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Il prezzo dell'eterno
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E-book152 pagine2 ore

Il prezzo dell'eterno

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Gianni lascia Giulia dopo una storia d’amore durata dieci anni. La notte stessa cade in un profondo sonno nel quale crede di parlare con un angelo. Il dialogo che s’instaura tra i due affronta il tema dell’amore: “Dove finisce l’amore, quando finisce?”, gli chiede l’angelo. Gianni non comprende la domanda. Il confronto, in tutte le sue implicazioni, gli appare assurdo. Assurdo e frastornante, come la malinconia che lo tormenta fin da quando era bambino. In questo incipit dialogico, preludio al racconto vero e proprio, s’impone prepotentemente il tema conduttore di tutta la narrazione: la malinconia. Nelle parole di Gianni emerge la gravità di quel male di vivere, capace di aggredire in modo totalizzante e ineluttabile la sua intera esistenza.
Nel susseguirsi delle vicende, in una serie di flashback che coprono lo spazio temporale di poche settimane, entrano nel vivo tutti i personaggi della storia: Carlo, che intrattiene relazioni fugaci e superficiali con molte donne; Sofia, amica di Carlo, con la quale Gianni ha una breve ma profonda relazione dopo la rottura con Giulia; Emma, donna che Gianni conosce in un incontro di preghiera organizzato da Don Simone; infine Sabrina, ragazza che Gianni e Carlo incontrano in un locale alla periferia di Verona: città questa, dove si svolge l’intera vicenda.
Su ogni circostanza, come un’aura che tutto avvolge, aleggia la malinconia, e con essa la tragicità della sua mancata comprensione. Nell’episodio del suicidio di uno dei personaggi in particolare, si coglie lo iato incolmabile tra la fine volontaria dell’esistenza di un individuo e l’impossibilità ontologica di capirne il senso. Accade così che, mentre il corpo esanime di un uomo si trova appeso al ramo di un albero, i personaggi impegnati nel maldestro tentativo di slegarlo, danno vita ad una commedia nel dramma. Ne nasce un quadro tanto assurdo quanto plausibile, dove la malinconia e il senso dell’esistenza rimangono sullo sfondo di una comicità tragica, senza possibilità di emergere e di essere capiti. La vita, nonostante tutto, continua imperterrita e frettolosa, palesando l’ironia che si mostra all’orizzonte del suo concludersi: la difficoltà (impossibilità?) dell’uomo di comprendere se stesso.
“Il prezzo dell’eterno” racconta la malinconia. Vorrebbe farlo con leggerezza, senza troppe congetture patetiche, nel tentativo d’instillare un moto di ricerca nell’animo del lettore: chi è l’uomo malinconico? Cos’è la malinconia in rapporto alla depressione? Quale dovrebbe essere il ruolo della chimica nello “spiegare” l’essere dell’uomo? Perché narcisismo e malinconia sono spesso così collegate? Da dove nasce il male oscuro? Quale significato acquistano l’arte e la bellezza, in riferimento alla natura malinconica dell’individuo? Questo racconto contiene il tema della malinconia. Non lo risolve, non ne scioglie il nodo: lo contiene. Lo fa senza proposito di soluzione alcuna, ma con l’idea che l’uomo non possa essere “spiegato”, prescindendo da esso.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mar 2014
ISBN9788869090103
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    Anteprima del libro

    Il prezzo dell'eterno - Andrea Pompele

    Schwermut

    PREMESSA

    Viviamo nell’era dei farmaci antidepressivi. Un business miliardario per le industrie farmaceutiche. Il cinismo dell’aspetto economico non mi spaventa: l’uomo ha sempre tratto profitto dalle sofferenze dei suoi simili. Mi spaventano la perdita di senso, lo snaturamento delle parole e del loro significato. Mi preoccupa, soprattutto, la mancanza di consapevolezza. Depressione è un termine che negli anni ha assunto un significato prettamente medico e un conseguente risvolto farmacologico. Nel senso comune ha sostituito – quasi debellato, relegandola in ostaggio a qualche ideale romantico – la parola malinconia. La nostra mente e le nostre emozioni, le nostre paure, le ansie, le angosce... tutto è diventato spiegabile in termini chimici. E tutto (o quasi) chimicamente viene trattato.

