

    E corse a salvare la sorella, per niente preoccupata del pericolo. La fece scendere e la prese per mano, appoggiandosi al corrimano della murata di nave Aethalia, che prendeva il nome dall’antico nome greco dell’Isola d’Elba: La Fuligginosa. Leandro era emozionato, era contento con quei pantaloncini corti e con quelle ridicole gambe bianche dell’inverno, messe in mostra. Tornava ancora sull’isola per le vacanze ed era felice perché lui, a Portoferraio, ci sarebbe dovuto nascere. Il vento di mare gli arruffava i lunghi capelli neri un po’ ondulati e il profumo di salmastro si mischiava con l’odore acre del fumo nero sputato dal fumaiolo della nave. Ma anche quella era già vacanza, era l’aria dei ponti dei bastimenti. La fortezza del Volterraio si ergeva nitida ed orgogliosa alla vista di quei distratti villeggianti che bramavano solo le limpide acque delle Ghiaie o della Biodola. L’Aethalia era una bella nave, in confronto a quelle che con la sua famiglia prendeva alcuni anni prima e che erano riallestimenti di ex corvette militari, quando la loro vecchia Fiat 1100 veniva imbracata al molo centrale e messa col picco di carico direttamente sul ponte. Non erano traversate, erano avventure. Leandro si voltò e osservò la moltitudine di gente, soprattutto di ragazze e i suoi ormoni si risvegliarono. La voce gracchiante dell’altoparlante avvertì i proprietari delle auto di avvicinarsi ai propri mezzi, mentre la nave terminava la manovra, salutata da una motovedetta lanciamissili francese, attraccata lungo il molo vicino alla Torre del Gallo. Leandro si voltò verso il promontorio della Buca delle Fate, già defilato alla vista e pensò...

    «Mah, chissà se ci andremo mai davvero... e chissà se un giorno l’archeologia mi interesserà sempre...»

    «Leandro che ti sei incantato? Guarda che le ragazze scendono di qua!» Urlò con birbanteria la sorella.

    «Arrivo, arrivo... Elba, arrivo.»

    Giacomo

    Era un tardo pomeriggio di un fresco mese di giugno, degli inizi degli anni ’70. Il dottor Giacomo Tricomo, funzionario archeologo della Soprintendenza alle Antichità d’Etruria, cercò un posto dove sedersi per fare il punto sulle scoperte della giornata appena trascorsa. Non trovò di meglio di un vecchio e sconnesso panchetto impagliato, che lo costrinse a sedersi d’angolo. Non prestò molta attenzione a quel particolare, perché era troppo impegnato a selezionare l’importante ed abbondante materiale rinvenuto nel nuovo saggio archeologico presso la villa romana della Buca delle Fate, di fronte a Portoferraio. Si sentiva veramente felice, i materiali sembravano significativi e la sua squadra, composta da alcuni operai e da molti volontari, lavorava bene ed era affiatata. A tutto ciò era da aggiungere l’aiuto indispensabile di un giovane e brillante collega, il dottor Paride Farelli. Giacomo credeva fermamente nel volontariato archeologico, riuscendo a coglierne i lati positivi. Gli piaceva tutto quell’entusiasmo, pur sapendo benissimo che andava tenuto un po’ a freno. Era in controtendenza rispetto a molti dei suoi colleghi archeologi, sia di Soprintendenza che di Università, che pur collaborando con i volontari affidavano loro solamente incarichi marginali. Lui, al contrario, era in grado di gestire anche le situazioni più critiche e complesse grazie alla sua innata capacità diplomatica e al rispetto che aveva per tutti. Per queste ragioni, i volontari lo ricambiavano con la più grande stima immaginabile, seguendo tutte le sue indicazioni. D’altra parte, era proprio grazie alle loro segnalazioni che aveva fatto le scoperte più importanti, sia sull’isola che in altre località del continente. Scoperte che gli avevano permesso di fare carriera e di ciò ne era ben consapevole. All’epoca, gli scavi archeologici stratigrafici erano agli albori, almeno in Italia e la tecnica di scavo più utilizzata per l’indagine delle strutture murarie era quella di seguirle nella loro estensione lineare. Infatti gli scavi della villa-fattoria romana di epoca repubblicana di Settefinestre, presso Ansedonia, antesignani delle ricerche stratigrafiche nel campo dell’archeologia classica, erano di là da venire. Anche il lavoro d’equipe, multidisciplinare, si sarebbe diffuso in seguito. Quel giorno Tricomo era felice perché si considerava un uomo fortunato. Con gli occhiali messi in punta di naso, si riguardava tra le mani una bellissima lucerna romana di età imperiale, quasi intatta. Alzò la testa, perché si era reso conto di essere osservato dai tanti suoi collaboratori, alcuni dei quali veri e propri amici, posizionati intorno a lui e poi si voltò verso il mare... di fronte aveva quella meraviglia del Mediterraneo che è la rada di Portoferraio vista dalla Buca delle Fate, quasi all’ora del tramonto, con la nave Aethalia che stava per entrare nel porto.

