Un destino diverso
Di Dan Ruben
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Info su questo ebook
Un romanzo dal ritmo incalzante dove la crudezza delle descrizioni e l’ambientazione particolare si miscelano sapientemente all’amore puro e sincero di due ragazzi. L’avventura si mischia al thriller d’azione, in una lotta contro la malavita e contro un destino crudele. Una fuga verso la libertà dalla Bielorussia alla Polonia, dove i due giovani protagonisti dovranno affrontare un viaggio attraverso il labirinto della sorte, che li guiderà infine verso l'unica via d'uscita.
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Un destino diverso - Dan Ruben
RUBEN
Io me lo leggo
Collana editoriale,
contatto: iomeloleggo@yahoo.com
Direttrice: Monika M
1
L’INIZIO
Orsha, 7 Febbraio 2009
La neve cadeva fitta, turbinando in gelidi fiocchi che il vento dell’est portava con sé nel cielo grigio. Alexander, con un senso di vuoto nel petto, guardava la tempesta oltre il vetro dell’enorme finestra della sala relax, seguendone i percorsi nell’aria.
Il giallo tenue delle pareti doveva servire a tranquillizzare i ragazzi come lui, che diventavano spesso irrequieti a quell’età: avrebbe compiuto quindici anni alla fine del mese seguente, e questo faceva di lui uno dei ragazzi più grandi ospiti della struttura. Era in quell’orfanotrofio fin da quando aveva tre anni e questo, per lui, significava non avere memoria della sua vita precedente, non aver mai visto il mondo al di fuori di quelle mura e del giardino che circondava quel vecchio castello diventato, con gli anni, una casa di accoglienza per bambini abbandonati. La sua vita era regolata dai rintocchi di una campanella: un tocco per la colazione, due tocchi per il pranzo, tre tocchi per la cena. I ragazzi trascorrevano le mattine nelle aule studio, mentre i pomeriggi avevano qualche ora per stare tutti insieme e provare a relazionarsi, nel tentativo di creare una sorta di grande famiglia. Dal momento che Alexander era un veterano dell’orfanotrofio, tuttavia, occorreva che sbrigasse qualche piccolo lavoretto per la manutenzione della casa, mansioni pomeridiane che lo privavano di quel fugace contatto con gli altri ospiti della struttura. La situazione, tuttavia, non gli pesava: gli amici di un tempo non c’erano già più.
In quel momento, gli ospiti del vecchio castello erano più di quaranta, tra ragazzi e ragazze. I più fortunati di loro andavano via dopo qualche anno, adottati da qualche famiglia, e anche lui un paio di volte aveva creduto di aver trovato una casa al di fuori di quelle mura: circa sei anni prima, un uomo e una donna avevano chiesto di lui per ben due volte in una sola settimana, ma non se n’era più fatto nulla. Probabilmente quelle persone avevano trovato un bambino migliore di lui: si era rassegnato all’idea che sarebbe uscito da lì solo al raggiungimento della maggiore età. Nonostante tutto, però, si sentiva al sicuro tra quelle quattro mura, le uniche che avesse mai conosciuto: aveva visto bambini arrivare e andare via, qualcuno aveva raggiunto la sua stessa età, ma alla fine, presto o tardi, se n’erano andati via tutti, mentre lui restava sempre.
Fortunatamente, a spezzare quella logorante solitudine, cinque anni prima era arrivata Dominica: era stata portata lì insieme ad un'altra bambina, all’età di otto anni, e da subito tra loro era scattata una profonda simpatia. Entrambe le piccole erano state trasferite da un’altra struttura che stava chiudendo: avevano bisogno di essere accolte con calore e affetto, ma gli altri bambini dell’orfanotrofio non sembravano essere felici di quella strana novità. Alexander ricordava ancora la prima volta che l’aveva vista…
«Queste sono Dominica e Valery», disse la signora Smirnof arrivando in cortile per presentare le due nuove ospiti agli altri ragazzi. Alexander fu colpito dallo sguardo della ragazzina che l’educatrice aveva menzionato per prima: quegli occhi erano limpidi e dolci, di una dolcezza che lui non aveva mai incontrato.
L’aveva aiutata ad ambientarsi, l’aveva difesa dai ragazzi che avevano iniziato a importunarla soltanto perché era appena arrivata, come spesso succede: a modo suo, si era preso cura di lei. Dominica, quand’era arrivata, era una ragazzina minuta e impaurita, con un viso dolce e due splendidi occhi azzurri. Col trascorrere degli anni, il suo corpo aveva cominciato a prendere forma e lei, sentendosi più sicura, aveva iniziato a curare di più il suo aspetto, rendendosi così, agli occhi di Alexander, ancora più bella. Il ragazzo sospirò, pensando a lei con uno strano senso di calore nel petto.