    Viviamo nel tempo in cui l’uomo si cura l’anima con le pillole.

    La depressione esogena (o reattiva), dovuta cioè a cause esterne oggettivabili come un lutto, un licenziamento, una separazione, non è quella di cui qui stiamo parlando. Essa ha nulla, o poco, a che vedere con la depressione endogena, di natura interna, in un certo qual modo costituzionale, che in questo contesto ci interessa discutere. Tuttavia, nell’accezione odierna del termine depressione, i due significati vengono poco distinti, se non addirittura con-fusi.

    In questo racconto il termine depressione compare raramente: non mi piace, e lo uso poco volentieri. Preferisco la parola malinconia. Servono i dovuti distinguo, certo – non è mia intenzione addentrarmi nel merito delle diversità, che pure esistono, tra alcuni tipi di depressione endogena e differenti nature malinconiche –, ma depressione – nel suo ergersi a valutazione puramente medica – è un termine diventato, perdonatemi, riduttivo: ha ridimensionato il male oscuro, il male di vivere, alla stregua di un qualsiasi altro male corporeo. Un male diagnosticabile, riferibile a qualche agente chimico deficitario, o presente in misura eccessiva, nel nostro organismo. Un male, quindi, curabile farmacologicamente.

    Io non credo che la dimensione malinconica dell’essere umano possa venire discussa e analizzata unicamente in termini chimico-biologici. E in questo senso, soprattutto, non ritengo possa essere curata.

    Appare evidente come nel nostro involucro di carne e sangue, tutto possa essere ricondotto alla chimica. Pensiamo ad esempio a quando ci ubriachiamo, o ci droghiamo, a quando stordiamo le nostre membra: non facciamo altro che alterare chimicamente il nostro essere. Ma il nostro essere, è forse solo chimica? Non voglio spingermi troppo oltre in questioni filosofiche, se non addirittura cadere nel vortice pernicioso della dicotomia corpo-spirito, ma le cause del male di vivere non sono, a mio avviso, di natura biologica. Io direi che appartengono, se non allo spirito, quantomeno ad un ordine di natura loro, spirituale. Chi, soprattutto in ambito scientifico, ritiene che la depressione endogena (malinconia) sia una malattia come le altre, mette in atto (consapevolmente o meno), una grossolana semplificazione. È un male, certo. Una condizione dolorosissima e tremenda, nei confronti della quale si può e, quando necessario, si deve intervenire farmacologicamente. Ma con piena consapevolezza di medico e paziente sul fatto centrale della questione: la malinconia non è una malattia come tutte le altre. È un male dell’essere: un male strettamente connesso alla nostra natura di uomini.

    La stesura di queste pagine si è svolta in tre momenti. Nel primo, nove anni fa, ho scritto quasi tutta la storia. Nel secondo, ovvero per gli otto anni successivi, ho aspettato l’ispirazione (usando un termine impegnativo) per finire ciò che avevo iniziato. Durante questo sterile periodo, sono stato molte volte tentato dall’indole disfattista che mi appartiene: suggeriva la cancellazione del tutto. Ho combattuto. E alla fine ho ripreso a scrivere. Resistendo al richiamo della distruzione, sono ripartito con il desiderio di portare a termine il mio lavoro. Questo, quindi, è il terzo momento. E sono felice che sia arrivato.

