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Il circo fatato
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E-book238 pagine3 ore

Il circo fatato

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Info su questo ebook

È la storia di un piccolo circo, dei suoi componenti e, soprattutto, del suo proprietario, nonché capocomico e attore principale, Antonio Viganò, persona alquanto arguta e sagace. Quest'ultimo, insieme al suo gruppo di “artisti”, dovrà affrontare diverse vicissitudini e peripezie fino alle estreme conseguenze.

È una fiaba? Un romanzo? Forse tutto questo e anche di più, molto di più.

Per approfondimenti andare sul sito: http://www.ilcircofatato.it
LinguaItaliano
Data di uscita2 lug 2012
ISBN9788863699425
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    Anteprima del libro

    Il circo fatato - Sconosciuto

    srl


    I

    Quei carrozzoni arrivarono in fila indiana, come fossero un tutt’uno. In un primo momento sembrava non sapessero dove andare, tante furono le direzioni che presero. E sbuffavano, e rumorosamente si lamentavano; poi parevano quasi arrancare; e si sforzavano, si tendevano, e scalpitavano, in un’alternanza confusa e incontrollata; poi, ancora, cercavano di chiamare a raccolta tutte le proprie residue forze per poter in qualche modo continuare. E infine, dopo un ultimo sussulto, sembrarono voler dire chissà cosa, ma quella definitiva fermata valeva più di qualsiasi parola.

    Fortuna volle che erano giunti in uno spiazzo, abbastanza grande, non asfaltato, mentre il frastuono della città si sentiva più che mai.

    Scese, dapprima, un tipo dall’aspetto alquanto curioso che si guardò intorno, dopodiché fece cenno agli altri di scendere.

    L’inverno, ormai, stava per arrivare e Antonio Viganò, proprietario, nonché capocomico e attore principale di quel piccolo circo, pensò che quello poteva essere il luogo adatto per svernare, in attesa di riprendere poi, alla grande, come sempre del resto, non solo nel proprio Paese, o in parte di esso, ma, nei limiti del possibile, almeno fin dove quei carrozzoni erano in grado di arrivare, anche oltre i confini nazionali, il loro giro, al ritorno della bella stagione.

    Per alcuni giorni dovettero correre da un ufficio all’altro per chiedere le solite autorizzazioni burocratiche che, normalmente, si risolvevano in poche ore, ma trattandosi di una permanenza lunga, di mesi, erano più lente e laboriose.

    Quindi, una volta ottenute, iniziarono a fare la pubblicità – in quel quartiere, ma pure oltre –, con un pulmino piuttosto malridotto (provvisto, tra l’altro, di un altoparlante anch’esso in pessime condizioni), dicendo che si sarebbero fermati per diverso tempo e che avrebbero fatto, ogni settimana, due spettacoli: il sabato sera, in particolare per gli adulti, e la domenica pomeriggio per i bambini; ma ovviamente chiunque era gradito e il divertimento veniva assicurato a tutti. Inoltre si metteva in evidenza che l’ambiente sarebbe stato riscaldato e che, ogni volta, avrebbero cambiato sia il programma sia la rappresentazione. Si specificava, altresì, che l’ingresso era libero, ma chi l’avesse voluto poteva fare un’offerta, dando ciò che voleva (abitualmente, a metà spettacolo, passava uno di loro, con un cappello in mano, a raccogliere la generosità dei presenti, che non in tutte le parti, a dire il vero, si dimostrava tale).

    Del resto quella gente, da come si poteva vedere, non cercava la fama e la ricchezza, ma soltanto un minimo di considerazione e un modesto contributo per poter soddisfare le loro già limitate esigenze giornaliere. I carrozzoni, dove peraltro vivevano, erano in uno stato pietoso, tanto che i più si chiedevano com’era possibile che si tenessero ancora in piedi e, soprattutto, che potessero camminare; il tendone era rattoppato in più parti, mentre quel tanto sbandierato riscaldamento era prodotto da una grande stufa sulla cui efficacia non c’era molto da contare.

