La Cinquina Imperfetta
Di Mauro Danzi
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Ricercando, nella vita di tutti i giorni, i necessari stimoli che possano portarlo a completare la sua visione notturna, riuscirà il professore a portare a termine il proprio sogno e individuare il tanto sospirato 5° numero per formare la cinquina vincente?
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Anteprima del libro
La Cinquina Imperfetta - Mauro Danzi
Mauro Danzi
LA CINQUINA IMPERFETTA
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Indice dei contenuti
La nuova casa
L’intreccio
Dove vanno i sogni?
Epilogo
In ricordo dei miei compagni della classe V D dell’Istituto Tecnico E. Beltrami di Cremona - Anno Scolastico 1966/67
Dedicato a coloro che non ci sono più
La nuova casa
Il sogno ricorrente
Bernardelli, Bertoli, Bertolini, Bettoni, Bonisoli … a questo punto il professore faceva sempre una pausa. La B era finita e iniziava la lettera C. Cognomi che iniziassero con la A non ce n’erano. Ripeteva prima ad alta voce, poi, nel dormiveglia, con voce più flebile, l’appello della quinta classe, sezione D. Classe mista, uno dei primi esperimenti di convivenza tra studenti di sesso diverso. Era composta da ventinove maschi e da quattro femmine.
Il medico gli aveva detto che per vincere l’insonnia doveva contare le pecore, ma lui con i numeri non ci prendeva proprio e, dopo qualche decina, si confondeva.
Si inquietava perché non ricordava più se era arrivato a sessanta o a settanta. Era quello il punto debole della conta. Doveva dire sessantuno o settantuno? Le prime volte ricominciava da capo, ma più ricominciava più sbagliava e più si innervosiva. Gli prendeva un’agitazione che produceva l’effetto contrario di quello desiderato, gli fungeva da stimolante per l’insonnia.
Al medico, dal quale tornò per spiegare il fatto della trappola del sessanta - settanta, non rimase di meglio che consigliargli di abbandonare le pecore e pensare a qualcosa d’altro. Qualcosa che avesse a che fare con elenchi ripetitivi, ma che gli procurasse rilassamento, abbandono. Il medico equiparò il suo caso a quello di un sergente dell’esercito al quale consigliò di memorizzare gli elenchi delle reclute di ogni corso, per poi ripetere i loro nomi in ordine alfabetico fino a prendere sonno. Consiglio che ebbe successo. Replicati tutti gli elenchi due volte, le reclute alla fine riuscivano a mettere K.O. il sergente.
Lui era un professore, poteva recitare i cognomi dei suoi studenti, memorizzarli dai registri di classe e declamarli finché fosse stato possibile. Vedendolo indeciso, gli suggerì di iniziare ripetendo l’appello di una classe dell’Istituto Tecnico dove insegnava. Forse si sarebbe sentito più a suo agio in un ambiente conosciuto. I cognomi recitati più volte ad alta voce si sarebbero trasformati in una cantilena con conseguente effetto soporifero.
E così fece.
Con un piccolo particolare: di tutte le sezioni in cui era presente, cioè terza, quarta, quinta D ed E, sei classi in tutto, si ricordava speditamente solo dei trentatré cognomi della quinta D che aveva memorizzato perfettamente in stretto ordine alfabetico. Non solo. Aveva acquisito così tanta familiarità che tra un cognome e l’altro faceva trascorrere un infinitesimo di secondo per abbinare, nel suo inconscio, il cognome al volto dello studente. Dopo tre appelli completi, al quarto solitamente si fermava alla M di Manotti e crollava in braccio a Morfeo.
Un effetto più veloce, più sicuro, più salutare del sonnifero.
Il professore era anziano.
Di statura leggermente più bassa della media, di corporatura robusta, aveva ormai perso quasi tutti i capelli, salvo che per una semicirconferenza miracolosamente salvata dall’alopecia, che andava da basetta a basetta e che non era alta più di tre centimetri. Tre centimetri di cuoio capelluto ancora stranamente coperto di peluria nera. Come neri erano i baffi che ricordavano quelli di Peppone, il sindaco comunista nato dalla penna di Guareschi. Il professore non era sposato.
Insegnava inglese all’Istituto per ragionieri, era all’ultimo anno di insegnamento.
Dava qualche lezione privata a studenti ritardatari per arrotondare lo stipendio e pagarsi l’unico vizio che aveva: il gioco del lotto. Tutti i soldi che guadagnava extra, ed anche qualcosa in più, li buttava nel gioco. Non partecipava a lotterie, niente cavalli, niente Sisal, niente azzardo, niente scommesse. Solo, sempre e, visti i risultati, malinconicamente, il gioco del lotto.
