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2 Mogli, 2 Mariti e 1 Lampadario
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2 Mogli, 2 Mariti e 1 Lampadario
E-book604 pagine7 ore

2 Mogli, 2 Mariti e 1 Lampadario

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Info su questo ebook

Il desiderio è come un lampadario: muta tutto ciò che illumina.

“2 Mogli, 2 Mariti e 1 Lampadario” è un ‘romanzo-allegoria’ del nostro bisogno di desiderare. È desiderando cose e persone che ci sentiamo vivi. E non ci basta mai. A volte ce ne vergogniamo e proviamo ad accontentarci di quello che già abbiamo, ma ci sentiamo come spenti se paragoniamo questo stato d’animo a quello che ci anima quando vogliamo qualcosa. Desideri o capricci che siano, è quella sensazione che stimola la nostra passione per la vita.

Barbara, volubile e avvenente, è anche una tenera mamma. Alessio, suo marito, uno psicologo di successo. Glenda, ingenua e timida, è la regina delle casalinghe. Amedeo, suo marito, uno stimato avvocato.
Le due coppie vivono il sesso in maniera opposta.
Gli uomini si chiedono cosa c’è in fondo al cuore di una donna. Le donne vorrebbero tanto capire come pensano veramente gli uomini. Entrambi se ne fanno un’idea in base a quello che viene loro mostrato. Ma c’è molto di più.
Osservando questi personaggi, spiandoli fin sotto le lenzuola, intrufolandosi nelle loro menti e soggiornando nei loro cuori, i mondi femminile e maschile diventano una cruda, meravigliosa e fragile vetrina di sentimenti. E quando la giovane e passionale Sonia irrompe nelle loro vite…
Un romanzo introspettivo ma non pedante, con dinamiche di coppia e un pizzico di mistero. Un vero e proprio film proiettato sulle pagine di un libro in un gioco di prospettive con cui i personaggi, a turno, sfidano l’innata umana insoddisfazione.
 
LinguaItaliano
Data di uscita13 mar 2014
ISBN9788869090646
2 Mogli, 2 Mariti e 1 Lampadario

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    Anteprima del libro

    2 Mogli, 2 Mariti e 1 Lampadario - Antonio Scotto Di Carlo

    Antonio Scotto di Carlo

    2 Mogli, 2 Mariti

    e 1 Lampadario

    Copyright

    Titolo | 2 Mogli, 2 Mariti e 1 Lampadario

    Autore | Antonio Scotto di Carlo

    Foto di copertina | room © robert

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il

    Preventivo assenso dell’Autore.

    ildiosordo.antonioscotto@virgilio.it

    Contatti

    Facebook: Antonio Scotto di Carlo

    Instragram: antonioscottowriter

    e-mail: ildiosordo.antonioscotto@virgilio.it

    a Ines Angelino

    Una donna di rara generosità

    che ha creduto in me da subito e

    che mi ha sostenuto, guidato e incoraggiato

    lungo questo difficile percorso letterario.

    Grazie per l’aiuto puntuale e spassionato

    con cui mi hai sempre onorato.

    Sei una persona meravigliosa.

    I personaggi di questo libro sono frutto della fantasia dell’autore. Qualunque riferimento nei loro discorsi a cose, eventi e persone reali, del presente o del passato, è da ritenersi puramente casuale.

    INDICE

    Antonio Scotto di Carlo

    a Ines Angelino

    1. Prologo

    2. Sonia

    3. I Donati

    4. I Baldini

    5. Spanky

    6. La Cuoca

    7. Brava, Brava

    8. Mammina Cara

    9. Le Mascherine

    10. Sorpresa!

    11. Houston

    12. Lui a Me?

    13. La Svolta

    14. Sovraesposizione

    15. Caraibi

    16. L’Investimento Finanziario…

    17. Glenda Williams

    18. Il Labbro e la Freccia

    19. Volare e Rimettere

    20. Il Resto

    21. Roma

    22. Simone il Galantuomo

    23. Clelia & Weirdo Beccati nella Dependance

    24. Ame & Glen

    25. Mia Adorata Lavatrice

    26. Il Maleducato

    27. L’Assassino

    28. Mezzogiorno di Fuoco

    29. Il Demone

    30. Flashback

    31. Il Vestito e la Capanna

    32. Ubi

    33. Il Saggio

    34. Al Colosseo

    35. Caterina

    36. La Dichiarazione

    37. Firenze

    38. La Pineta

    39. La Diabolica Mignatta

    40. Convinzioni

    41. Bang!

    42. Ti Ascolto

    43. Ugo vs. Enrico

    44. Molto, Troppo Rumore per Nulla

    45. Dov’è Finita Barbie?

    46. La Base

    47. Un Po’ Freddo alla Chiamata

    48. Un Lunghissimo Week-End: Via!

    49. La Convention

    50. Come una Mutanda

    51. Una Notte Interminabile

    52. Game, Set, Match

    53. La Telefonata e la Lettera

    54. La Promessa

    55. Gaeta

    56. Il Perdono

    57. Le Cose Bisogna Meritarsele

    58. La Catena dell’Amore

    59. Galeotta la Racchetta

    60. Lo Speleologo

    61. La Pagina di Barbara

    62. Il Signor Pompino

    63. Candid Camera

    64. La Versione Ufficiale

    65. La Frode

    66. L’Attaccapanni

    67. La Denuncia

    68. Fiducia, Fuoco e Fiamme

    69. Epilogo

    RINGRAZIAMENTI

    I Romanzi di Antonio Scotto di Carlo

    Il dio sordo – Mia immortale amata

    Il dio sordo – IX

    CANNIBALI MODERNI

    Amleto

    Pagliacciopoli

    2 Geni, Pirandello e la Legge

    La Parabola del Coglione: Racconto in Due Parti

    La Parabola del Ciccione

    Proiettili dal Passato

    Anche i Poveri Vincono

    Per Legittima Difesa

    Cuori Sotto Tiro

    Sognando di Lei

    Trilogia dell’Amore

    Cuore Nella Nebbia

    1. Prologo

    TO SPANK, che significa? Lo so, stai pensando ‘Ora cerco nel dizionario’. Oppure non ne hai bisogno e ti stai dicendo ‘Domanda da seconda media’. O magari ‘Ci vai da solo o ti ci mando io?’

