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Casa
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E-book71 pagine1 ora

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Info su questo ebook

Una casa labirintica e antropomorfa, ricettacolo di enigmi indecifrabili e specchio abbagliante delle inquietudini del suo creatore, è al centro di questo romanzo sulla perdita dell’identità e della memoria. Una casa contorta come la mente del protagonista, Hal Durbeyfield, un famoso ed eccentrico architetto che, in seguito a un banale incidente domestico, si trova in preda a un’amnesia che gli fa dimenticare gli ultimi quindici anni della sua vita, nella quale risaltano la prematura scomparsa della moglie, una splendida figlia adolescente che crede di non conoscere e il figlio Ally, ormai adulto e distante dal ricordo che permane nella mente del padre. A completare il quadro, un premuroso maggiordomo di nome Clarke, che avrà un ruolo centrale nel processo di ricostruzione cui si vedrà costretto Hal. E proprio la casa, ideata secondo un progetto architettonico spettacolare quanto imperscrutabile, frutto di un apprendistato sui generis che l’ha consacrato come maestro e capofila di un movimento rivoluzionario, sarà la chiave di accesso a un passato carico di esperienze traumatiche e dissidi esistenziali, pulsioni aberranti e scelte fatidiche che hanno compromesso il rapporto con i figli e con il mondo circostante, dal quale Hal si è appartato da tempo, prigioniero della torre d’avorio da lui stesso concepita.
LinguaItaliano
Data di uscita22 set 2014
ISBN9788865640319
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    Anteprima del libro

    Casa - Enrique Prochazka

    Casa

    Casa

    Enrique Prochazka

    Traduzione dallo spagnolo di Natalia Cancellieri

    MIGLIOR LIBRO DELL'ANNO 2004 IN PERÙ 

    © 2004 Enrique Prochazka

    © 2014 Atmosphere libri

    www.atmospherelibri.it

    Across life we wander:

    rafts let to open sea.

    Two drift, alongside for a while

    —or so it may seem.

    Nay —a haunt,

    the stubborn recall of a glimpse

    held over hostile waters.

    A feeble, worthless gaze

    went by ages ago.

    Henry DURBEYFIELD

    UNO

    Una casa vive unicamente

    di uomini, come un tomba.

    César VALLEJO

    Qualcuno (molto più di lui) batté la testa cadendo contro il grosso piedistallo della lampada.

    Niente. (Andava bene così).

    Niente.

    Quindici anni prima, aveva ripreso conoscenza. Ora sorrideva nel ricordarlo: è sempre molto buffo non sapere dove sei, che giorno è, non poter dire con certezza se sei alto meno di un metro e mezzo o più di uno e ottanta, quanti anni hai, eccetera; ma doveva avergli fatto molto male allora, e del sangue quindici anni più vecchio di lui gli sgorgava da un’enorme ferita nel cuoio capelluto.

    Si sistemò un paio d’occhiali malandati trovati mezzi appesi all’orecchio sinistro, si alzò a fatica e, da una porta socchiusa, sporse la testa su una piccola saletta con la moquette. Una ragazzina molto appariscente passò correndo verso sinistra, senza guardarlo. Un individuo maggiordomoso scendeva le scale, diretto a uno dei piani inferiori. Senza rivolgersi a nessuno dei due in particolare, domandò ad alta voce:

    «Ce l’ho uno psichiatra?»

    Un ragazzo smilzo affacciò la testa rasata da dietro un angolo della saletta. Lo fissò, stranito.

    «No», disse.

    «Allora trovamene uno, e alla svelta», sentenziò chiudendo la porta.

    Vide un letto immenso e desiderò fosse suo; si augurò che fosse abbastanza suo da poter sporcare il cuscino di sangue. In quel momento vide anche un grande specchio in fondo alla stanza e ci ripensò.