Questa ossessione era nata tanti anni prima, almeno quindici, quando ancora non soffriva d’insonnia e le dormite erano lunghe e riposanti. Non aveva bisogno di contare pecore o di fare appelli notturni, allora. Poi, un giorno, si innamorò del gioco del lotto e la sua vita cambiò.
Aveva conosciuto una collega di lettere della quale si era invaghito. Non fece mai il primo passo, fu un amore platonico e unilaterale. Sognò questa giovane ed esuberante collega ogni notte per un intero anno scolastico, poi in modo discontinuo. Il sogno era sempre il medesimo, ricorrente e, per un motivo o per l’altro, lui ne ricordava solo una parte. Non era mai riuscito ad imprimerlo completamente nella memoria.
Al risveglio, rammentava unicamente la scena in cui entrava in classe e vedeva lei, seduta alla scrivania, con il petto nudo: due splendide mammelle in primo piano. Lui portava un mazzetto di fiori che le offriva in dono, non prima di essersi fermato a rimirare quel portentoso petto e di essersi congratulato per come le donava. Lei, senza mai alzarsi, ricambiava la gentilezza allungandogli un cestino di fichi maturi che era posato sul registro di classe.
L’aula era grande e i banchi ben ordinati. Nessuno studente era presente. Solo loro due. Il professore orgoglioso cominciava a mangiare i fichi e la collega prosperosa odorava candidamente i fiori.
A questo punto la sua intima visione notturna si interrompeva. Con grande rabbia, inconsciamente, arrivava il break e per un motivo o l’altro … si svegliava. Non aveva mai condotto un’indagine statistica però le cause più frequenti di questa improvvisa perdita del sonno potevano essere il bisogno di orinare, il suono della sveglia mattutina, il freddo ai piedi, oppure i rumori che provenivano dalla strada.
Il professore cercava di non svegliarsi del tutto, di aprire un occhio solo, il destro o il sinistro a turno, di rimanere forzatamente nel dormiveglia. Niente. Non riusciva più a riagguantare il sogno. Poi, per suo unico piacere, cercava di finirlo con le conclusioni più strane, mai toccando la sfera sessuale. Il suo era un sentimento nobile, spirituale e rifuggiva da ogni coinvolgimento materiale, tantomeno carnale. Era come vedere il petto della Venere di Botticelli alla Galleria degli Uffizi e rimanere estasiati. Lo stesso valore artistico. Né mai si era preoccupato di darne un’interpretazione psicologica, non gli interessava. Il sogno era intrigante così, punto e basta.
I suoi unici crucci, che poi divennero disperazione, erano la sua incapacità di ricordarne l’inizio e l’impossibilità di arrivare ad un’appagante conclusione.
Diede la colpa all’alimentazione: forse la causa era la cattiva nutrizione serale che gli impediva un sonno più duraturo. Aveva scoperto che quando alla sera si nutriva con una minestrina o beveva il latte caldo, accompagnandolo con un po’ di pane integrale, e mangiava del formaggio tenero con una verdura cotta, il sogno ritornava. Allora, e per un lungo periodo, fece degli esperimenti culinari per provocarne, oltre che la ricomparsa, anche la continuazione. Tenne fisso il menu, cambiandone volta per volta un componente. Sempre latte caldo, sempre pane integrale, sempre formaggio, ma la verdura veniva sostituita. Ad esempio, anziché le patate, mangiava i fagioli, che poi avvicendava con i piselli. Inutilmente. Il sogno si fermava sempre allo stesso punto. Deluso, provava altre correzioni, teneva invariata tutta la primitiva lista dei cibi, sostituendo solo il formaggio con la frittata. Il sogno ritornava, ma lui ne ricordava solo una parte, anche perché qualcosa lo interrompeva. Provava e riprovava infinite combinazioni: con il latte non zuccherato, con il pane comune, con il riso al posto del latte, e via dicendo. Quando i suoi esperimenti avevano successo il sogno riappariva. Purtroppo sempre e unicamente la stessa scena. Una maledizione. Tanto che per non cadere in depressione, sempre su consiglio del medico inventore dello stratagemma della recita dell’appello, decise di sfruttare i segnali inviati dalla sua visione onirica, di servirsi della cabala e puntare sul gioco del lotto per raggiungere la felicità. Comprò il libro La vera cabala del lotto e cercò di tradurre in numeri gli elementi più significativi del suo sogno. Si fidava del suo istinto che lo spingeva ad abbinare numeri ad immagini senza precise regole di ricerca. Preferiva accontentare il suo senso estetico piuttosto che sviluppare concetti che avrebbero potuto svilire il contenuto del sogno.