    Sembrava, insomma, almeno all’apparenza, più una carovana di nomadi che di artisti circensi; e invece, a mano a mano che le settimane passavano e gli spettacoli, quindi, diventavano sempre più numerosi, si poté notare che le loro rappresentazioni, soprattutto serali, pur non tradendo un certo spirito da guitti e teatranti, mettevano in mostra una capacità straordinaria di avvincere e calamitare l’interesse di tutti i presenti. E infatti la pista, che la domenica pomeriggio faceva divertire in particolare i più piccoli, ma non solo loro, il sabato sera diventava una sorta di palcoscenico, dove venivano rappresentate farse, scene buffe, e anche commedie e tragedie di autori classici o no. E le loro interpretazioni passavano dal comico al drammatico, dal grottesco al serio, con la massima disinvoltura, senza tradire l’aspetto degli uni e degli altri; e il proprietario, nonché capocomico e attore principale, Antonio Viganò, che era, tra l’altro, un tipo alquanto arguto e sagace, li sapeva dirigere con grande maestria.

    Pareva, in sostanza, una specie di carro di Tespi, o magari una compagnia di giro, che poteva sembrare e rappresentare tante cose insieme: spettacolo comico e circense, commedia dell’arte, teatro classico e shakespeariano, passerella di esibizioni varie. C’erano attori, e pure attrici naturalmente, quasi tutti per la verità, ma sarebbe meglio dire una buona parte, piuttosto attempati, che diventavano all’occorrenza, in modo ovvio nei limiti del possibile, suonatori, pagliacci, saltimbanchi, acrobati, giocolieri, trapezisti, prestigiatori e altro; c’era, inoltre, un ex campione di boxe, che faceva però, soprattutto, l’uomo di fatica (anche in questo, comunque, tutti collaboravano in uguale misura), ma che qualche particina, negli spettacoli di poco conto, tuttavia pur sempre tali, gliela facevano fare, tra l’altro con risultati più che soddisfacenti. Poi, ancora, un nano che si chiamava Romolo e, come unici animali, una scimmietta, molto astuta, che faceva il suo numero mantenendosi in equilibrio su una corda tesa, in bicicletta, senza mani, che teneva impegnate facendo passare delle palline dall’una all’altra; Furbina, questo era il suo nome, riusciva sempre a far scoppiare in risate fragorose i presenti e a suscitare in loro ammirazione ed entusiasmo, così come l’altro, il quale era un cagnetto che si esibiva in numeri a dir poco fantastici: e saltava, e quasi volava – veniva infatti chiamato, forse con una denominazione un po’ adattata, ma del resto non poteva di certo essere altrimenti, Rondino –, e camminava su due zampe, e colpiva più volte di testa una palla, e… Erano, in definitiva, delle vere star, e alla fine l’applauso del pubblico, senza nulla togliere agli altri, era quasi esclusivamente per loro.

    Si trattava, in poche parole, di un circo all’antica, di tradizioni lontane, dove ognuno si adattava a fare tutto o quasi, che all’inizio, quando l’attore principale era un bambino, o non era ancora nato, e le strade e il traffico e le usanze stesse a quel tempo lo consentivano, e in zone, per ovvi motivi, alquanto limitrofe, girava con dei carrozzoni trainati da cavalli, senza tendone; le rappresentazioni, pertanto, si tenevano all’aperto. Ma anche in seguito, spesso, nei periodi di maggior caldo, rinunciavano a mettere quella specie di copertura.

    C’è anche da dire che gli spettacoli invernali non potevano essere giornalieri, come quando erano in tournée, sia per il repertorio, che, seppur vasto, non era illimitato (qui stavano mesi, lì, nelle varie città o paesi dove si fermavano, alcuni giorni), sia per il fatto che con il freddo, il lavoro, la scuola, durante la settimana chi ci sarebbe andato?

    La presenza di quel gruppo, nel quartiere – abitato prevalentemente da famiglie di operai, impiegati, pensionati, e anche di immigrati, inserite, queste ultime, in modo perfetto e stabile nel contesto sociale e lavorativo –, ma non solo in esso, cominciò a suscitare, a poco a poco, un interesse sempre più grande, e tutti, o quasi, avevano fatto amicizia con i suoi componenti.

    Le giornate erano lunghe, sembravano non passare mai, e Antonio Viganò aveva preso l’abitudine di trascorrere il suo tempo libero in un locale vicino, il bar Astrakan; ne era anzi divenuto un cliente assiduo, e i frequentatori, persone semplici e sincere, essendo in buona parte spettatori abituali di quelle originali rappresentazioni, lo avevano eletto loro idolo. E allora il capocomico, il quale, come già accennato, era un tipo alquanto arguto e sagace, si sbizzarriva nei racconti della sua vita, forse, a volte, fin troppo romanzati, che riuscivano sempre, in ogni caso, ad affascinare i presenti. E passava dall’epico al lirico, facendo, ogni tanto, una capatina anche nel filosofico.