    Sonia non lo sapeva. Lo avrebbe imparato solo dieci anni più tardi.

    Quella sera Caterina sedeva sul divano nella penombra del suo soggiorno, di fronte alla TV. I titoli di coda scorrevano lenti su una musica struggente. Lasciavano un alone sullo sfondo nero così come le lacrime tracciavano due righe di tristezza sulle sue guance pallide.

    Aveva appena guardato un film con Meryl Streep. Quella storia le era assurdamente familiare. Luoghi e stati d’animo della protagonista parevano essere stati trafugati dal suo passato. Chissà come, lo sceneggiatore le si era intrufolato nella memoria, appropriandosi dei suoi ricordi. Ci sarebbe stato di che denunciarlo per plagio, non fosse stato che non poteva sapere di nonna Alba.

    Si era asciugata occhi e viso, ma la commozione continuava a mescolarsi all’incredulità. Un vortice di pensieri e sensazioni la spingeva a fare qualcosa. Si alzò, spense la lampada sul tavolino lì di fianco e andò verso la camera della sua bambina.

    Sonia aveva ricevuto ‘il battesimo della femminilità’ solo due settimane prima, e Caterina, ispirata da quel film, aveva appena deciso che fosse giunto il momento di raccontarle la storia che aveva tenuto in serbo per lei. Una storia di sentimenti, che sperava l’avrebbe guidata nelle sue scelte di donna.

    La porta era aperta. Poteva osservarla nel riflesso dello specchio dell’armadio. Sedeva sul letto. Schiena contro la parete, gambe piegate a farle da leggio e concentrata su un libro, indossava una maglietta bianca che faceva risaltare l’abbronzatura. I lunghi capelli castano scuro quasi le arrivavano ai seni che cominciavano a prender forma.

    Caterina restò sulla soglia ad ammirarla.

    Pur essendo la sua unica figlia, aveva sempre evitato di mantenere con lei un rapporto troppo affettuoso. Non che fosse una donna dura. Estendeva solo alla propria creatura il metodo con cui lei stessa era stata cresciuta e del quale aveva testato efficacia e utilità.

    Se li porti in braccio, li fai contenti, ma le loro gambe non si irrobustiranno. E c’è bisogno di buone gambe per camminare i sentieri della vita.

    Questa la filosofia di Mary, la ragazza americana di origini italiane che quarant’anni prima aveva partorito Caterina – nata negli Stati Uniti, Mary si era trasferita in Italia non appena ebbe sposato un marinaio italiano conosciuto durante una vacanza a Miami.

    Le gambe di Sonia erano già robuste, nonostante avesse solo dodici anni.

    «Ehi, mà» le disse quando la notò.

    «Cosa stai leggendo?» le chiese, andando a sedersi sul letto accanto a lei.

    «I tre moschettieri.»

    «Oh. Athòs, Porthòs e Aràmis» motteggiò Caterina.

    «E Milady. Che stronza, quella!»

    «Sonia!»

    «Scusa, mà. Mi è scappato.»

    L’imbarazzo della figlia la fece sorridere.

    «Lo metteresti via? Vorrei farti conoscere una persona.»

    «Chi?» domandò Sonia, inserendo il segnalibro a cuore e poggiando il librone sul comodino accanto.

    «Mia nonna.»

    «Tua nonna?»

    «Le persone non muoiono mai del tutto finché c’è qualcuno che ha memoria di loro.»

    Caterina le si accostò, sistemandosi come a poterla guardare senza che le venisse il torcicollo mentre le parlava.

    Per Sonia era insolito sentirla così vicina, non solo fisicamente. Questo atteggiamento, più che intenerirla, la incuriosiva.

    Nel silenzio della cameretta e con la luce tenue dell’abat-jour che proiettava sulla parete rosa le loro ombre giganti e distorte, Caterina iniziò il suo racconto.

    «Era il 1940 quando Frank e suo padre arrivarono nel nostro paesello. Venivano dall’Iowa. Frank era nato lì, da genitori italiani i quali vi si erano trasferiti vent’anni prima. Li aveva attratti il miraggio di quel ‘sogno americano’ che allora tanto miraggio non era. Adesso si pensa che sia roba da film o da sognatori, appunto. Ma all’epoca, quando la povertà rendeva la vita veramente dura, questo miraggio era forte quanto lo è oggi il ‘sogno italiano’ per quegli sventurati dei villaggi magrebini. Ad ogni modo, i genitori di Frank volevano per lui una moglie italiana e il padre ritornava sul suolo natio intenzionato a trovargliela. Le nostre famiglie si conoscevano da qualche generazione e, essendo nonna Alba in età da marito, il matrimonio fu combinato nel giro di un mese. Non fu quindi un matrimonio d’amore, un lusso che a quei tempi si potevano permettere solo ricchi e temerari. Però Frank e i suoi erano brava gente, e il ‘sogno americano’ contribuì a vincere le perplessità di Alba. Infatti lei in principio non voleva. Occorsero due settimane alla famiglia per convincerla. Due settimane d’incertezze che condizionarono la sua vita per sempre.»

    Sonia aveva in canna diverse domande, a partire da cosa significasse ‘magrebini’; ma l’ultima frase cancellò tutte le sue piccole curiosità. Adesso era ansiosa di sapere come quindici giorni avessero potuto segnare una vita intera.

    «I permessi di soggiorno di Frank e suo padre scadevano prima che il passaporto di Alba fosse pronto. La burocrazia è stata una lumaca sin da che l’hanno congegnata… Così la giovane coppia fu costretta a separarsi. All’inizio non fu un problema. Se Frank ne avrebbe approfittato per sistemare carte e casa in modo da accogliere degnamente la sua sposa, Alba non si sentiva ancora pronta a lasciare la famiglia. Era angosciata al pensiero di trapiantarsi in una realtà dove avrebbe dovuto ricominciare da zero. Lingua inclusa, visto che non sapeva una parola d’inglese. Un trasloco intercontinentale non era mai stato in programma, perciò trovò in quella contingenza il tempo di abituarsi a una situazione evolutasi troppo in fretta. Tutto cambiò quando l’Italia entrò in guerra.»