La cinquina imperfetta
Donna non c’è, forse femmina ... Sì femmina sì e avvenente ... e affibbiò con sicurezza il primo numero corrispondente: 1. Poi pensò al seno, anzi alle mammelle, belle e abbondanti, e assegnò il secondo numero corrispondente: 3. Il mazzo di fiori, gli fufacile attribuire il terzo numero corrispondente: 55. Infine, il cesto di fichi, semplificato ai soli fichi, meno complicato da cercare quale fosse il numero corrispondente: 59.A quel punto si accorse che mancava un numero per fare l’en plein, per completare la serie di cinque numeri. Gli avevano detto che l’estrazione di tutti e cinque i numeri giocati sulla stessa ruota gli avrebbe permesso, con poco investimento, di ricavare una grossa somma, un milione di volte la posta.
Erano quindici anni che cercava il quinto numero da aggiungere alla sua quaterna. E lo cercava nel suo spezzone di sogno. Giocava e giocava. Teneva fissa la quaterna, inserendo un numero finale che si proponeva di ricavare prolungando artificialmente la sua visione. Si immaginava mentre mangiava i fichi, numero 18, una possibile colica dopo l’indigestione, numero 9, una conseguente diarrea, equivalente al 52, proteso a baciare il volto della donna, il 73. Artifizi inutili. Faceva tutti questi sforzi perché era convinto che solo se avesse scovato nel sogno il quinto numero avrebbe giocato e vinto.
O cinquina o niente.
Era sicuro che il suo destino di giocatore si sarebbe felicemente concluso qualora avesse trovato il numero da aggiungere ai quattro che considerava inamovibili: 1, 3, 55, 59 e arrivare a comporre la cinquina. La cinquina perfetta e, naturalmente, vincente.
Quindici anni trascorsi a cercare testardamente ispirazioni che gli stimolassero la fantasia notturna. Le situazioni nuove, vissute giorno per giorno, erano considerate un formidabile pungolo a produrre sogni. E dove trovare situazioni sempre nuove se non rinnovando con frequenza l’ambiente abitativo? Aveva letto da qualche parte che nuove conoscenze erano portatrici di una potenza creativa superiore. Anche ciò che lo circondava, se fosse stato sconosciuto, avrebbe offerto maggiore incentivo alla sua immaginazione notturna.
In ossequio a queste sue convinzioni, con la forza dell’ostinazione, cambiava casa all’inizio di ogni anno scolastico.
L’anno scolastico era il tempo considerato utile per conoscere bene il luogo e i vicini, con l’unico scopo di trarre l’estro necessario a rintracciare il numero mancante.
Ad esempio le camere da letto con le pareti una volta imbiancate di azzurro, poi di giallo, poi di verde, comunque di colore diverso rispetto all’abitazione precedente, potevano avere una benefica influenza su di lui. Gli stessi rapporti intrattenuti con i proprietari dell’alloggio, le chiacchiere con i nuovi condomini o gli incontri casuali fatti sulle scale potevano assumere aspetti adatti a sollecitare il suo subconscio. Dopo un anno senza alcun successo, considerava esaurita la sua fonte d’ispirazione e cambiava casa.
D’altronde il trasloco era un affare di poco conto, una semplice formalità. Da trasportare aveva solo libri, vestiario e una cassapanca in cui conservava documenti e fotografie, vestiario, nient'altro. Il resto non gli serviva, l’arredamento lo trovava presso le famiglie dove si sistemava.
Sempre e rigorosamente appartamenti ammobiliati.
L’ultimo trasloco
In quei primi giorni di Ottobre, sarebbe iniziato il suo ultimo anno di insegnamento. Aveva sfruttato tutte le possibili proroghe per procrastinare il suo addio all’insegnamento, tanto che al Giugno successivo, proprio in coincidenza con la fine delle lezioni, avrebbe compiuto sessantasei anni.
Il professore cercava casa per la quattordicesima volta.
Quando seppe di due stanze offerte in locazione si presentò dalle proprietarie, due donne, ma non rimase molto soddisfatto.