    Nel vetro contemplò sé stesso e anche la novità di essere chiaramente un sé stesso così altro. Perché stava accadendo qualcosa di strano. Sotto la vestaglia e coperto da notevoli strati di grasso, si intuiva, ben nascosto, lo stesso corpo atletico di cui un tempo andava orgoglioso: ma decisamente più cadente, attraversato da una maggiore gravità. La testa grande e a punta era la stessa. Ma il volto era Qualcuno, con la maiuscola, e molto più di lui. Molto più vecchio di lui: Qualcuno sembrava avere almeno cinquant’anni e un terribile aspetto da poeta in gabbia, tenebroso e maledetto da sembrare banale. Si tolse gli occhiali e scoprì che adesso era miope. Si rassegnò al fatto che dovesse essere quella montatura d’oro storta e minuta, con entrambe le lenti segnate, a rivelargli i particolari. Una barba bianca e incolta gli nascondeva parte del petto; la chioma da vecchio leone che aveva perso ormai da tempo il comando del branco lasciava intravedere degli sporchi coaguli scuri sul lato sinistro. Le gambe e i piedi palesavano un pallore adiposo che aveva di certo conquistato vaste provincie del suo organismo; un pigiama liso gli impediva di appurarlo. Comunque continuava a trovarsi simpatico; dopotutto era sempre lui, e a quanto pareva era riuscito a metter su una casa con tanto di maggiordomo. Che era senz’altro l’assassino.

    «Papà, stai bene?»

    Il ragazzo senza capelli aveva solo metà del corpo nella stanza. La parte che era rimasta fuori sembrava pronta a fuggire alla prima occasione, e l’altra – che comprendeva la testa – denotava un sommo stupore, chissà se causato dal suo stesso comportamento temerario. Papà, aveva detto. È mio figlio, pensò Hal, e in quel momento si accorse che per la prima volta dal colpo in testa si stava pensando con il suo nome di un tempo, quello di un certo io piccolo e antico ora ammantato dall’imponente e vetusta attualità di Qualcuno: qualcuno che il suo stesso figlio temeva visibilmente. No, non sto bene: ma non te lo dirò; vediamo cosa riesci a scoprire, vediamo cosa riesco a scoprire io per primo.

    «Certo che sto bene. Ho solo bisogno di uno psichiatra. Hai già fatto quella telefonata? Falla», aggiunse quando il ragazzo negò con la testa.

    Allora, per la prima volta, guardò davvero il ragazzo, lo guardò negli occhi attraverso quindici anni di oblio, di inesistenza.

    «Aleister? Sei davvero tu, Ally?»

    Questo finì per disarmare il ragazzo, che non era Ally per nessuno da troppo tempo. Entrò nella stanza.

    «Stai… sanguinando».

    «Sì, sono caduto… Credo di aver sbattuto contro il piedistallo della lampada». Perfino a lui sembrò poco credibile.

    «Fammi vedere. Siediti lì sul letto».

    Delle dita maldestre cominciarono a ispezionargli il cuoio capelluto. Non appena le sentì, Hal capì che quelle dita, per timore o per la distanza, non lo toccavano da molto tempo. Capì che era colpa sua: che aveva instaurato lui la distanza, che era lui la fonte del timore. Volle credere che sarebbe stato anche facile rimediare a tutto ciò; che in passato poteva essere stato quel Qualcuno tirannico e terribile, ma che adesso sarebbe stato di nuovo semplicemente… Hal. Sdoppiato, spettatore della sua stessa condizione, si domandò quale attività professionale potesse svolgere visto che mostrava una tale sensibilità per l’oltraggiato campo vitale del prossimo. Senza alcuna coerenza, come risposta si insinuò nella sua coscienza un’etichetta: progettista. E subito un’altra. Anna.

    «Dov’è tua madre?» sparò, senza poterlo evitare.

    «Hai bisogno di un medico, direi. Hai un taglio enorme e un bernoccolo che sta crescendo. Chiamo Clarke, così ti vede… Clarke! Papà ha bisogno! Signor

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