    «Oh, la seconda guerra mondiale!» realizzò esterrefatta, correlando per la prima volta vita vera e fatti appresi a scuola.

    «Già. Era nell’aria. Avrebbero dovuto prevederlo per come governavano i fascisti. Purtroppo prospettive di questo tipo spesso vengono prese sottogamba perché pare impossibile che diventino realtà. Fossero partiti insieme, nonna Alba avrebbe avuto una vita diversa. Invece rimasero separati fino alla fine della guerra.»

    «Ma no! E come hanno fatto a tenersi in contatto?» domandò Sonia, che il mondo senza computer proprio non riusciva a figurarselo.

    «Per lettera. E dovevano pure avvalersi di intermediari.»

    «Come ‘intermediari’?»

    «Ogni genere di relazione tra Italia e Stati Uniti era stata interrotta, essendo noi alleati della Germania. L’unica conoscenza all’estero della famiglia di nonna Alba risiedeva in Svizzera. Funzionava così. La nonna scriveva una lettera a quest’anima pia, includendo nella busta la lettera per Frank che l’anima pia indirizzava a sua volta in America. E faceva lo stesso anche per le lettere provenienti da Frank.»

    «Cavolo! E quanto ci mettevano?»

    «Non lo so. Penso mesi. Ecco perché si scrivevano di rado. Comunque fu così che Frank seppe di essere diventato padre.»

    Sul volto di madre e figlia brillava lo stupore per come la vita fosse e sarà sempre il più fantasioso dei romanzieri.

    «Alba poté raggiungere Frank solo nel ’46. Nel frattempo però, tante cose erano cambiate. Lei era cambiata. La guerra aveva segnato la sua sensibilità, come del resto quella di tutti. In quel periodo particolare, il sentimento verso la patria era molto forte, tanto da oscurare il sogno americano. In seguito agli stenti della guerra, la nonna aveva scoperto il suo attaccamento a questa terra. Aveva compreso di essere una di quelle persone che sentivano le proprie radici piantate qui. L’idea di reciderle per andare a raggiungere in un mondo sconosciuto quel ragazzo frequentato per poche settimane sei anni addietro le sembrava assurda. Era il marito, ma lei lo percepiva come un estraneo. Il loro carteggio in quegli anni era stato tutt’altro che intenso, non solo per la difficoltà e la lentezza nel far pervenire le lettere. Come ti ho detto, non si trattò di un matrimonio d’amore. Già tutto questo è sufficiente per comprendere il suo cambiamento. Aggiungi che Isabella, la loro bambina, morì di difterite a tre anni, e vedrai che proprio nulla era rimasto della fanciulla che aveva detto sì a Frank.»

    «Morta?» s’intristì Sonia, impreparata a questo sviluppo.

    Caterina annuì, commossa. La fissò per qualche istante. Poi tirò un sospiro e andò avanti.

    «All’epoca era impensabile che una moglie non seguisse il marito. Così, pur riluttante e spaventata, nonna Alba partì per l’America.»

    «E Frank l’ha aspettata per tutto questo tempo?»

    «Lui era un brav’uomo. Marito onesto, buon padre. Ebbero tre figli, il secondo dei quali fu tua nonna Mary. Alba accettò quella situazione nel rispetto della scelta che aveva fatto appena ventenne, spinta dalla famiglia e allettata dal desiderio di una vita migliore. Ma non fu mai veramente felice.»

    «Tu l’hai conosciuta, mà?»

    «So che venne a trovarci per un paio di Natali. Non mi ricordo del mio rapporto con lei perché ero troppo piccola. La mamma però me ne parlava spesso quando avevo la tua età. Oltre che la sua storia, mi raccontava di come il volto le s’illuminasse davvero solo quando tornava in Italia. Una gioia che sapeva molto di rimpianto. Mi disse che solo in un’occasione Alba si sentì di nuovo se stessa. Quando, assieme a Frank, visitò la tomba di quella figlia che a lui non era stato dato di conoscere. Piansero insieme su quella fotografia. Dev’essere stato uno strazio per lei guardare la sua bambina e pensare alle cose che non avrebbe visto, a quelle che non avrebbe fatto, ai sentimenti che non avrebbe mai provato. Se ho potuto comprenderla, è grazie a te.»

    «A me?»

    «Vedi, chi non ha accudito un bambino piccolo giorno dopo giorno, ora dopo ora, nutrendolo e lavandolo, cambiandolo e vestendolo, badando a che non si cacci nei guai una volta imparato a camminare, curandosi della sua salute, gioendo di fronte al suo sorriso come piangendo nel vederlo ammalato… Per chi non è passato sotto gli archi della maternità non è semplicissimo comprendere quanto dolore contenga la frase ‘Ho perso il mio bambino quando era piccolo’. Ecco, leggevi un libro. La letteratura è come la realtà di questo mondo ingiusto. Usano questa frase come una necessaria ma piatta sintesi di un dramma a tuttotondo che segna per sempre il cuore di una mamma. Non so cosa avrei fatto se ti avessi persa quando avevi tre anni. Il mio spirito si sarebbe schiantato. Non credo mi sarei mai ripresa.»

    Sonia taceva. Stava provando uno stato d’animo nuovo, quello di quando si diventa maturi. Non capiva ancora, ma cominciava a intravedere i solidi basamenti su cui viveva spensieratamente la sua età. Inoltre, aveva appena soggiornato in un mondo così diverso da quello a cui era abituata, dove non c’era quasi niente della sua quotidianità. Eppure lo sentiva suo. Gli invisibili lacci ancestrali la raggiungevano attraverso le barriere del tempo. La tiravano piacevolmente dentro una realtà che per lei non aveva niente di reale, ma da cui sentiva di provenire.