Erano mamma e figlia: la mamma, vedova, molto avanti con gli anni di nome Rosa, e la figlia, nubile, poco più che cinquantenne di nome Ortensia, che erano disposte ad affittare una parte del loro appartamento.
Certo la posizione era comoda, con una breve passeggiata sarebbe arrivato sia a scuola che nel centro storico e per lui, che non possedeva né auto né bicicletta, era l’ideale.
Le sue stanze sarebbero state una attigua all’altra, in fondo al corridoio, prima del bagno: una arredata come camera da letto, l’altra come studio. Ma proprio il bagno rappresentava il primo dei due problemi, era in comune con le due donne. Con due donne estranee, insomma non era il massimo. L’altro problema era la mancanza del riscaldamento. Solo in cucina c’era una vecchia stufa in ghisa, rivestita alla base con mattoni rossi, e in bagno l’unica fonte di calore era rappresentata da una stufetta elettrica appesa ad una parete.
Le due donne non se ne preoccupavano troppo in quanto, specialmente d’inverno, vivevano quasi esclusivamente in cucina, in una grande cucina dove mangiavano, guardavano la televisione e lavoravano a maglia.
La signora Rosa, ormai novantenne, se ne stava seduta tutto il giorno nella sua poltrona verde, vicino alla finestra. Il punto più luminoso. Non aveva più molta forza nelle mani e la vista, dopo un po’ di applicazione, le veniva a mancare. Con fatica, lavorava all’uncinetto, a maglie larghe. Era lei che cucinava.
La signorina Ortensia, accudiva la madre, svolgeva i lavori di casa, provvedeva alla spesa. Era lei che avrebbe curato le due stanze assegnate al professore. E questo non era un dettaglio trascurabile.
Con il canone d’affitto si sarebbe pagato anche il pasto serale, momento in cui sarebbe potuto stare in compagnia, guardare il telegiornale, assistere alla commedia che trasmettevano il venerdì. Poteva commentare con loro i fatti della giornata, qualche parola… niente di più. Poca confidenza.
Però quel bagno in comune ... La signora Rosa era anziana e ci sarebbe andata spesso, specialmente di notte. E in quello studio così freddo, come avrebbe fatto d’inverno a leggere, correggere i compiti e dare ripetizione agli studenti?
Gli aspetti negativi pesavano più di quelli positivi.
Quando le due donne videro il professore incerto, diedero il colpo di grazia. Lo fecero di proposito, per la loro naturale onestà e perché in futuro non ci fossero contestazioni. Certo per loro fu un’ammissione grave. Almeno così pensarono. Gli dissero che la signorina Ortensia soffriva di sonnambulismo. Precisarono che il fenomeno non si manifestava tutte le notti, ma con una certa frequenza, almeno due volte al mese. Questa era una delle ragioni per la quale non si era mai sposata, nonostante fosse stata una bella ragazza e fosse una donna ancora molto piacente, in relazione all’età … e un buon partito. Era stata infermiera all’Ospedale Maggiore, godeva di una discreta pensione e aveva qualche risparmio da parte.
Confessarono questo disturbo
con molto pudore, con imbarazzo. Aggiunsero che con il tempo ci si abituava, che al professoresarebbe bastato chiudere a chiave la porta della sua camera per stare tranquillo.
Più loro cercavano di alleggerire la pericolosità del fenomeno, più il professore si sentiva entusiasticamente invogliato ad accettare. Era certo che quello fosse un segno del destino. Come il fatto insolito che le due donne portassero nomi di fiori, Rosa e Ortensia. Non erano della stessa specie di quelli che profumavano nel suo sogno, ma erano pur sempre fiori. Raggiunse il culmine della soddisfazione quando chiese alle due donne in che giorno e mese fossero nate, giustificando la richiesta con sue astruserie astrologiche.
Quando risposero che entrambe erano venute al mondo il 30 Novembre. Crollò!
Dopo il sonnambulismo, i nomi dei fiori, anche questa imprevista rivelazione sulla data di nascita ... il trenta Novembre, Sant’Andrea, il giorno del suo onomastico.
Per poco non si sentì male.
E cosa poteva desiderare di più dal destino?
Con l’aiuto di quelle due donne sarebbe arrivato finalmente alla cinquina perfetta. Era sicuro!
Non contrattò sulla cifra richiesta, diede addirittura l’anticipo di una mensilità. Non gli era stato richiesto, ma lui lo versò come caparra, preoccupato che cambiassero idea. Pagò prima ancora di visitare le stanze che sarebbero state sue.
Le ispezionò il giorno del trasloco.