    «Quanto è curioso il tutto!» disse una sera. «Nasciamo, cresciamo, e durante questo corso naturale c’è chi cerca, in tutti i modi, di accumulare, di arricchirsi, chi, invece, di capire, di arrivare a conoscere una qualche verità, altri ancora, magari attraverso la fede, di guardare oltre la propria esistenza, per superare le difficoltà del vivere e per meglio sopportare, quindi, le sofferenze, le privazioni. Ma se il destino sembra segnare in modo inesorabile la vita degli uomini, questi, sia chi cerca una cosa o l’altra sia chi agisce in una certa maniera, paiono guardare all’ultimo atto del loro corso naturale come a un qualcosa di immaginario o di infinitamente procrastinabile. Eppure esso è lì, in ogni istante della nostra esistenza; e allora basterebbe rendersi conto di questa semplice e indiscutibile verità per meglio comprendere il tutto e guardarlo in modo più libero ed efficace.»

    Poi, dopo aver fatto un sorso dal suo bicchiere di vino e una specie di lunga e lenta tirata dal sigaro, spento, che aveva in mano, cercando di gustarne al meglio il piacere e il sapore (essendo vietato fumare nei locali pubblici, per nessuna ragione, anche se di certo glielo avrebbero permesso, l’attore principale sarebbe mai venuto meno al rispetto di tale legge), sospirando e guardando con intensità i presenti, che stavano quasi imbambolati, così continuò: «Ma tutto questo, forse, accadrà sempre, sino alla fine dei nostri giorni».

    Al che quelli sembrarono provare come un senso di liberazione, quasi che tutte le colpe di questo mondo le avessero sentite su di loro.

    Frattanto le festività natalizie stavano per arrivare e Viganò, d’accordo con i suoi, decise di fare, in quel periodo, spettacoli giornalieri: al pomeriggio sempre per i bambini, ma non solo, alla sera per i più grandi. La decisione, naturalmente, fu accolta dagli spettatori abituali con molto entusiasmo.

    E infatti il successo fu enorme e la loro bravura tale che si sparse in buona parte della città, che pure era grande, tanto che in alcuni giorni non tutti trovavano posto a sedere e, addirittura, molti dovevano tornare indietro perché era impossibile anche entrare.

    Oltre a Furbina e Rondino, chi suscitava un notevole interesse e strappava scrosci di applausi era un gruppo di ragazzini, maschi e femmine, di varie età, che, con vestiti di diversi colori e le facce truccate da clown, si esibivano in acrobazie spettacolari e altre cose ancora. Sembravano, insomma, davvero scatenati, e lo facevano con una naturalezza, una spontaneità e un entusiasmo tali che riuscivano a contagiare tutti i presenti, figli, genitori, nonni, in una maniera pressoché unica e indefinibile.

    Eppure dietro quei volti, quasi mascherati, si nascondevano ferite ancora sanguinanti, che difficilmente, forse, si sarebbero mai rimarginate, ma che il capocomico e i suoi facevano il possibile per far sì che ciò accadesse.

    Quello che stiamo per raccontare, diciamo riferire, crediamo che ad Antonio Viganò non farebbe in modo particolare piacere, perché non ha mai sopportato il vanto, l’ostentazione, in generale, come principio, figuriamoci se rapportati a lui, alla sua persona. Ma a volte è giusto dare merito a quelli che, all’insaputa di tutti, compiono azioni degne di essere rivelate, anche contro la loro volontà, perché comunque, prima o poi, ci sarà sempre qualcuno, abituato ad agire nell’ombra per tramare, complottare, ordire, che si approprierà del buon operato altrui per farne, magari, un vessillo della sua ben nascosta cupidigia, senza limiti e onore.

    Dunque: qualche anno prima, anzi, forse più di qualche anno, diciamo pure diversi ormai, verso la fine di una delle solite tournée, capitarono una mattina nella capitale di un paese dell’est – cosa strana, non si erano mai spinti così lontano –, che era da un certo tempo uscito, in seguito alla caduta del muro di Berlino, dal comunismo.