    «Ma cosa volevi di più dalla vita, Giacomo!» pensò sorridendo, prima di iniziare una semplice spiegazione ai presenti, sulla tipologia delle lucerne romane.

    Mentre era rivolto verso i suoi ascoltatori, un’auto arrivò di gran carriera nel piazzale antistante l’area archeologica, alzando una spessa nuvola di polvere per la sbandata, dovuta alla brusca frenata. I presenti, quasi all’unisono, mandarono subito a quel paese l’autista della macchina. Però, quando la nuvola di polvere si diradò e videro arrivare trafelato un loro collaboratore, che sbraitava con ampi gesti delle braccia, tutti si alzarono incuriositi per andargli incontro. Era Giovanni, un tipo alto e allampanato, mosso da una grande passione per l’archeologia, che da lontano disse subito...

    «Dottore! Dottor Tricomo! Hanno trovato una tomba con corredo tra Lacona e Laconella!»

    Giovanni urlava con la sua tipica voce roca, ma nessuno riuscì a capire niente di quello che stava dicendo, perché era ancora troppo distante dal gruppo.

    «Dé... Giovanni, ma che cazzo dici, ma chi t’intende! Datti una

    ’harmàta e parla piano.» E poi rivolto all’archeologo... «Dottore un ci faccia caso, è fatto così, si fa portare dall’entusiasmo. Sarà una delle solite bischerate che trova di continuo...»

    «Che bischerate! È roba importante, è una tomba intatta!» Rispose Giovanni prontamente, appena giunto di fronte a loro.

    «Sì, dé, come quella der bimbo di Pomonte... che aveva trovato un gioiellino che dicevi che fosse etrusco e poi l’aveva perso un villeggiante. Popò di troiao... e come si ’horse tutti! Ti darei un morso nell’occhi, ancora oggi!»

    Chi parlava così era Paolo, che veniva dalla costa del continente e parlava più livornese, anche se cercava di trattenersi. Sull’Isola o meglio, sullo Scoglio, come la chiamano gli Elbani, la parlata è diversa, anche se ai continentali, specialmente ai non toscani può sembrare livornese. Intervenne l’archeologo.

    «Paolo... fallo parlare, ha fatto tutta questa strada da Lacona, diamogli soddisfazione... Vai Giovanni, piuttosto cosa ci facevi nella zona di Lacona? Tu abiti a Chiessi!»

    «Contento lei dottore...» Paolo si voltò e col muso a ghigna tipico suo...

    «Vai, mòviti, ripiglia fiato e spiega ogni ’osa ar dottore. Ma li vedi vesti vi’, te l’infilo nell’occhi...» E gli mostrò, minaccioso, due dita della mano aperte a V.

    E Giovanni di seguito, come un fiume in piena...

    «Una donna, che sta di ’asa vicino a un campeggio... sa, uno di quelli novi, fatti da poco... ha fatto un piccolo scavo per mettere delle piante e ha trovato una lastra di pietra, che appoggiava su altre pietre messe per ritto. L’ha alzata e dentro c’ha trovato dei vasi, degli anelli... e altra roba. C’era un mio amico presente che mi ha telefonato a casa e io ci sono andato di corsa. Dottore, è tutto vero! La roba è ancora lì a disposizione perché la signora non ha preso niente, anzi ha chiamato anche i carabinieri... Ohioi che corsa che ho fatto...»

    E si asciugò la fronte con la manica della camicia con fare teatrale. Era il suo momento e se lo stava godendo.

    «Da quello che ci hai raccontato, si tratterebbe di una bella scoperta sul serio! Si va subito a vedere...» Il dottore rivolse lo sguardo verso i suoi collaboratori e disse...