    «Piccola mia, rammentati di nonna Alba quando vivrai il tuo tempo. Quando senti di aver imboccato la strada giusta, vai dritta. Quando senti che è quella sbagliata, svolta. Non temporeggiare. L’incertezza potrebbe perderti. Se nonna Alba avesse sposato subito Frank, sarebbe riuscita a partire con lui. Se avesse rifiutato la proposta, Isabella non sarebbe mai nata. Tergiversando, lasciandosi circuire dall’incertezza, è rimasta intrappolata in una non-vita piena di recriminazioni e di biasimo contro tutti. Contro la famiglia che la convinse a sposarsi, contro la guerra che la separò dal marito, contro Dio che si riprese la figlia che le aveva appena donato, contro la gente che avrebbe sparlato di lei se non avesse raggiunto il marito. Io non voglio che una cosa simile possa capitare a te. Sbaglierai comunque, ovvio, ma un errore commesso per aver scelto di fare o di non fare manterrà sempre forte l’impronta della tua volontà. Un conto è tuffarsi in mare. Un altro è che ti ci buttano. Se scegli di tuffarti, vuol dire che avevi la possibilità di non farlo. Se ti ci buttano, ti troveresti ugualmente nell’acqua, ma sarebbe del tutto diverso. Aspettare per vedere come si mettono le cose, è come aspettare che il Destino ti butti o meno in acqua. Assumersi le proprie responsabilità, fortifica. Scaricarle sul Destino, indebolisce.»

    Sonia la guardava negli occhi, finché la tensione sul viso di Caterina si sciolse in quel sorriso che tanto di rado le concedeva.

    «Sii sempre vigile, figlia mia. Quando sentirai che ti stai smarrendo nell’incertezza, fai un passo o stabilisci di non farlo mai. Ma anticipalo il Destino! A lui basta un attimo per buttarti fuori dalla sala comandi della tua vita.»

    2. Sonia

    Una ragazza di pelle chiara e coi capelli castano scuro a carré, magra ma ben sviluppata nei suoi attributi di donna, stava chiudendo i conti alla cassa 6 del supermercato.

    Dottore. Ecco cosa sarebbe voluta diventare. Moltiplicando la situazione economica del Paese per gli anni di studio aveva però concluso che le convenisse cambiare indirizzo.

    Il pragmatismo era un elemento che spiccava nella sua personalità. A volte sua madre si domandava quanto questa qualità caratteriale fosse innata e quanto dovuta a come aveva voluto educarla. Altre, se fosse davvero una qualità. I dubbi però annegavano nel mare del suo orgoglio di mamma ogni volta che incrociava quelle ferme iridi grigiazzurre.

    Tante delle sue amiche avevano cresciuto i figli venerando il modello ‘buon lavoro=felicità’, e non aveva potuto evitare di sentirsi in imbarazzo con loro quando la figlia aveva rinunciato all’Università. Quest’imbarazzo tuttavia si era sgretolato a fronte del discorso con cui lei aveva motivato la decisione. Parole che esigevano rispetto.

    «Ho solo diciannove anni, mà. Non so ancora cosa voglio fare, ma so che voglio essere indipendente. E lo voglio adesso. Non voglio sgobbare sui libri, gravando per anni su te e papà, per esserlo… forse… un giorno. Una strada lunga come lo studio dev’essere intrapresa con convinzione, altrimenti si rischia di rimanere intrappolati in una vita che non vuoi. Io questo rischio non me lo prendo.»

    Così, combinando il desiderio d’indipendenza col suo animo semplice, in attesa di scoprire quale piega dare alla propria esistenza, si era cercata un lavoro. Non era entusiasta di quello che aveva trovato, è chiaro; però le consentiva di vivere come desiderava, e anche di fare una volta all’anno ciò che amava di più: viaggiare. La gestione dei soldi doveva quindi essere oculata.

    Non aveva bisogno della macchina nel piccolo paese dove abitava. Figlia di un tranviere, si spostava in autobus usufruendo dell’abbonamento gratuito – una volta maggiorenne, non era più valido, ma quale controllore avrebbe multato la figlia di un collega?

    Una grande mano a risparmiare gliel’aveva data il signor Vito, un collega di suo padre che le aveva affittato per soli duecento euro al mese il monolocale ammobiliato che possedeva nel palazzo in cui egli stesso abitava. C’era anche la lavatrice e, poiché il terrazzo condominiale disponeva di stenditoi, poteva fare il bucato da sé, evitando i costi di tintorie e lavanderie a gettoni.

    In fatto di spese, si sa, la coperta è sempre corta, dato che questa operazione faceva lievitare le bollette di luce e acqua; però con qualche piccolo accorgimento tipo il lavaggio ad acqua fredda – quando possibile – e la scelta della fascia oraria notturna, le manteneva abbastanza basse.

    Amava fare il bucato. Curarsi dei suoi indumenti dalla cesta per la biancheria sporca agli stenditoi & ritorno era un piccolo compito che esaltava il suo senso d’indipendenza. Non ci fosse stato l’ascensore, i novantasei gradini tra salita e discesa gliel’avrebbero fatta intendere come una seccatura; ma l’ascensore c’era, e lei arrivava sul terrazzo fresca e riposata, col profumo dell’ammorbidente nelle narici. Sempre, dopo aver steso i panni, si affacciava dal parapetto e vi rimaneva per qualche minuto. Solo pochi secondi li passava a guardare il corso a senso unico sottostante, dove i veicoli scorrevano come un fiume tra i greti dei palazzi costeggiati da marciapiedi su cui passeggiavano le persone, alcune spedite per la loro strada, altre che indugiavano davanti alle vetrine dei negozi. Tutto il resto del tempo teneva gli occhi chiusi per impedire alla prepotente vista di attirare tutta la sua attenzione: voleva concentrarsi per assaporare il vento e il relativo senso di beatitudine che la invadeva quando sentiva sulle guance, sul mento e fra i capelli il respiro della Natura.