    La città sembrava un immenso mercato, con centinaia di chioschi, bancarelle e quant’altro che riempivano i marciapiedi, e non solo, offrendo ogni tipo di prodotti. Non si meravigliarono più di tanto, poiché avevano sentito dire che in quel Paese il reddito era molto basso e tutti si arrangiavano in qualche maniera, dato che vi era, ormai, una permissività quasi assoluta. Ecco perché pensarono molti nostri imprenditori, a quanto pare, grandi e soprattutto medio-piccoli, negli ultimi tempi sono venuti qui a impiantare dei cicli di lavorazione, sia per il bassissimo costo della mano d’opera sia per la totale assenza di garanzie sindacali! Inoltre, sempre a ciò che si diceva, c’era anche, in particolare per necessità, una qualche facilità di costumi. Quindi quei ‘signori’ che cosa possono desiderare di più? si chiesero con amarezza. Certo, hanno portato un po’ di benessere forse, ma a che prezzo? E con quali conseguenze? E poi… e poi…

    Faceva ormai freddo. Si fermarono in una piazza grande, e vista l’enorme folla, pensando, come in effetti era, che non fosse necessaria alcuna autorizzazione, avendo già il permesso di soggiorno, dopo aver preparato in fretta il tutto, iniziarono, all’aperto naturalmente, quasi da veri e propri artisti di strada, quali del resto erano, a fare i loro numeri: da giocolieri, acrobati, pagliacci e così via – quando si trovavano all’estero, per ovvi motivi linguistici, facevano soltanto spettacoli circensi.

    A mano a mano le sedie furono completamente occupate e tutt’intorno si era radunata gente anche in piedi, quando, all’improvviso, si sentirono delle urla. Si trattava di alcuni bambini, maschi e femmine, di varia età, sporchi, cenciosi e puzzolenti, che erano stati presi a calci e schiaffi da alcune persone perché se ne andassero via. Ciò che meravigliò Viganò e la sua compagnia fu che nessuno prese le loro difese e che, anzi, la maggior parte dei presenti istigava a proseguire, fino a quando quelli si dettero alla fuga con grande rapidità.

    Il pomeriggio, visto il successo, fecero un nuovo spettacolo e, dopo un po’, il capocomico notò che in piedi, davanti a tutti, c’erano quei bambini che erano stati malmenati la mattina, con altri ancora, anche loro sudici e laceri, che guardavano silenziosi ed estasiati. Il proprietario del circo, onde evitare ciò che era accaduto, gli si avvicinò e, vedendo che stavano per scappare, lì invitò, con dei gesti e con la massima dolcezza, ad avvicinarsi, facendoli accomodare a fianco dell’ipotetica pista, vicino a lui, pronto, senza darlo a vedere, a bloccare qualsiasi forma di intemperanza contro di loro. E così la sera e il giorno seguente e quello dopo ancora. E ogni volta aumentavano sempre di più, fino a che Viganò venne a sapere che erano conosciuti, e disprezzati da tutti, come i bambini delle fogne.

    Abbandonati dalle famiglie o fuggiti dagli orfanotrofi, avevano trovato un rifugio e un riparo nei sotterranei della città, vicino ai grandi tubi dove passava l’acqua bollente che la riscaldava, insieme ai topi e ad altri piccoli animali o insetti non proprio belli a vedersi e tantomeno a conviverci. La porta d’ingresso di quella loro casa era, naturalmente, il tombino.

    Al che il capocomico, non potendo lasciare le cose senza sapere, senza conoscere meglio la situazione di quei poveri piccoli disgraziati, dopo alcuni giorni, anche se era già arrivato il momento di ripartire, decise di rimanere ancora. Nel frattempo, per accattivarsi la loro fiducia e simpatia, gli dava spesso da mangiare, e sia lui sia i suoi li trattavano con tutto l’amore possibile. E dagli oggi, dagli domani, alla fine riuscì a convincerli che non tutto era brutto nella vita e che a volte fidarsi poteva anche essere piacevole. E così, una sera, alla domanda – fatta cercando di spiegarsi a gesti –: «Ma dove vivete?», quelli lo presero con dolcezza per mano e lo portarono all’inferno, dove, evidentemente, anche gli angeli possono avere dimora, forse per capire bene, per poi nel caso riferire a chi di dovere, una volta venuto il momento, come ci si vive.