    «Posate tutto, si va dalle parti di Laconella!»

    Paolo, per niente convinto, passò accanto a quel Giovanni e gli sussurrò all’orecchio, sibilando come un aspide di macchia...

    «Se un è vero, dalle pedate ner’cculo che ti dò, ti mando in orbita...»

    Fece un bel sorriso di circostanza e si trattenne... Perché lui in orbita ce lo avrebbe mandato davvero e subito, anche senza attendere i risultati. C’era una vecchia ruggine tra i due, che sgomitavano per entrare nelle grazie dell’archeologo e Paolo vedeva nel più giovane Giovanni un pericoloso contendente e di conseguenza, cercava continuamente di sminuirne le azioni. Giovanni, dal canto suo, era più ingenuo di Paolo e per niente geloso. Nelle attività di cantiere si rimboccava le maniche senza remore ed era tra i volontari più attivi. Solo Giacomo era in grado di farli cooperare. Montati tutti in macchina, partirono di gran carriera. Tricomo sperava che quella segnalazione fosse una cosa significativa e soprattutto vera. Decisero, vista la furia dovuta alla curiosità del rinvenimento, di attraversare il valico di Colle Reciso. Però, durante il percorso, il dottore fece fermare l’auto all’imbocco della vecchia strada militare che dal Colle Reciso portava a Procchio, passando dai resti del bel mulino a vento di Moncione. Scesero e si fermarono pochi minuti, appena il tempo di scrutare una piccola area boschiva che lui riteneva meritevole di future ricerche. Prese frettolosamente degli appunti e poi, risaliti in macchina, ripartirono subito. Arrivati nei pressi di Laconella, la notizia risultò vera, vera sul serio, per buona pace di Paolo. Era proprio una tomba antica. Una volta scesi dalla macchina se la ritrovarono quasi subito sotto gli occhi, circondata da un capannello di curiosi e con due carabinieri che li controllavano a vista e a stento. Si trattava di una piccola, ma intatta tomba etrusca con singola sepoltura ad incinerazione di periodo classico, scavata a pozzetto nel pancone sabbioso e rivestita da lastre monolitiche. Da altre parti della Toscana non avrebbe fatto tanto scalpore, ma all’epoca, sull’isola, fu una scoperta veramente importante.

    «Non toccate niente, mi raccomando!»

    Disse ai numerosi curiosi e poi rivolto ai due carabinieri lì presenti...

    «Sono il dottor Tricomo, Giacomo Tricomo, della Soprintendenza Archeologica... ci penso io al recupero in sicurezza. Portiamo tutto a Portoferraio al magazzino della Buca delle Fate. Ora prepariamo un verbale.»

    I carabinieri annuirono e si diressero alla macchina di servizio per comunicare alla radio con la centrale, sollevati per l’arrivo del funzionario. Si avvicinò una signora, di una certa età, ma ancora giovanile nell’aspetto e si rivolse subito all’archeologo...

    «Buongiorno, piacere, sono Clorinda, Clorinda Rossetti. Ho sentito che è lei il responsabile di zona per le Belle Arti. Sono la proprietaria del terreno. Meno male che è arrivato presto, con tutta questa gente a fare domande. Sa... ho capito subito che poteva essere qualcosa d’importante e ho chiamato i carabinieri. Non volevo che qualcuno portasse via qualche oggetto e poi che fosse addossata la colpa a me!»

    «Piacere mio signora. È vero, sono il dottor Tricomo della Soprintendenza alle Antichità d’Etruria.» E le porse subito la mano, sorridendo tra sé e sé perché i toscani, qualunque fosse la soprintendenza, la definivano sempre Belle Arti.

    «Signora Clorinda, mi hanno raccontato che è stato un rinvenimento assolutamente casuale, come se ne è accorta? Ma lei è originaria della zona?» La signora allargò le braccia...

    «Mah, guardi... eravamo a fare alcune buche per piantare dei cespugli di Mazze di San Giuseppe che avevo in vaso dallo scorso inverno e che a forza di aspettare ci siamo trovati nel tardi. Proprio nel fare una di queste buche, la vanga ha picchiato su una pietra, smuovendola... il tempo di rendersi conto di cos’era e chiamare i carabinieri. Un giovane qui presente mi ha detto che avrebbe avvertito anche un amico che collaborava con lei. Il resto lo sa.» Poi, pensandoci su, quasi se ne fosse dimenticata, aggiunse...

