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La tagliatrice di vermi: e altri racconti
La tagliatrice di vermi: e altri racconti
La tagliatrice di vermi: e altri racconti
E-book148 pagine2 ore

La tagliatrice di vermi: e altri racconti

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Info su questo ebook

È un’Italia intrisa di superstizione e religione, di tradizioni e sentimenti, quella ritratta nei sette racconti della raccolta che stringete fra le mani. Una voce bianca, i fascisti e le streghe masciàre. Una donna che si fa beffe del prete. Le faide familiari condite di pettegolezzi e dicerie… e molto altro. La vita fra i vicoli della Città Vecchia di Bari, fra panni stesi e orecchiette fresche, edicole votive e profumo di caffè, quello offerto agli ospiti nel segno della migliore accoglienza italiana. Preparatevi a entrare in un mondo d’altri tempi, a respirarne il “profumo” e a gioire, temere, amare con i personaggi di questi racconti. Perché a volte nel passato si nascondono gli insegnamenti più importanti.
LinguaItaliano
Data di uscita18 apr 2020
ISBN9788884595829
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    Anteprima del libro

    La tagliatrice di vermi - Gaetano Barreca

    Bari.

    Parte I – Racconti

    L’Arco della Neve – settembre 1943

    1

    «Riprova!» lo rimproverò il maestro di canto. «Le mani non vanno entrambe alla pancia. Metti le dita della destra appena sotto il pomo d’Adamo. Devi sentire le corde vocali vibrare, ti ho detto.»

    Cercando di non far brontolare troppo lo stomaco, puntando con gli occhi un pezzo di pane nero stantio sulla dispensa di don Cesare Franco, Alfredo provava e riprovava il Salve o Nicola Fulgido . Era determinato a fare una bellissima figura alla Basilica, quella domenica. Il maestro gli ripeteva sempre che, secondo Sant’Agostino, una bella voce bianca poteva arrivare a Dio e dunque avere più efficacia di mille preghiere. Alfredo credeva fermamente a quelle parole. Tanto da aver promesso ai suoi amici, Rosa Mininni e Michele Romito – e soprattutto a tutta la Città Vecchia –, che avrebbe perfezionato così bene l’intonazione del suo canto che San Pietro avrebbe spalancato i cancelli del paradiso per farlo arrivare a Dio. Il Signore avrebbe ascoltato la sua supplica e, insieme a Gesù, San Nicola e a tutti i santi, avrebbe messo al più presto fine a quell’orribile guerra.

    «Riprova!» lo esortò ancora il maestro.

    Alfredo drizzò la schiena pronto a prendere fiato, quando la sua attenzione fu catturata all’improvviso da un urlo proveniente da fuori. Che succede? si chiese. Fece un balzo fino all’infisso, per vedere oltre i vetri offuscati dalla polvere dei detriti. La sagoma del castello si stagliava in lontananza. Tra le sbarre di legno della finestra intravide un uomo dimenarsi dal pianto e dal dolore, mentre si faceva strada tra i muri abbattuti. Alfredo riconobbe il nonno di Rosa correre con affanno verso l’Arco della Neve, dove il figlio aveva la neviera. Era storpio, l’uomo, e quella fretta non era da lui.

    «Alfredo, che fai? Non distrarti» lo richiamò con crescente severità il maestro. «Alfredo!»

    «Stanno arrivando!» squarciò il meriggio la voce dell’anziano. «Sono già al teatro, al Piccinni! Hanno detto che vogliono trovare tutte le finestre spalancate. Spare…» gli si mozzò il fiato. «Spareranno, per Dio! Dicono che spareranno contro le persiane chiuse.» Pianse sconfitto e come fosse un corpo privo di vita si lasciò cadere sul terreno, sbattendo le ginocchia già deboli sulle macerie di quel quartiere in cui non erano rimaste che poche anime. «Hanno minacciato di voler entrare alla neviera! Io non lo so quello che cercano.»

    Alfredo portò lo sguardo incredulo e spaventato al maestro, che lo raggiunse alla finestra. Non riuscendo a capire cosa stesse accadendo, con forza staccarono i chiodi dalle assi, poste per impedire il frantumarsi dei vetri durante un probabile bombardamento del vicino porto. Infine spalancarono le ante, facendo cadere uno strato di cacate secche di colombi. Affacciati sulla piazza del castello, videro l’insaccaneve uscire di corsa da sotto l’Arco per soccorrere il padre e poi continuare il messaggio interrotto: «Vogliono vedere tutte le donne affacciate…» gridò «alle finestre, ai balconi e ai muretti, con le mani bene in vista. Spareranno alle finestre chiuse!»