    Seguendo un’accorta gestione economica, una volta all’anno poteva visitare quei luoghi di cui aveva tanto letto e fantasticato sin dalla sua adolescenza.

    Proprio la lettura era una passione che si era sviluppata sempre più in lei. Aveva acquisito una velocità tale da far fuori il ‘temibile’ Conte di Montecristo in una settimana, malgrado le otto ore giornaliere di lavoro. Per questioni economiche, ma anche per ragioni di spazio, usava prendere in prestito libri dalla biblioteca. Qualche volta usciva con gli amici, altre guardava la televisione, altre faceva visita ai suoi, ma la maggior parte del suo tempo libero lo dedicava alla lettura.

    Era una droga. Più leggeva e più ne sentiva la necessità.

    Sul fronte sentimentale le cose erano più ingarbugliate. Da dieci mesi intratteneva una relazione con un uomo sposato.

    3. I Donati

    Alessio – affermato psicologo trentaseienne – e Barbara – l’avvenente moglie di quattro anni più giovane – rientravano da un cocktail-party in casa di amici.

    Belli, benestanti e innamorati da diciotto anni come il primo giorno, incarnavano la coppia in cui molti vorrebbero riflettersi. Un amore tenero ma anche passionale, paziente ma spesso impulsivo, liberale ma in taluni casi intransigente. Un’intesa genuina e assoluta, senza alcun genere di inibizione…

    «Che ne sapevo io che era occupato?» ridacchiava Barbara, mentre entravano nell’ascensore. «Toccava a lei chiudere a chiave.»

    «Dev’essere stata una visione spettacolare» esclamò Alessio, premendo il 4.

    «Non era male.»

    «Ho sempre desiderato sorprendere una donna mentre si cambia l’assorbente.»

    «Che depravato che sei.»

    «Non lo sono affatto… Era il pannolino o il tipo che si spara dentro?»

    «Il pannolino te lo metterai tu.»

    «Dai, Barbie. Aiutami a figurarmi la scena» insistette, divertito, intanto che le porte si riaprivano.

    «A saperlo che ci tenevi tanto. Le avrei scattato una foto.»

    «Sarebbe stata un’idea fenomenale.»

    «Se vuoi, lo faccio io» ammiccò Barbara, fermandosi fuori dall’ascensore e accendendo la luce del piano.

    «Fai cosa?»

    «Mi siedo sulla tazza e, mentre armeggio con l’assorbente, tu apri la porta all’improvviso. ‘Cielo!’ esclamerei, con tanto d’espressione attonita da bambola gonfiabile.»

    Tra risolini strozzati per non fare baccano e baci pieni di sentimento, i due percorsero il pianerottolo a quell’ora deserto. Giunti presso la porta del loro appartamento, Alessio la bloccò spalle al muro con un bacio infuocato.

    «Dio mio, Barbie. Quanto sei bella» le disse estasiato, carezzandole il viso con le dita come fosse di cristallo.

    Lei cercò la sua mano con le labbra e gliela baciò teneramente, mentre le loro iridi si fondevano in una suadente alleanza.

    Nel momento in cui Alessio infilò la chiave nella serratura, Barbara emise un gran gemito di piacere. Adorava flirtare in questo modo. Sapeva quanto influisse sugli ormoni del marito.

    «Recupera il tuo contegno, chéri» fece Alessio, tono giocoso ma risoluto. «Non facciamo brutte figure con la baby-sitter.»

    Un richiamo inatteso. Ne fu urtata. Non reagì perché capì e condivise la sua motivazione; nondimeno, quell’atteggiamento scostante, una brusca virata che non s’aspettava, l’aveva fatta sentire immorale. Una viziosa che tenta un puro.

    Quest’ingiustizia la inacidì dentro.

    Entrarono. Lo stretto corridoio che attraversarono era tappezzato, oltre che dei loro attestati di studio, di cornici con foto che li ritraevano nei momenti più felici della loro vita: il settimo anniversario di fidanzamento celebrato a Courmayeur, il giorno del matrimonio, la crociera tra i fiordi norvegesi, lei con i neonati, lui al suo primo giorno nel nuovo studio e la famigliola al completo durante il viaggio a Parigi – quest’ultima scattata da Annalisa.

    Seri e taciturni, Barbara e Alessio giunsero nel soggiorno dove una ragazza bionda e snella, molto carina con quelle fossette nelle guance, sedeva sul divano masticando del chewing-gum. Guardava il video di una canzone, anche se poteva apprezzarlo solo in parte – il volume era basso. Non appena li notò, spense la TV e si alzò in un unico movimento, andando loro incontro.

    «Buonasera dottor Donati. Signora» le sorrise.

    «Ciao Annalisa.»

    «Hanno fatto i bravi?» le chiese Barbara, impegnata a togliersi le scomode scarpe a spillo.

    «Due angioletti. Sono già a le…»

    «Ah, Dio mio. Finalmente!» sospirò, interrompendola, articolando le dita dei piedi nelle calze di nylon.

    Annalisa sembrava a disagio. Alessio lo era. Infatti intervenne a rompere l’impasse creata dalla rudezza di sua moglie.

    «Grazie ancora per essere sempre disponibile con noi» le sorrise prendendo quaranta euro dal portafoglio. «Questi sono per te.»

    «Grazie dottore» s’illuminò Annalisa.

    «Grazie a te. Lorenzo e Robertino ti adorano e no…»

    «Ma quanti ringraziamenti stasera…» sibilò Barbara, dirigendosi verso la camera dei bambini.

    «…e noi siamo tranquilli a lasciarli con una ragazza coscienziosa come te.»

    Anziché imbronciarsi, Annalisa rise silenziosamente. Aveva trovato divertente il movimento delle sopracciglia e la smorfia con cui Alessio, mentre concludeva, aveva replicato all’ignara Barbara.

    Dopo aver controllato la posta elettronica sul computer dello studio, Alessio andò in cucina per bere qualcosa. Intanto che si versava un bicchiere d’acqua minerale, notò nel portacenere una cicca ancora fumante. Scoraggiato, aprì il rubinetto e la passò sotto l’acqua prima di gettarla nell’immondizia.