    «No, non sono di qua, anzi, nemmeno dell’Elba. Ci sono trapiantata da alcuni anni, ma vengo da quello che gli elbani chiamano il continente. Dal Valdarno Superiore, per la precisione.» Tricomo annuì e continuò.

    «Signora, mi tolga una curiosità... lei era o è a conoscenza dell’esistenza del premio di rinvenimento?»

    «Non ne ho la benché minima idea.... cos’è?»

    «Se rinviene, casualmente, oggetti di valore archeologico ha diritto al 25% del loro valore, stimato dalla Soprintendenza. Se poi, come in questo caso, è anche la proprietaria del terreno, la percentuale sale fino al 50%. Ce ne fossero di persone come lei!»

    «Rimango di sasso, ma son contenta!»

    «Rimanga in zona perché mi dovrà firmare un verbale... Oh, non si aspetti il premio tanto presto! Siamo in Italia, un po’ dovrà attendere.» Poi ci ripensò ridendo e aggiunse «Un po’ parecchio...»

    Il giorno dopo e anche nei successivi, ne parlarono tutti i giornali, soprattutto il Corriere Elbano. Gli archeologi, conclusi i rilievi della sepoltura ed il recupero d’urgenza dei reperti, si misero a discutere su come approfondire la ricerca in quel terreno, per sincerarsi se ce ne fossero altre di tombe similari. Dal canto suo, il dottor Tricomo, sentendosi più tranquillo per aver portato tutto il materiale al sicuro nei magazzini presso Portoferraio, pensò di andare il prima possibile a casa della signora Clorinda, per poterci parlare in maniera più confidenziale. Con grande soddisfazione, ottenne l’appuntamento per il giorno successivo. A casa della proprietaria del fondo, durante la conversazione, che si rivelò più piacevole del previsto, di fronte ad un vassoio con una bella schiaccia briaca e ad una bottiglia di aleatico, venne a conoscenza di un’area potenzialmente interessante per ulteriori ricerche. Clorinda continuava a parlare.

    «Lo sa dottore che tutta questa zona è piena di materiali antichi... almeno credo che siano antichi. Si trovano un po’ dappertutto su queste coste e anche sopra, sulle colline! Pensi che una mia amica, molto, ma molto più giovane di me e di origini tedesche come suo marito, trova spesso pezzi grandi e piccoli di ciotole e di vasetti...» Lo disse con entusiasmo e poi come ripensandoci...

    «Però non sono dipinti come quelli trovati da me, sono, come dire... accidenti non so i termini giusti... grezzi! Ecco, proprio grezzi e grossolani, con delle piccole bozze... almeno a me sembrano bozze in rilievo... sotto i bordi e sono pieni di sassolini all’interno.» Quella descrizione fu per Tricomo una vera sorpresa, del tutto inaspettata, che lo mise in agitazione.

    Poi, Clorinda, con fare cortese...

    «Dottore, o se un ha preso punta schiaccia, che un gli garba? L’ho presa a Rio! O giù, almeno un altro bicchierino di aleatico, sennò mi offendo, eh! Guardi, è buono, è del Gasparri!» L’archeologo era già il terzo che beveva e, a dire il vero, non ne era affatto dispiaciuto.

    «Carini questi bicchierini di vetro verde... il colore ha una tonalità particolare, direi inconfondibile... mi sembrano di produzione empolese.»

    Disse Tricomo, guardando controluce il tono di verde del bicchiere che teneva in mano.

    «Se ne intende dottore! Si, è vetro verde empolese, me li ha regalati mia cognata, che è di Empoli e li faceva suo padre che lavorava alla vetreria... o come si chiamava... accidenti alla memoria..., ecco... Taddei!» Poi, ripensandoci, guardò Giacomo,

    «Non so nemmeno se questa vetreria sia sempre in attività...» L’archeologo allargò le braccia, non sapendo cosa rispondere e poi riportò l’attenzione sull’archeologia.

    «Mi parli un po’ del posto dove dice siano stati trovati questi reperti che, come li definisce lei, sono grezzi.»