    Scoprirono un tombino, dopodiché aiutarono Viganò a scendere per una scaletta di ferro ripida e pericolosa, quindi si trovarono davanti a una specie di labirinto formato da più cunicoli. Aprirono una porticina, ancora un’altra scala, e arrivarono nelle caverne attraversate da grossi tubi dentro i quali scorreva, appunto, acqua calda; quella era la loro casa, lì vivevano decine, centinaia, forse, anzi di sicuro, migliaia di bambini dimenticati da tutti, anche neonati (almeno quelli che ce la facevano a nascere e a sopravvivere, anche se la maggior parte, purtroppo – purtroppo? Mah! –, per poco tempo), figli, può darsi, di quella dannazione o frutto di una o più prestazioni, effettuate, magari, soltanto per un misero pezzo di pane. Perché per sfamarsi erano costretti a fare di tutto: rubare, chiedere l’elemosina, rovistare tra i rifiuti; ma anche prostituirsi, maschi e femmine, e diversi di loro, spesso, non ritornavano più, probabilmente per il fatto di essere finiti, a loro insaputa, in chissà quale tremendo giro. Tanto chi li avrebbe cercati? Chi li avrebbe mai pianti? E quando i morsi della fame si facevano insopportabili e non avevano altra scelta, per placarli inspiravano, da un sacchetto di plastica, una colla che trovavano con pochi spiccioli, una sorta di droga dei poveri che devasta i polmoni e provoca seri danni neurologici.

    Ognuno aveva fatto in modo di crearsi qualcosa che potesse assomigliare, in qualche maniera, a un focolare domestico; e così vi erano tendine stracciate, scatole di qualsiasi tipo e materiale che facevano da tavolo o altro, dei materassi, oltretutto molto sporchi, e varie altre cose raccattate sicuramente nelle discariche. Comunque il caldo, prodotto da quei grossi tubi, era insopportabile, tanto che i più, dormendo per terra, essendo il pavimento quasi bollente, ci mettevano sopra un cartone, altrimenti sarebbe stato impossibile resistere. Ma anche così, unito al tanfo che si respirava, era troppo per il capocomico, che per tutto il tempo che stette con loro dovette più volte tornare in strada per prendere un po’ d’aria e poi andare di nuovo giù. Nonostante ciò quella notte cambiò la sua vita.

    Disse ai suoi di proseguire la tournée senza di lui, che rimase lì fino alla scadenza del permesso di soggiorno, al fine di cercare di capirli e conoscerli meglio. A poco a poco si abituò a vivere lì sotto, senza avere più bisogno, specialmente la notte, che era il periodo più lungo di permanenza in quelle caverne, di correre sopra, all’aria aperta, per respirare. Poi, pian piano, anche se a fatica, imparò qualche parola della lingua del luogo, ed essi della sua, con una facilità, invece, sorprendente; e incominciarono, quindi, a capirsi sempre di più. E allora, vista l’intelligenza, la predisposizione che vi era in buona parte di loro, un giorno il capocomico disse: «Perché non cercate di uscire fuori da questa specie di ghetto e diventare, magari, dei teatranti, dei pagliacci, degli artisti del circo come me? Vi insegno io, lo farò con tutto il cuore!».

    I più intraprendenti accolsero subito, con entusiasmo, la sua offerta, anche perché, oltretutto, di sicuro pensarono, quella era la prima persona che li trattava da esseri umani, che credeva in loro, che era scesa sotto, in quelle caverne, per respirare la stessa aria, mangiare il medesimo cibo, per sentire quei cuoricini battere a volte quasi impazziti, e cercare di calmarli, di infondergli speranza, pace, forse amore, con una carezza, un abbraccio e, a quelli più impauriti, timorosi e bisognosi d’affetto, anche con un bacio.

    E così impararono, giorno dopo giorno, i diversi trucchi del mestiere, e una volta raggiunto un certo livello di preparazione incominciarono a esibirsi sulla grande piazza travestiti da clown – Viganò si era fatto lasciare dai suoi alcuni attrezzi, pensando, come poi si era verificato, che gli potessero tornare utili durante la sua permanenza lì, in quel posto. Fu un successo, che si ripeté per diversi giorni. E chi prima li prendeva a schiaffi e a calci correva, forse inconsapevolmente, anzi, senza forse, a vedere quegli spettacoli per poi applaudirli.

    Dopodiché, quando il permesso di soggiorno stava per scadere, la carovana del capocomico passò a riprenderlo. Ma quest’ultimo non

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