I fiocchi dietro ai vetri cadevano sempre più velocemente, ma lui, nonostante fosse attratto dalla neve, appena sentiva entrare qualcuno nella sala si voltava a cercarla. Non era ancora arrivata, e lui si stava preoccupando perché di lì a poco l’enorme pendolo in corridoio avrebbe scandito l’ora, la campanella avrebbe suonato due volte e sarebbe stato costretto a correre in refettorio per il pranzo. Avevano solo quel poco tempo per stare insieme, visto che una volta finito il pasto lui sarebbe dovuto andare a spaccare la legna e avrebbe impiegato quasi tutto il pomeriggio per finire quel lavoro. Per vedersi di nuovo avrebbero dovuto aspettare la sera e l’ora di cena…
Alexander sbuffò, trattenendo un moto di impazienza: iniziò a camminare per la stanza, non aveva mai fatto così tardi. Continuava a girare lo sguardo nella sala, dove altri ragazzi giocavano o parlavano, ignari della sua pena: tutte le altre ragazze erano già arrivate da un pezzo, tutte tranne Dominica e la sua amica Valery. Alexander, anche se sapeva che era vietato, stava valutando l’idea di salire al primo piano, nel reparto femminile, ed aveva già escogitato molti modi per farlo senza essere visto. Quell’orfanotrofio era la sua casa, e lui lo conosceva meglio delle sue tasche.
Era sempre stato un bambino estremamente vivace, a detta delle sue educatrici, ma da quando era arrivata Dominica si era improvvisamente calmato, lei era la ragazza più sensibile che avesse mai conosciuto e aveva su di lui un potere quasi magico. Decise, con un secondo, profondo sospiro, di provare a tranquillizzarsi: probabilmente la ragazza era in ritardo per qualche stupido contrattempo femminile e sarebbe andata direttamente in refettorio allo scandire dei due tocchi. Mentre stava quasi per convincersi che fosse quella la ragione del ritardo, vide Valery entrare nella sala e cercarlo con lo sguardo: i loro occhi si incontrarono, già consapevoli dei reciproci pensieri, mentre il pendolo iniziava i suoi rintocchi.
Si avvicinò velocemente: «Che succede? Dov’è Dominica?», chiese a bruciapelo una volta raggiuta l’amica. Valery si schermì, alzando le mani in segno di scusa: «Purtroppo non si sente bene, stamattina ha incontrato di nuovo la famiglia che vuole adottarla e non l’ha presa bene», rispose Valery. «Non fa altro che piangere, non vuole venire a pranzare», concluse scuotendo il capo.
In quel momento entrò l’educatrice: la signora Smirnof passava per essere una tra le più severe, ma dopo tutti gli anni che aveva trascorso in quell’orfanotrofio sembrava avere un occhio di riguardo per Alexander.
«Devo andare un momento in bagno, signora», le disse lui sfoderando un sorriso innocente, mentre i pensieri si rivolgevano di nuovo al reparto femminile.
«Va bene, ma non fare tardi per il pranzo», lo redarguì bonariamente la donna, lasciandolo passare.
«Vi raggiungo in refettorio», asserì sicuro Alexander mentre la campanella batteva i due colpi.
Arrivò in fondo al corridoio, ma invece di svoltare per il bagno entrò nel locale lavanderia direttamente antistante, avviandosi al montacarichi sulla parete opposta all’ingresso. Una volta dentro, chiuse lo sportello e premette il pulsante del primo piano, per salire al piano superiore. Sapeva che, data l’ora, la piccola stanza dove raccoglievano i panni da lavare sarebbe stata vuota, ma si premurò lo stesso di aprire leggermente la porta prima di spalancarla completamente, per assicurarsi che non ci fosse anima viva. Si avviò lungo il corridoio, fino alla stanza di Dominica: entrò in silenzio, trovandola seduta sul suo letto, rannicchiata fra le coperte e… In lacrime. Si avvicinò a lei.
«Perché piangi?», le chiese appena le fu davanti, lo sguardo e la voce carichi di rammarico e tenerezza ad un tempo. Lei alzò gli occhi: non era sorpresa di vederlo, anzi, già sapeva che lui sarebbe venuto a trovarla, sapeva che lui ci sarebbe stato ogni volta che ne avesse avuta la necessità, e in quel momento aveva un disperato bisogno di parlargli.