    In tema di salute, lui e Barbara concordavano praticamente su tutto. Anche sul fumo. Tuttavia lei era caduta nella trappola in gioventù e non ne era mai uscita del tutto. A livello concettuale conveniva con lui che fosse dannoso, ma è noto quanto la debolezza ami sbeffeggiare la coerenza. ‘Una ogni tanto’ era stato il patto del quieto vivere, anche se lui provava ancora a dissuaderla.

    Spenta la luce in cucina, la raggiunse nella loro stanza.

    «Che fai, sexy Barbie. Non ti spogli?» le domandò, trovandola seduta pensierosa ai piedi del letto con le gambe accavallate.

    «Eh?»

    «Credevo fossi smaniosa di essere aperta come una porta…»

    «Per niente. Forse sei tu smanioso di trovare la serratura per la tua chiave.»

    «Visto che non lo facciamo da quasi una settimana, mi sembrerebbe pu…»

    «Stavo pensando…» lo interruppe, indifferente, mordicchiandosi le labbra dall’interno.

    «Cosa?»

    «Hai notato il lampadario che avevano in salotto?»

    «Il lampadario?»

    «Che tocco di eleganza che davano quei cristalli! Hai visto come distribuivano bene la luce in tutto l’ambiente?»

    «Ora non ti metterai un altro yo-yo in testa?» polemizzò lui, cercando di mantenere un tono pacato.

    «Penso proprio di volerne uno simile» mormorò, rovistando nella borsa. «Quello che abbiamo in salotto, più che un lampadario pare un mappamondo.»

    «No, dai. Appesti la stanza» si lagnò vedendola con accendino e sigaretta. «Non ti è bastata quella che hai fumato di là?»

    «Non credi anche tu…» riprese lei, accostandosi alla portafinestra che immetteva sul balcone. «Un lampadario come quello, non sarebbe più in armonia con l’arredamento?»

    «Ho capito. Non ti basta il cancro ai polmoni. Vuoi pure la bronchite.»

    Lei si girò un attimo e, sfoderando il proprio ghigno, aprì le ante con voluttà. Il freddo s’intrufolò e la temperatura della stanza si abbassò di colpo.

    «Perfetto. Così ci prendiamo pure una bella malaria!»

    «Ma piantala, non dire scemenze. Febbraio le zanzare lo passano in Brasile.»

    «Fai come ti pare» borbottò lui, prima di andarsene in bagno.

    Aveva capito che per quella sera la porta del piacere sarebbe rimasta chiusa.

    4. I Baldini

    Nel cuore della notte, dei gemiti soffocati fecero sobbalzare Glenda.

    «Che succede?» biascicò Amedeo, svegliato dal suo brusco alzarsi – non era una donna esile.

    «I bambini. Mi pare di averli sentiti piangere.»

    Mentre Glenda andava a controllare, lui sospirò e si coprì gli occhi col cuscino. Non era pronto a impattare la luce.

    Amedeo, un longilineo quarantatreenne, non aveva ancora un solo pelo bianco né in testa né nella barba. Pareva dieci anni più giovane.

    Glenda ne aveva trentasette. Di carnagione bruna come lui, vantava dei lineamenti molto dolci che garantivano pure a lei un piccolo sconto sull’età.

    Erano sposati da cinque anni. I due figli, Marco e Tommy, di quattro e cinque anni, dormivano nella camera adiacente.

    Dopo qualche minuto Glenda tornò con Tommy in braccio. Senza accendere la luce, si rimise a letto, adagiando il bambino tra sé e il marito.

    «Che ha fatto?» si preoccupò Amedeo, mettendosi sul gomito.

    «Un brutto sogno.»

    «Cos’hai sognato, piccolo?» gli domandò, premuroso.

    Ancora scosso, Tommy si rifugiò nell’abbraccio materno.

    Amedeo fissava gli occhi supplicanti di Glenda intenta a coccolare il figlio. Conosceva bene quello sguardo. Sapeva cosa voleva e non ne era per niente entusiasta. Si girò dall’altra parte.

    Si aspettava la richiesta da un momento all’altro, ma lei non parlava.

    «Che ore sono…? Eh, le quattro» sbuffò parlando tra sé, vinto dalla pressione del suo silenzio. «Tra tre ore mi devo alzare, io.»

    Per alcuni secondi si udì soltanto il loro respiro.

    «Che fai?» scattò Amedeo, non appena la sentì muoversi.

    «Stai, riposati» gli disse, benigna, con Tommy in braccio.

    «Aspetta. Lascia, ci vado io» brontolò, mettendo di malavoglia le pantofole e alzandosi.

    Amedeo sapeva che nella mente di Glenda, Marco, senza il fratellino maggiore accanto, era ‘abbandonato a se stesso in un anfratto lontano e buio’. Sapeva che questo pensiero non l’avrebbe fatta riposare. Ma sapeva anche che se l’avesse lasciata andare, la coscienza lo avrebbe assillato fino al mattino.

    Quando entrò nella cameretta, la luce fioca proveniente dalla strada gli permise di vedere Marco. Dormiva placidamente, rannicchiato nel piano inferiore del doppio letto estraibile. Questa visione dissolse il suo malumore e un sorriso colmo d’amore paterno gli si formò sulle labbra. Non voleva ammetterlo nemmeno con se stesso, ma le sensazioni decretavano che era il suo favorito.

    Badando a non far rumore, salì sul letto superiore e s’infilò sotto la copertina. Non stava comodo. Il cuscino era troppo sottile. Lo piegò in due. Ora andava meglio.

    Rivolto verso il suo bambino, provò ad assopirsi.

    5. Spanky

    Erano le 8.30 di sera e pioveva quando Sonia uscì dal supermercato: un’altra noiosa giornata da cassiera andava in archivio. In giacca nera, con jeans strappati e la borsetta uncinetto bianca e nera, si affrettò col suo ombrellino a fiori verso il parcheggio sul retro.