    «Il punto preciso non lo so, ma è vicino al campeggio di questa mia amica, a un paio di chilometri da qui. Quasi a picco sul mare.» La zona della nuova segnalazione, che fu considerata provvidenziale dall’archeologo, sembrava trovarsi molto vicino al luogo del ritrovamento della tomba. La descrizione fatta dalla signora indicava chiaramente la presenza di un probabile insediamento antico, molto più antico del rinvenimento etrusco del giorno precedente. Giacomo, di formazione e specializzazione protostorica, drizzò subito le antenne e quasi per incanto sembrò dimenticarsi della scoperta appena fatta, cominciando a ipotizzare progetti e addirittura a fantasticare su come organizzare le nuove ricerche. Erano anni che non provava un’emozione del genere.

    «Signora Clorinda, me lo farebbe il piacere di darmi ancora qualche notizia sul luogo che mi ha rammentato o, ancora meglio, di presentarmi a questi signori? Sa, lo potrei fare da me, ma apparire all’improvviso in qualità di funzionario di Soprintendenza nella loro proprietà, li potrebbe far chiudere a riccio. Come ha detto che sono... tedeschi? Sarebbe davvero un piacerone, come si suol dire.»

    «Non ho alcun problema dottore. Magari li chiamo e le fisso un appuntamento.»

    Poi, battendo le mani con disappunto,

    «Mannaggia... averlo saputo prima... erano tutti e due presenti al rinvenimento della tomba, ci poteva parlare subito!» Ci pensò un po’ su e poi aggiunse...

    «Le do un consiglio... sono persone perbene, ma molto riservate. Hanno un campeggio con tanti turisti stranieri e non vogliono confusione da parte di estranei, sono arrivati da poco in Italia. Sa... sono scappati dalla Germania Est! Ci vada da solo, senza tutti i suoi accompagnatori, senza ufficialità. Ci parli liberamente perché sanno l’italiano bene come noi.»

    «Stia tranquilla, sarò riservatissimo. Come ha detto che si chiamano?»

    «No, non glielo avevo detto... Helena e Otto Gärtner.»

    «Gärtner? Ma guarda, vuol dire giardiniere.» Rispose l’archeologo, che un po’ di tedesco lo conosceva.

    «Giardiniere? Curioso, non ci avevo mai fatto caso.»

    «Non è una cosa strana, in Germania sono molto comuni i cognomi che derivano da attività lavorative. Come Müller, mugnaio, Schmidt, fabbro, Hoffmann, contadino e così via.»

    «È buffo, a noi italiani sembrano nomi altisonanti e poi in realtà hanno un significato comune, quasi banale. Allora la moglie Helena sarebbe la giardiniera!» Rise di gusto la signora.

    «Beh... a dire il vero ho un cognome strano anch’io... Tricomo dal greco vuol dire crescita di peli e in gergo botanico i tricomi sono una specie di escrescenze di alcune piante, come quelle sulla cannabis!» E gli venne da ridere, scuotendo la testa.

    Il volto dell’archeologo si era come illuminato perché quella conversazione, pur con una perfetta sconosciuta, lo aveva messo a proprio agio e in vena di battute.

    Clorinda non perse tempo, prese in mano il telefono e fissò un appuntamento con i tedeschi, che ottenne per il pomeriggio di due giorni dopo.

    «Signora non sa il piacere che mi ha fatto.» E si salutarono amichevolmente.

    Arrivò il giorno dell’incontro e Giacomo si presentò a casa dei coniugi tedeschi, rigorosamente da solo e con un libro che aveva scritto di recente, come regalo. Quando la giovane padrona di casa aprì la porta, rimase colpito dalla sua bellezza, soprattutto dai suoi occhi verdi, che lo misero quasi in uno stato di soggezione. Helena fu molto cordiale e persino felice di vederlo. Il marito, un po’ più sospettoso, stette in disparte, ma ascoltò attentamente. Gli fecero vedere alcuni dei frammenti ceramici di cui gli aveva parlato Clorinda e gli indicarono la zona, appena fuori dall’area del campeggio, ma sempre nella loro proprietà, conosciuta come Valle dell’Inferno. Per i permessi di accesso all’area, la giovane signora non ebbe niente da ridire, anzi, sembrò molto contenta, ma il marito si mostrò decisamente contrario. Poi, dopo una breve, ma accesa discussione in tedesco, quasi urlato fitto fitto tra i coniugi, Otto si

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