«Domani vogliono portarmi via», rispose d’un fiato, con un filo di voce. Lui ebbe un colpo al cuore, ma cercò di non darlo a vedere. Non sarebbe stato facile non avere più la sua compagnia, la sola compagnia che non avrebbe mai voluto perdere… Si sedette sul letto accanto a lei e la cinse con un braccio, protettivo, sforzandosi di risponderle: «Dovresti essere contenta, uscendo da qui avrai finalmente una famiglia che ti vorrà bene», disse, cercando di rincuorarla. Lei si asciugò gli splendidi occhi azzurri, che per via delle lacrime erano ancora più lucidi e trasparenti.
«Non mi piace», singhiozzò, senza tuttavia aggiungere altro: si limitò a scuotere il capo, convulsamente, come se non riuscisse ad esprimersi.
«Cosa?», chiese lui, incalzandola a raccontarsi. Dominica fece un profondo sospiro: «Quell’uomo, Alexey».
Alexander le asciugò con la punta dell’indice una lacrima che le era scivolata lungo la guancia.
«Quello che dovrebbe diventare il tuo patrigno?»
«Sì, lui».
Dominica gli prese la mano, stringendola, mentre i suoi singhiozzi si facevano sempre più forti; le impedivano di parlare, forse persino di pensare.
«Perché?»
Alexander corrugò la fronte, cercando di capire, di capirla: quand’era toccato a lui, aveva sperato di trovare l’affetto e il calore umano di un genitore, avrebbe voluto capire che cosa significasse avere una famiglia, l’amore di una madre e di un padre: Dominica sembrava terrorizzata al solo pensiero, per una qualche oscura ragione.
«Mi guarda in un modo strano», continuò lei, «e mi fa paura, i suoi occhi mi fanno paura».
Il ragazzo avrebbe voluto infonderle un po’ di calma, e la strinse dolcemente tra sue braccia per farle capire ciò che provava.
«Non può essere una persona cattiva, fanno controlli su tutte le famiglie prima di presentarcele», tentò, prendendole il viso fra le mani e alzandolo leggermente, facendo in modo di guardarla negli occhi: «Non avere paura di perdermi. Io ti scriverò tutti i giorni», sorrise, prima di posare le sue labbra su quelle di lei.
Si erano già baciati altre volte, ma questa volta il contatto aveva un’intensità diversa, che Alexander percepì subito.
«Ho paura, Alexey», disse lei appena si furono staccati.
«Fra tre anni uscirò di qua e verrò a prenderti», rispose lui, convinto. Dominica accennò un sorriso forzato: «Fra tre anni?» ricominciò a piangere «Io non posso farcela», lo strinse.
«Cos’hai in mente, Dominica?»
Alexander le accarezzò la testa. I suoi capelli, così lisci, avevano sempre avuto un buon odore.
«Non puoi scegliere tu dove andare e con chi, purtroppo; questo è il nostro destino».
Lei alzò lo sguardo, puntando gli splendidi occhi azzurri nei suoi, trafiggendogli il cuore: «Io scappo stanotte», disse con ritrovata fermezza, «non voglio andare a vivere in quella casa, non voglio essere portata via da quell’uomo per nessuna ragione al mondo».
Alexander fu spiazzato non tanto dalla frase che aveva appena sentito, ma dal tono deciso e perentorio con cui la ragazza l’aveva pronunciata.
«E dove credi di poter andare? Non sai niente del mondo oltre queste mura, non conosci nessuno! È una follia!»
Lei gli prese il volto tra le mani con quella dolcezza che Alexey, nonostante la giovane età, aveva imparato ad amare: «Non m’importa. Preferisco morire di fame e di freddo piuttosto che farmi adottare da loro, tu non l’hai visto in faccia. Io sì, e non vorrei mai e poi mai incrociare quello sguardo di nuovo, anche a costo della vita».
Lui la fissò, non sapendo che fare o cosa dire, spiazzato dalla decisa volontà della giovane: egoisticamente, sentiva che avrebbe preferito continuare a stare con lei, ovunque e a qualsiasi prezzo. Tre anni erano davvero una vita a quell’età e lui, anche se aveva cercato di nasconderlo, non credeva di riuscire a resistere così a lungo senza vederla. Aveva bisogno di lei. Si alzò, avvicinandosi alla finestra, mentre la neve continuava a cadere coprendo tutto con il suo mantello di candore. Alexander aveva paura, ma non poteva e non voleva lasciarla da sola: si sarebbe preso cura lui di Dominica, anche nel mondo là fuori.