    La BMW nera era già lì, ferma al solito canto irraggiungibile dalla luce degli alti lampioni doppi che illuminavano quell’area. Solo pochi veicoli – quelli degli altri dipendenti – erano in sosta.

    Seguendo la procedura di sicurezza, si accertò che non ci fosse nessuno che la vedesse salire in quella macchina. Tirò un profondo sospiro di pazienza e si fiondò verso la portiera del passeggero.

    Certo lui non poteva vivere questa relazione allo scoperto.

    Per evitare che il profumo di lei gli si appiccicasse sui vestiti, si portava sempre dietro o una tuta – se andavano al motel – o dei panni casual – quando si recavano in qualche locale fuori mano di un paese vicino. Li teneva nel bagagliaio della macchina assieme alla biancheria intima di ricambio, indossandoli solo pochi minuti prima di incontrarla. Portava tutto in lavanderia. Pagava in contanti e nessuno scontrino era mai entrato nelle sue tasche.

    «Spanky, amore mio» esclamò entrando.

    Gli occhi le brillavano d’entusiasmo.

    Lui riuscì a malapena a rispondere ciao mentre lei lasciava l’ombrellino ai piedi del sedile, che gli saltò al collo ficcandogli la lingua in bocca. La lasciò fare per il piacere, ma anche perché vetri fumé e buio garantivano discrezione.

    La sua freschezza giovanile, del corpo come dello spirito, lo eccitava ancora. Però non era più come ai primi tempi. Da circa un mese, il sentimento verso di lei scricchiolava come una vecchia sedia. I momenti in cui provava fastidio nei suoi confronti erano diventati via via più frequenti. Persino il profumo che lei usava aveva un impatto diverso sulla sua coscienza: prima, lo aiutava a stordirla; adesso, le forniva un megafono…

    Quando due minuti dopo lei si staccò come una vampira sazia, lui, accaldato ma anche imbarazzato, la invitò ad agganciare la cintura. Durante quell’intenso bacio aveva sempre tenuto gli occhi aperti sperando di incrociare i suoi. Voleva capire cosa la rendesse tanto focosa di recente. Le palpebre però erano rimaste abbassate tutto il tempo come a protezione di una trance orgasmica.

    Avviò il motore.

    «Allora, cos’hai fatto di bello oggi?» gli domandò briosa mentre uscivano dal parcheggio.

    «Sono stato allo studio. Nulla di particolare.»

    «E la cara consorte, come sta?» fece maliziosa, stringendosi al braccio che reggeva il volante.

    «Statti ferma! Vuoi che andiamo a sbattere?»

    «No, voglio che tu vieni a sbattermi.»

    Continuò a guidare, ostentando nell’espressione facciale il proprio disappunto. Sentiva che lei lo guardava.

    «Dai, Spanky. Sculacciami.»

    «Cosa?!»

    «Sculacciami. Ora.»

    «Tu sei pazza» mormorò, severo.

    Tuttavia un sorriso gli spuntò sul volto. Il suo sussiego perse credibilità.

    «Sono pronta» fece, sganciando la cintura e girandosi verso il finestrino. «Coraggio, Spanky. Sculaccia la tua pecorella.»

    «Finiscila. Sto guidando» ribatté, col sorriso che mutò in risata.

    «Beee, beee» lo stuzzicò muovendosi flessuosa, mugolando nel tendere il proprio sedere verso di lui.

    «Tra un po’ vedrai che ti fa il lupacchiotto…»

    Sonia si rimise composta e sogghignò.

    All’improvviso provò ad afferrargli il lobo con le labbra. La schivò con formidabile tempismo. Se l’aspettava.

    Una mossa del genere a letto avrebbe dato il La a un amplesso travolgente, ma mentre era alle prese con la strada viscida lo giudicò un atto stupido, infantile e pericoloso. Il divertimento passò e le lanciò un’occhiataccia molto più dura del tono usato poco prima.

    «Non guardarmi così, Spanky» s’imbronciò, civettuola.

    «La cintura.»

    «Agli ordini, boss!» e, impettita, gli rivolse il saluto militare con la grinta di un marine.

    «Vorrei tanto sapere che diavolo ti è preso ultimamente.»

    «Niente. Sono solo felice. Felice di stare con un uomo meraviglioso» sospirò, mettendogli una mano sulla coscia.

    La pioggia picchiettava sul vetro e lei andò perdendosi nel movimento monotono dei tergicristalli.

    Lui si voltò un paio di volte a osservarla. Poi riprese a parlare.

    «Sonia, senti. Io credo che dovre…»

    «Ehi, ehi! Attenzione!» sussultò lei.

    Lui guardò avanti. Fece giusto in tempo a rallentare, evitando di tamponare l’utilitaria bianca che li precedeva.

    «C’è mancato poco» si elettrizzò lei, mostrando il pollice all’in su.

    Quella scarica di adrenalina le aveva rivivificato lo sguardo.

    «Come ti senti?» gli chiese, arrivandogli con la mano all’inguine. «In forma?»

    «Cazzo!» urlò lui, sbandando leggermente e togliendole in modo brutale la mano da lì.

    «C’è, c’è» fece lei, ridendo di gusto. «Quando metti la tuta, mi arrapa troppo giocarci.»

    «Proprio non te ne frega che sta piovendo e che possiamo farci male, eh?»

    «Scusa. Hai ragione.»

    «Prima o poi l’incidente lo facciamo davvero.»

    «Perdonami Spanky. È che sono tutta bagnata, e non mi riferisco alla pioggia» miagolò, sfregandosi lì in mezzo, occhi socchiusi. «Proprio non ce la faccio ad aspettare fino alla Base.»

    Queste parole gli fecero maestosamente erigere il desiderio, oscurando il biasimo per la condotta incauta di quella gattina in calore. Un biasimo che lasciò solo qualche trascurabile impronta sulla sabbia della sua coscienza.

    La Base altro non era che La Carovana, un motel a due piani appena fuori città in cui erano soliti consumare.

