La condizione di madre
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Anteprima del libro
La condizione di madre - Peppino Gallo
633/1941.
I
Il gatto di casa, che da qualche giorno miagolava strusciandosi alle vesti di donna Costanza, mentre la fissava smarrito, la coda ricurva all’insù, al pianerottolo la fece inciampare e lei volò dalle scale, atterrando nel soggiorno, dove sbatté la testa alla consol, contro l’intaglio prominente, e rimase in coma. Era il 14 dicembre 1908.
L’atmosfera allegra, che perdurava a palazzo Casalmagno, nonostante fosse già trascorsa una settimana dai festeggiamenti, era svanita di colpo, le stanze si erano incupite come nei giorni di tempesta.
Partorite a distanza di pochi giorni, le figlie di donna Costanza Casalmagno, Antonietta, andata sposa a Mario Silva, avvocato, e Romana, consorte di Alfonso Rago, proprietario terriero, domenica 6 dicembre avevano battezzato i loro bimbi; una settimana dopo, sabato 12, si era sposato Giorgio, il fratello primogenito.
Dopo la morte del marito, Roberto Casalmagno, col passare degli anni, la vecchia signora, quando si muoveva, dava l’impressione di inciampare da un momento all’altro. Sembrava che avesse ancora abbastanza fiato, però, uno spirito vivace, prima dell’incidente, e si era mostrata euforica nei preparativi e durante le feste.
Parte di quella contentezza era dovuta all’arrivo a Reggio Calabria dei parenti Palmisano da Montalba, una località nella provincia cosentina, che non vedeva da anni, le due nipoti, Vittoria, con il marito Rodolfo D’Ambrosio, e l’amata Sara, con il marito Renato Floris e il figlioletto Daniele, che dalla sua nascita non aveva ancora visto.
Ogni volta che pensava a loro veniva colta dall’ansia, la vecchia zia, poiché cominciava a chiedersi quanto tempo le fosse rimasto. Non voleva andarsene senza aver rivisto le figlie di Luisa, la sorella, che nel 1870 aveva sposato Raffaele Palmisano, stabilendosi nel suo paese, chiuso fra le falde della Sila Greca. Ora, dei lieti eventi le avevano dato l’occasione di poterli riabbracciare: Vittoria e Renato sarebbero stati rispettivamente madrina e padrino al battesimo di uno dei nipotini, mentre Sara e Rodolfo al matrimonio del figlio Giorgio, che sposava Sofia, figlia del nobiluomo Giuseppe Bertani.
Partiti gli sposi in luna di miele, alcuni invitati si erano ripresentati a palazzo per complimentarsi con la famiglia Casalmagno, per la festa di nozze ben riuscita. Ma, dopo l’incidente, verificatosi nel pomeriggio di lunedì 14, questo movimento si era trasformato in un penoso andirivieni.
Neanche un bisbiglio, solo un fioco respiro, il viso smunto e il naso prominente, dai riflessi di cera, donna Costanza stava distesa nel letto con gli occhi chiusi.
Il medico di famiglia, che lavorava all’ospedale civile, le aveva diagnosticato uno stato comatoso ed espresso la volontà di ricoverarla, ma i figli non avevano voluto. Nelle ore libere il dottore veniva a visitarla, mentre un’infermiera specializzata la teneva sotto sorveglianza.
Romana aveva smesso di sperare e guardava la madre preoccupata. Era una donna loquace, ma ora parlava a strappi. «Dobbiamo avvisare Giorgio» ripeteva alla sorella.
Ad Antonietta dispiaceva guastare la luna di miele ai verdi sposi ma, con la madre in quello stato, era molto indecisa.
Seduta accanto al letto, Sara aspettava il risveglio della zia. Le teneva con tenerezza il palmo della sua mano sulla fronte, affinché ne potesse percepire il calore. «Vedrete che non tarderà ad aprire gli occhi» diceva.
Le sollevava la testa mettendovi sotto un altro cuscino, perché le stesse rialzata, poi lo toglieva, oppure la pettinava, le cambiava la camicia da notte. Il marito e il figlioletto se ne stavano dietro, come messi da parte da quel sentimento così forte che la legava alla zia. A momenti, a Romana e Antonietta, sembrava che l’unica preoccupazione fosse quella di dover confortare la cugina. Fra lei e la madre, come avevano sempre pensato, di là dai legami di sangue, c’erano delle affinità.
Le figlie di Costanza, i loro mariti, i parenti venuti da Montalba, gli amici di famiglia, compresa la servitù, avrebbero voluto prolungare il più possibile la spensieratezza degli sposi, durante la luna di miele. Così a palazzo si tentennava, si dubitava, fornendo pretesti per non avvisare dell’incidente Giorgio e Sofia.