    «Ascoltate tutti!» si aggiunse al grido una marmaglia di adolescenti che rientrava dal lavoro al porto. Arrivarono con camicie lacere o solo calzoncini. «Gli alleati vogliono vedere tutti fuori. Scendete in strada. Presto!»

    Con il maestro e i vicini, Alfredo si fiondò in strada. Alcuni di loro erano a piedi nudi, sulle spalle e tra le braccia coperte afferrate di gran fretta per l’improvvisa evacuazione e negli occhi una profonda paura. Erano per la maggior parte donne, con in braccio infanti o bambini denutriti. Gli uomini in salute erano tutti in guerra.

    Michele Romito, che come gli altri ragazzi lavorava al porto vecchio per aiutare gli alleati tedeschi, raggiunse gli amici schierati davanti all’Arco della Neve, quasi a bloccare l’ingresso alla Città Vecchia. Anche Rosa era in strada e, dopo averla rassicurata con un abbraccio, Michele guardò con speranza Alfredo, per sapere se la sua voce bianca avesse sortito qualche risultato. Alfredo alzò le spalle e dichiarò la disfatta con un movimento di dissenso della testa.

    «Michele! Michele!» Gli fece distogliere lo sguardo il padre di Rosa, l’insaccaneve. «Vieni dal porto, vero?»

    «Sì, signore!»

    «Che sta succedendo?»

    «Un gruppo della Gioventù Italiana del Littorio ha scatenato una sommossa dicendo di voler raggiungere la Città Vecchia. Erano armati, ma a quanto si sa il Generale Bellomo è riuscito a fermarli chiedendo spiegazioni. Noi abbiamo avuto il permesso di lasciare il porto di corsa per il rischio di un conflitto a fuoco. Pensavamo fossero gli inglesi.»

    «I G.I.L.? Ancora quei montati di testa…»

    «Siamo salvi, allora?» chiese una donna avvicinandosi. «La radio ha detto che il Duce ormai è stato deposto. Non ci succederà nulla, vero? Nessuno ci farà del male. La guerra è quasi finita.»

    «La guerra finirà quando i nostri uomini ritorneranno a casa» disse severa una vicina.

    Da lontano, il vento soffiò un canto crescente.

    Duce, Duce, chi non saprà morir?

    Il giuramento chi mai rinnegherà?

    Snuda la spada! Quando Tu lo vuoi,

    gagliardetti al vento, tutti verremo a Te!

    «Pare che belino» disse il maestro schernendoli.

    Armi e bandiere degli antichi eroi,

    per l’Italia, o Duce, fa balenar al sol!

    «Stanno arrivando! È stato un diversivo!» gridò la donna presa dal panico. «Vogliono entrare all’Arco.»

    «State calmi. Tutti calmi!» strillò l’insaccaneve.

    «È tutta colpa vostra! Non avreste mai dovuto…»

    «State calmi! Cerchiamo di non farli entrare in città o sarà un massacro.»

    «Presto!» si affrettò Michele spintonando i ragazzi per invitarli all’azione. «Dobbiamo spostare gli armamenti!»

    «No!» fece ostruzione l’insaccaneve. «Non possiamo creare sospetti. Sparerebbero all’impazzata. Lasciamo tutto qui, lasciamo la neviera incustodita.»

    «Ma così…»

    «Esegui gli ordini, ragazzo! Quando sarà finita, trasporterò tutto in un altro luogo.»

    L’insaccaneve non si stupì che i ragazzi sapessero cosa era custodito nella neviera. Anche se quei giovani erano stati allevati al principio nazionalista di libro e moschetto propagandato dal regime, pochi avevano gradito l’alleanza nazifascista del Duce e ancor meno il passo indietro del Re Vittorio Emanuele III, che aveva dato pieni poteri a Mussolini. Eppure, ora che le valutazioni politiche che avevano indotto anche alcune alte sfere delle gerarchie fasciste a destituire, sfiduciandolo, il Duce, per trarre l’Italia fuori dal conflitto mondiale e dunque prendere accordi con i nemici anglo-americani, il popolo sperava si arrivasse all’epilogo. Una speranza sicuramente vana, visto che si sapeva che Hitler non avrebbe gradito la perdita del suo alleato, ma intanto a Bari Vecchia tutti erano fiduciosi nel successo della voce bianca del piccolo Alfredo. Nonostante i venti di cambiamento, però, nelle città e nei piccoli centri alcune teste calde non avevano capito le scelte politiche del passo indietro del Duce e, in preda ai fumi del potere e del comando, i Giovani Fascisti continuavano a perseguire la lotta non contro i nemici della Patria, ma contro il popolo stesso, cercando di sottometterlo e governarlo a proprio piacimento.