    Quella stessa sera, la signora Baldini e la signora Donati attendevano il ritorno a casa dei mariti dopo a lunga giornata di lavoro…

    6. La Cuoca

    Amedeo sedeva al lato corto del tavolo apparecchiato a metà. Una bistecca con purè di patate insaporito da una spruzzata di besciamella e un bicchiere di vino rosso si stavano dicendo addio, poiché al termine dell’imminente e terrificante viaggio nell’apparato gastrointestinale non sarebbero stati più gli stessi.

    Glenda, pensierosa, era intenta a lavare i piatti.

    «Come mai hai fatto così tardi stasera?» gli chiese.

    La domanda gliela rivolgeva solo adesso. Gliel’avesse posta appena rientrato, sarebbe suonato come un interrogatorio; lasciando passare qualche minuto, invece, sarebbe sembrato un normale spunto per conversare.

    «Domani vado in aula. Dovevo rileggere alcuni atti.»

    Amedeo era uno stimato avvocato.

    «Ho provato a chiamarti. Più volte.»

    Lui tagliava la sua bistecca con la flemma di un gentleman inglese, ma pareva contrariato.

    «Nessuno mi ha risposto. Né dall’ufficio né dal tuo cellulare.»

    «Non volevo essere disturbato. Ora posso finire la mia cena o ne hai ancora per molto?»

    Glenda si girò verso di lui con l’espressione di chi cade dalle nuvole. Quell’atteggiamento scostante e polemico la intimidiva sempre, specie quando riteneva di non aver fatto nulla di male.

    «Volevo soltanto sapere quando tornavi per farti trovare la cena calda.»

    Amedeo alzò gli occhi dal piatto, ma Glenda si era già rigirata verso il lavello. Lasciò le posate e sospirò. Sì pulì il muso col tovagliolo, spostò la sedia e si alzò. Con un’espressione mite, la raggiunse. L’abbracciò da dietro, cingendo le proprie mani sul ventre di lei e piegandosi in avanti per poterle adagiare il mento sulla spalla. Lei rimase immobile, spugnetta in una mano e lasciando annegare la teglia che reggeva con l’altra.

    «Mi dispiace, Glen» le sussurrò all’orecchio, chiudendo il rubinetto. «Mi hai fatto trovare questa cena portentosa e io ho ricambiato scaricandoti addosso tutto il mio stress. Non volevo. Sono mortificato. Hai ragione, avrei dovuto chiamarti o almeno mandarti un messaggio» proseguì, aggiustandole la forcina (Glenda teneva i suoi capelli corvini sempre raccolti). «È che questo caso mi sta prendendo tutte le energie. Fisiche e mentali.»

    Glenda si voltò e lo guardò negli occhi. Lui le tolse la spugnetta e le asciugò amorevolmente le mani col grembiule che lei stessa aveva indosso. Il pentimento le sembrò sincero e poiché provava per lui un amore devoto e incommensurabile, le sue scuse furono più che sufficienti per archiviare l’accaduto. Non disse nulla. Lo perdonò con un sorriso.

    «E poi lo sai» aggiunse lui. «Sono un leone quando sono io a fare le domande. Quando la scena si ribalta…»

    «Non ti preoccupare, Ame» e gli accarezzò una guancia. «Ora va’ a finire la cena, prima che si freddi di nuovo.»

    Dopo un bacio casto, un guizzo gli attraversò gli occhi.

    «Domani chiama la baby-sitter. Ti porto a cena fuori.»

    Glenda toccò il cielo con un dito: più che la cena in sé, era stato l’entusiasmo con cui gliel’aveva proposto a farla levitare.

    7. Brava, Brava

    Barbara sedeva sul divano del suo salotto straordinariamente luminoso. Jeans attillati e maglione di cashmere, perdeva lo sguardo nei ciondoli del nuovo lampadario.

    Il giorno dell’acquisto, gioia e soddisfazione avevano acceso il suo bel viso. Adesso, era tutto spento. Continuava a trovarlo fine, ma lo percepiva come un qualsiasi altro tassello dell’arredamento.

    Era angustiata. Sul tavolino in vetro trasparente davanti a lei, oltre ai telecomandi e a un piatto d’argento con caramelle e cioccolatini, c’era un posacenere con quattro mozziconi di sigarette. Fumare l’aveva aiutata a indirizzare il proprio malessere verso la pazienza. Aveva provato con lo schermo LCD incastonato al centro della credenza in noce, ma non aveva trovato un programma uno che non la irritasse.

    L’improvviso sbattere della porta la destò. Un guizzo battagliero rianimò la sua espressione.

    «Finalmente sei tornato» fece, andando incontro ad Alessio e tenendo bassa la voce – i bambini a quell’ora dormivano.

    «Scusa, chéri. Ma ti avevo avvisata che avrei fatto tardi.»

    «Tu fai tardi una volta sì e l’altra pure.»

    Era talmente abituata alla situazione che non gli telefonava nemmeno più.

    «Barbie, sono stanco. È stata una giornata massacrante, oggi» e scantonò verso la camera da letto.

    Lei, divorata per ore da stress e solitudine, lo seguì. Impaziente di sfogarsi, voleva anche trovare una soluzione al problema che l’affliggeva da qualche mese.

    «Ale, davvero» ricominciò chiudendo la porta. «Non possiamo andare avanti così.»

    «Così come?»

    «Puoi fare il serio una volta tanto?» ribatté, avendo notato come lui si sforzasse di contenersi.

    «Très bien, ti ascolto» disse, abbassando gli occhi sulla camicia che iniziò a sbottonarsi.

    «È tutto il giorno che sono sola. Stamattina, le faccende domestiche. Rifai i letti…»

    «’Ste maledette asole…»

    «…rassetta le stanze, passa l’aspirapolvere, fai la lavatrice, cuci…»

    «E Giovannina?» la interruppe, menzionando la cinquantacinquenne donna di servizio.

    «Il mercoledì e la domenica non viene.»

    «Oh, pensavo fosse martedì.»

    «La pianti?»

    «Scusa.»

    «Non posso accettare che la mia vita sia ridotta a questo» riprese,

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