    Non so se questo testo verrà mai letto da qualcuno al di fuori dalla mia cerchia di amicizie. Non sono uno scrittore, e non ho la presunzione di diventarlo. Ogni cosa qui contenuta l’ho scritta per me stesso, senza alcun desiderio, almeno all’inizio, di condividerla con gli altri. In ogni caso, se mi sarà fatto l’onore di un pubblico più ampio, voglio avvisare fin d’ora che qui non si troveranno grandi novità stilistiche. Il mio modo di scrivere non credo abbia nulla di particolarmente originale, anzi: in alcuni tratti, devo ammetterlo, ha chiare attinenze con quello di un romanziere che amo molto. È stata la mia carissima amica Roberta a farmi notare alcune similitudini. Da allora ho cercato di aggiustare il tiro, ma qualcosa è rimasto. E non ho intenzione di cambiarlo. Non l’ho fatto per desiderio di emulazione: non ho voluto assomigliare – sarebbe del resto impossibile – a questo Scrittore del quale, per rispetto, non farò ovviamente il nome. Non ho nemmeno copiato dai sui testi in senso scolastico. Credo che la mia sia stata piuttosto una sorta di involontaria osmosi stilistica: il suo modo di scrivere, qualche parola, alcune frasi, mi sono entrate dentro. E la cosa, a volte, traspare in questo racconto. L’Autore a cui mi riferisco, ne sono certo, mi perdonerà. A voi tutti: perdonatemi fin d’ora. Mettiamola così: se queste pagine vi piaceranno, il merito sarà anche suo. Viceversa, incolpate me: lui sa scrivere, io no.

    Questo racconto riporta alcune parti tratte da un testo di Romano Guardini intitolato Ritratto della malinconia.

    Mi pare sia tutto. Buona lettura.

    A.P.

    INTRODUZIONE

    Gianni lascia Giulia dopo una storia d’amore durata dieci anni. La notte stessa cade in un profondo sonno nel quale crede di parlare con un angelo. Il dialogo che s’instaura tra i due affronta il tema dell’amore: "Dove finisce l’amore, quando finisce?", gli chiede l’angelo. Gianni non comprende la domanda. Il confronto, in tutte le sue implicazioni, gli appare assurdo. Assurdo e frastornante, come la malinconia che lo tormenta fin da quando era bambino.

    In questo incipit dialogico, preludio al racconto vero e proprio, s’impone prepotentemente il tema conduttore di tutta la narrazione: la malinconia. Nelle parole di Gianni emerge la gravità di quel male di vivere, capace di aggredire in modo totalizzante e ineluttabile la sua intera esistenza.

    Nel susseguirsi delle vicende, in una serie di flashback che coprono lo spazio temporale di poche settimane, entrano nel vivo tutti i personaggi della storia: Carlo, che intrattiene relazioni fugaci e superficiali con molte donne; Sofia, amica di Carlo, con la quale Gianni ha una breve ma profonda relazione dopo la rottura con Giulia; Emma, donna che Gianni conosce in un incontro di preghiera organizzato da Don Simone; infine Sabrina, ragazza che Gianni e Carlo incontrano in un locale alla periferia di Verona: città questa, dove si svolge l’intera vicenda.

    Su ogni circostanza, come un’aura che tutto avvolge, aleggia la malinconia, e con essa la tragicità della sua mancata comprensione. Nell’episodio del suicidio di uno dei personaggi in particolare, si coglie lo iato incolmabile tra la fine volontaria dell’esistenza di un individuo e l’impossibilità ontologica di capirne il senso. Accade così che, mentre il corpo esanime di un uomo si trova appeso al ramo di un albero, i personaggi impegnati nel maldestro tentativo di slegarlo, danno vita ad una commedia nel dramma. Ne nasce un quadro tanto assurdo quanto plausibile, dove la malinconia e il senso dell’esistenza rimangono sullo sfondo di una comicità tragica, senza possibilità di emergere e di essere capiti. La vita, nonostante tutto, continua imperterrita e frettolosa, palesando l’ironia che si mostra all’orizzonte del suo concludersi: la difficoltà (impossibilità?) dell’uomo di comprendere se stesso.

    Il prezzo dell’eterno racconta la malinconia. Vorrebbe farlo con leggerezza, senza troppe congetture patetiche, nel tentativo d’instillare un moto di ricerca nell’animo del lettore: chi è l’uomo malinconico? Cos’è la malinconia in rapporto alla depressione? Qual è, o quale dovrebbe essere, il ruolo della chimica nello spiegare l’essere dell’uomo? Perché narcisismo e malinconia sono spesso così collegate? Da dove nasce il male oscuro? Quale significato acquistano l’arte e la bellezza, in riferimento alla natura malinconica dell’individuo?