    «Eccoli!» tremò la donna.

    Per il Duce, o Patria, per il Re!

    A Noi! Ti darem

    Gloria e Impero in oltremar!

    Il manipolo dei cinque G.I.L. si fermò all’ingresso dell’Arco della Neve. Puntarono le mitragliette verso l’alto alla ricerca di finestre chiuse. Spararono alcuni colpi ai piani superiori, seminando il panico tra la gente. A capo dei fascisti, in uniforme di Fanteria del Regio Esercito, con le fiamme a due punte gialle e rosse al bavero, sguardo fiero, mento alto e il berretto di fatica, il fez nero, calcato in testa, si fece avanti Vittorio, Vittorio u zèppe .

    «Vedo che siete tutti qui!» si introdusse con far smargiasso.

    Molti in città sapevano che la sua spavalderia era una farsa. Nel ‘40 i battaglioni di 25.000 giovani che avevano sfilato alla Marcia della Giovinezza, per manifestare il loro entusiasmo nel partecipare alla guerra, erano stati smobilitati senza una vera spiegazione e invitati a rientrare a casa. Facendo parte del V Gruppo, accampato alla Fiera Campionaria di Padova, Vittorio Bottalico arrivò ad ammutinarsi insieme a duemila volontari, incendiando un padiglione per non eseguire l’ordine andarsene. Si presentò poi tra i volontari ordinari senza vincoli di ferma per combattere al fronte russo, tuttavia fu il Duce in persona a dare parere contrario, perché quelle unità non potevano essere composte da ragazzi e i giovani volontari sarebbero invece andati in Libia. Vittorio si rifiutò. Ripose i valorosi settimanali illustrati Balilla, spaventato dalla partenza per l’Africa, e si pugnalò alla gamba per essere esonerato. Da qui prese il soprannome di Vittorio u zèppe, (lo zoppo).

    I G.I.L. si aprirono la strada puntando i fucili, per raggiungere la porta in metallo della neviera. Il popolo aveva paura. I fascisti bussarono con insistenza. «Aprite! Aprite!» sbraitava Livio, un sottoposto di Vittorio.

    Il maestro avanzò. «Sono don Cesare Franco, della Basilica di San Nicola, che cosa succede?»

    «Che cosa succede?» fece eco ridendo Livio. «Iniziamo proprio male.»

    Vittorio fronteggiò l’anziano maestro. «Abbiamo saputo che una donna è stata trovata morta qua, nella Città Vecchia. Dobbiamo ispezionare le case.»

    «Una donna morta, ma di cosa parlano?» bisbigliò Rosa guardando Michele e Alfredo.

    «Abbiamo da tempo notato movimenti strani qui intorno e abbiamo il sentore che il corpo sia nascosto nella neviera. Chi è il proprietario?»

    Nessuno rispose.

    «Chi è l’insaccaneve di questo posto?» tuonò il ragazzo.

    «Sono io.» Il padre di Rosa si fece avanti tra la folla.

    «Apra la porta!»

    «Come volete, ma non fate male a nessuno.» L’insaccaneve sapeva che era la sua fine. Alzò le sopracciglia guardando don Cesare.

    Improvvisamente il maestro si portò la mano al cuore e iniziò a gridare, presagendo un infarto. Quasi cadendo a terra, si fece aiutare da uno dei fascisti.

    «Portate via questo vecchio!» ordinò Vittorio. «Non possiamo permetterci distrazioni, non ora!»

    Don Cesare fu affidato a una donna per essere accompagnato in ospedale. L’insaccaneve tirò fuori dalla tasca il mazzo di chiavi e con frastuono aprì la porta. Si mise alla testa del gruppetto di fascisti e scese le scale, raggiungendo i locali che si trovavano molti metri al di sotto del manto stradale. Provando freddo e ridacchiando come stupidi per il fumo che usciva dalle loro bocche, i giovani iniziarono a spintonarsi per gioco. Smisero solo quando videro i grandi sacchi di saggina e paglia riposti in fila l’uno sopra l’altro. Con la punta

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