Un trasloco che in un pomeriggio era già terminato. Fece tutto da solo. Si fece prestare dal macellaio il triciclo con la piattaforma e scaricò gli unici bagagli che andavano dove andava lui: la cassapanca, i vestiti, i libri, tutto depositato al nuovo indirizzo in un paio d’ore.
Le due camere che gli avevano destinato erano accoglienti, niente di eccezionale, ma sufficienti ad esaudire le sue esigenze. Nella prima vide un letto a una piazza e mezzo con testiera in legno di ciliegio, armadio a due ante, sempre in ciliegio, due comodini con il piano in marmo, forniti di lampada con paralume verde, un comò con cinque cassetti con piano di marmo. Sopra quest’ultimo un grande specchio rettangolare, con cornice liscia e dorata. Completavano l’arredamento due tappeti scendiletto di lana grezza verde scuro, una seggiola in paglia di Vienna, un tavolino da lavoro con la parte superiore sollevabile per poter utilizzare il cassetto sottostante, una vecchia poltrona che doveva essere stata molto amata, visto che l’uso continuo aveva provocato lo sprofondamento del sedile; tende bianche ricamate a stella all’unica finestra; un attaccapanni pensile con tre pioli, fissato dietro la porta. Tutto lindo, non un’ombra di polvere. Al centro del soffitto, un lampadario a calotta rovesciata scendeva in mezzo alla stanza. Molto basso in verità, il professore doveva ricordarsi di abbassarsi per non sbattere la testa. La luce era fioca.
La seconda stanza, destinata allo studio, era arredata semplicemente: una grande scrivania di legno chiaro, tre sedie imbottite e ricoperte in pelle, ormai usurata, un attaccapanni a bastone con quattro bracci, un vecchio tappeto Bukara di ampie dimensioni, un lampadario di cristallo bianco a gocce, una lampada su stelo di ottone. E ancora due madie e una libreria con ante di vetro. Sulla parete dietro alla scrivania, sei mensole lunghe un metro l’una formavano una libreria aperta. Solo il piano più basso era occupato da un paio di dizionari e da cinque testi classici: l’Iliade, l’Odissea, I Miserabili, la Divina Commedia e I Promessi Sposi.
Il professore fece rapidamente i conti e constatò che i suoi libri ci sarebbero stati tutti. Disposti in doppia fila.
Il bagno occupava un grande locale in fondo al corridoio.
Con esclusione della cucina e del bagno, tutta la pavimentazione era di legno, assi di legno povero non levigato, diventate grigie nel tempo per l’uso.
Non gli fecero vedere le loro camere da letto.
Poteva adattarsi.
I vicini
Gli inquilini che occupavano gli altri appartamenti si interessarono a lui e non persero occasione di chiedergli come si trovasse nel suo nuovo alloggio. Educatamente rispondeva benissimo, il posto ideale per continuare le ricerche.
Di che ricerche si trattasse, nessuno osò in quei primi momenti approfondire, un po’ perché mancava la necessaria confidenza, un po’ perché il professore chiudeva immediatamente la comunicazione con la scusa di avere un’urgenza da sbrigare. Soprattutto l’urgenza di correre a scuola, senza accorgersi che utilizzava questo pretesto a tutte le ore del giorno, suscitando notevoli perplessità in chi l’ascoltava.
Soltanto il liutaio, che abitava ed aveva il laboratorio al primo piano, una volta distrattamente gli rispose che anche per lui era il posto ideale per le sue ricerche.
Tutti ci tenevano a salutarlo, sapevano che era un professore, un uomo di cultura, uno che dava lustro a tutta quella piccola comunità.
Oltre al liutaio, aveva incontrato quella che viveva con i gatti, l’informazione non andò più in là e il loro numero non fu nei primi momenti chiarito. Altri condomini erano una coppia di giovani sposi, senza figli, sempre allegri e una signora di mezza età, con indosso vestiti sgargianti, le labbra viola, una testa di capelli rossi. Al piano terra viveva un uomo di mezz’età che usciva dalla sua bottega di artigiano per salutarlo togliendosi, in segno di riverenza, il cappello.
Chi abitasse nell’appartamento dirimpetto a quello di Rosa e Ortensia, non lo seppe subito. Notò che gli unici segnali di vita provenivano dallo spioncino della porta d’ingresso al di là del quale gli sembrava di vedere un occhio indiscreto e dalla barra di un chiavistello che andava avanti e indietro tutte le volte che qualcuno saliva o scendeva le scale. Movimenti che lo insospettirono e