    Questo racconto contiene il tema della malinconia. Non lo risolve, non ne scioglie il nodo: lo contiene. Lo fa senza proposito di soluzione alcuna, ma con l’idea che l’uomo non possa essere spiegato, prescindendo da esso.

    A.P.

    SABATO 10 SETTEMBRE, NOTTE

    - Tutto ciò che ha un inizio, ha anche una fine. L’amore è una cosa che inizia, e quindi finisce. Sempre. Non esistono amori eterni. È un concetto difficile da accettare. E non esistono anime gemelle. Questo forse è ancora più difficile. Quando finisce un amore, la domanda da farsi non è: perché? La domanda da farsi è: dove?.

    Cominciò così.

    Parlava con voce avvolgente e profonda. La gestualità appariva ricercata, armoniosa. Il tono era simpatico, per nulla didattico, e faceva assumere a quei versi un’aria rasserenante, nonostante il loro contenuto fosse piuttosto provocatorio.

    All’udire quelle parole Gianni provò un penetrante, profondo, ampio… senso di smarrimento. Prestando fede alle sue debilitate percezioni sensoriali, gli sembrò di ricordare che, fino a un attimo prima, si trovava stravaccato sopra una lurida panchina dei giardini pubblici, teneva in mano una bottiglia di vodka alla pesca – vuota –, era solo e ubriaco fradicio. Da quel momento in poi, gli sembrò di non sapere se, fatte salve le prime due sensazioni, rimaneva sempre ubriaco, ma non più solo, oppure sempre solo, ma non più vivo. Forse stava semplicemente sognando. Eppure quella voce era così… reale. La figura da cui proveniva invece, sembrava esserlo un po’ meno: si era perfettamente interposta tra la sua assoluta incapacità di muovere il benché minimo muscolo e la luce di un piccolo lampioncino, che da sopra, da dove spuntava, dava a quei lineamenti eleganti dei contorni sfumati e impalpabili, quasi eterei.

    Appena Gianni si riebbe da quel momentaneo sgomento, chiese subito aiuto alla sua bottiglia di vodka. Vi si teneva aggrappato da un’ora come a una tavola di legno in mezzo all’oceano in tempesta. La trascinò stancamente alla bocca, e quel che ne venne fu un gesto tanto lento quanto inutile. Tentò dunque di mettere a fuoco quella persona innanzi a sé, ma la luce gli arrivava in modo troppo intenso. L’unica cosa da fare, a quel punto, gli parve quella di interloquire, non senza perplessità, con quell’individuo sorto così improvvisamente nel cuore della notte.

    - Preeeego? – disse, trascinandosi dietro la lingua con tutta la forza che aveva.

    - Dove. Ti ho chiesto il dove. La benzina… dov’è finita la benzina?

    Non dava l’idea di essere ubriaco quanto Gianni, ma le sue argomentazioni facevano supporre il contrario. Il tono e le movenze tuttavia, sembravano quelli di un individuo assolutamente sano. Forse era un pazzo.

    Gianni, dal canto suo, non era nelle condizioni di poter valutare serenamente nemmeno il numero delle dita della propria mano. Non prendeva una sbronza di quelle proporzioni dal tempo del catechismo. A iniziarlo era stata una bottiglia di Lambrusco rubata dalla cantina del prete e scolata in sacrestia durante la messa. Dovettero portarlo all’ospedale. Da quel giorno niente più Lambrusco. Qualsiasi altra cosa, fosse stata anche petrolio, ma non rosso di Romagna. A distanza di quindici anni solo a sentirne l’odore provava ancora nausea. Quella sera, la stessa sorte sarebbe toccata alla vodka. Ad ogni modo, per il momento, c’era da capire chi era costui e cosa voleva. Gianni impiegò un tempo eterno per concludere la sua dissertazione, ma con notevole autocompiacimento riuscì a formulare una risposta non solo formalmente corretta, quanto decisamente articolata per lo stato in cui versava.

    - Non è b-benzina... È acqua-vite russa… vechiomio… Otte­Ottenuta dalla distilla-zione… dicereali…. Non credo… non credo checi… checicoranolemàchineinrealtà… Comunque... questa… è finita tutanelmioserbatoio… eh eh…

    - Ti sentivo parlare da solo

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