Solo quando telefonarono da Napoli, ultima tappa del loro viaggio nelle maggiori città d’Italia, Romana li informò dell’accaduto. La sorella ebbe la sensazione che gli umori del fratello viaggiassero lungo il filo, arrivando al ricevitore. Lui era pieno di pregiudizi e, ad ogni brutta notizia, le sue apprensioni si muovevano tutte nell’area semantica della superstizione. Romana era sicura che si fosse immaginato all’istante, durante la telefonata, una chimera superstiziosa. E l’oracolo non tardò a venire: le disse che l’incidente capitato alla mamma, proprio nello stesso mese in cui si era sposato, sabato 12 dicembre, e durante la sua luna di miele, ere un brutto segno, per il suo matrimonio.
Romana non riusciva a tranquillizzare il fratello. Dall’altro capo del telefono, una raffica di domande aveva colpito il suo orecchio. Sembrava inutile ribadirgli che quello della mamma non era uno stato di coma profondo, ed era stato scongiurato il pericolo di decesso e che, da un momento all’altro, lei avrebbe potuto riacquistare coscienza, come aveva sostenuto il medico nella sua diagnosi. Ma Giorgio continuava a ripeterle turbato di voler prendere il prossimo treno per Reggio. Infine, lo convinse a passarle Sofia, la cognata, alla quale raccomandò di tranquillizzare il fratello, ma si era ritrovata a parlare di nuovo con lui, che si era riappropriato del ricevitore.
«Avete già chiesto un consulto?» chiese.
«Stiamo facendo tutto il possibile, come avresti fatto tu.»
«Dovrete starle sempre accanto, parlarle di continuo.» La voce di Giorgio s’intervallava bassa lungo il filo telefonico. «In questi casi la vicinanza dei familiari è più efficace delle cure mediche, dell’assistenza dell’ infermiera …»
«Ti ripeto di non preoccuparti. Il bene che vogliamo alla mamma ci spinge a fare tutto il possibile.»
Romana sbuffava, cominciava a impazientirsi, espressione che, sul suo viso mediterraneo, dai lineamenti marcati, contrastava con la sua innata sicurezza in sé stessa. Sebbene si parlassero al telefono, dal tono di voce, quello che a lei non piaceva, aveva notato che il fratello non aveva perso la sua solita presunzione, cioè di sapere solo lui il modo giusto di come ci si comportava in ogni circostanza della vita, si fosse trattato anche di un infortunio, come quello capitato alla mamma.
«Nostra cugina Sara si reca al suo capezzale anche di notte» gli disse.
Dall’altro capo piombò il silenzio.
«Come?!…» tuonò Giorgio. «Non ha voglia di tornarsene insieme agli altri a Montalba?… Le feste di Natale sono ormai vicine. Preferiscono trascorrerlo qui a Reggio, i nostri parenti, l’anno nuovo?»
«Aspettano Rodolfo che torni da Messina.»
«Già, dimenticavo. Lui orbita intorno alla compagnia di amici come la terra al sole.»
La sorella taceva, non voleva rispondere su argomenti che non avrebbero riguardato lo stato di salute della mamma. Aspettava che Giorgio concludesse, e lui lo fece con un avviso: «Ah, quel gattaccio, Giotto, non lo voglio più in casa!… E’ nero, per giunta!»
Romana si era stupita, pensava che non fosse proprio il caso di prendersela con una bestia. E replicò canzonandolo: «Giorgio, dov’è finita la tua razionalità del matematico?.. Cosa penserebbero i tuoi studenti, ora?…»
«Ve l’avevo detto, io, che avrebbe finito col far incespicare la mamma, standole sempre alle gonnelle.»
«E se fosse stata colta da malore, invece?… » dubitava la sorella, per quanto il gatto, prima di cadere la madre, non avesse fatto altro che seguirla, starle attorno, infastidendola con i suoi miagolii.
«È meno probabile…» sospirò Giorgio, mentre stava per interrompere la comunicazione. «Adesso stacco. Ci rivedremo domani. Dovremmo arrivare verso sera.»
Spinto dall’istinto, a dire il vero, dopo l’incidente, il gatto si teneva alla larga da quella casa aristocratica, dove prima era stato accolto. Se ne stava nel giardino come inselvatichito. Il pelo arruffato, aveva perso l’aspetto del tranquillo giocoliere. Aveva un’aria strana, come se fosse sempre a contatto con un qualcosa di terrificante. Quando i morsi della fame lo spingevano a ritornare, miagolava timido intorno al palazzo. Se veniva sorpreso a frugare nella pattumiera scoperchiata, si bloccava, fissando quelli di casa con timore; e altrettanta ostilità percepiva nella servitù, sempre pronta ad allungargli una pedata, o a inseguirlo con la scopa o il battipanni. Giotto correva a nascondersi fra i cespugli, e vi restava a lungo.
Quando girovagava sotto gli alberi senza direzione, anche gli uccelli fra le fronde dei sempreverdi sembravano più stravolti di lui.
I passeri cinguettavano tutti insieme, ed era fastidioso. Scosso, lo stormo frullava fra i rami, uno strido