Si voltò, cercando i suoi occhi: «Vengo con te», disse deciso, «Scappiamo stanotte».
2
LA SCELTA
Avevano approntato un piano. Avevano deciso tutto in pochissimo tempo, come se avessero pensato a quel giorno sin dalla prima volta che si erano incontrati da bambini. Erano destinati a stare insieme. Avevano nascosto del cibo nelle tasche della divisa che erano costretti ad indossare, qualcosa da portarsi dietro una volta fuggiti da lì: i primi giorni di fuga sarebbero stati i più difficili, avrebbero dovuto correre e allontanarsi quanto più potevano per raggiungere una grande città, il più lontano possibile da quell’orfanotrofio. Alexander avrebbe cercato un lavoro, qualunque cosa gli desse la possibilità di guadagnare quanto bastava per vivere insieme. Non sarebbe stato facile, ma avevano dalla loro parte il sentimento che li legava: l’amore avrebbe dato loro la forza per riuscire ad affrontare i momenti più difficili. Alexey sapeva che il piano che avevano ideato era tutto meno che perfetto, e dentro di sé sentiva crescere la paura per quanto stava per succedere.
L’eccitazione e l’adrenalina coprivano a ondate quella paura, sommergendola quel tanto che bastava per non tirarsi indietro. Ci aveva pensato tutto il giorno, soprattutto quando nel pomeriggio era andato da solo a tagliare la legna, cercando di autoconvincersi sempre più di quella drastica scelta. Chissà cos’avrebbero pensato Valery, la signora Smirnof, le poche persone che avevano fiducia in loro. Si chiedeva se sarebbero mai arrivati a capire cosa li aveva spinti a fuggire, ma il pensiero di abbandonare tutto e tutti passava inevitabilmente in secondo piano: sarebbe riuscito a prendersi cura di lei, lo avrebbe fatto, lo voleva con tutte le sue forze. Aveva nascosto tra le pieghe della camicia un coltello che aveva rubato in falegnameria perché doveva proteggerla, perché niente e nessuno avrebbero dovuto farle del male. A cena si erano scambiati solo poche occhiate complici, cercando di recuperare, nascondendoli, un frutto e qualche pezzo di pane. Si erano poi diretti alle rispettive camere, al primo piano lei, nel reparto femminile, al secondo piano lui, in quello maschile. Alexander aveva provato a sdraiarsi sul letto nel tentativo di riposarsi, ma ciò che li attendeva lo aveva tenuto sveglio, la mente che correva tra milioni di pensieri differenti. Sarebbero usciti dal finestrone della sala e avrebbero corso oltre il muro che delimitava il giardino, fino ai binari della ferrovia. Poco dopo la mezzanotte passava sempre un treno merci che, in prossimità del bosco, nei pressi di una lunga curva, rallentava per poi ripartire: il suo sferragliare lo aveva accompagnato tutte le notti, nei lunghi anni che aveva passato in quella camera, e aveva fantasticato spesso sulla destinazione finale di quel treno. Ora l’avrebbe scoperta. Avrebbero dovuto saltare su un vagone in corsa, approfittando del forte calo di velocità in prossimità della curva: era la loro unica possibilità. Fortunatamente aveva smesso di nevicare, ma il manto bianco e spesso rimasto a terra li avrebbe rallentati notevolmente, costringendoli ad uno sforzo enorme. Nemmeno il freddo sarebbe stato d’aiuto. Alexey aveva nascosto sotto la sua branda una saccoccia con dentro tutto quello che poteva servirgli, lasciando lo spazio per la coperta che aveva nel letto e che avrebbe piegato e nascosto al suo interno prima di scappare. Tutti i ragazzi erano a letto già da un pezzo: nel silenzio sentiva i loro respiri, ma non erano una preoccupazione per lui; anche se qualcuno si fosse svegliato, era certo che non avrebbe parlato, nemmeno se lo avesse visto scappare: vivere lì non era facile, per nessuno di quei ragazzi, e lui si era guadagnato il loro rispetto. Si girò sulla brandina, guardando il display del piccolo orologio da polso che teneva sul comodino. Era quasi ora. Si alzò, cercando di fare meno rumore possibile, prese da sotto il letto lo zaino, piegò la coperta e la infilò nella sacca, chiudendo bene la cerniera. Guardò un’ultima volta la sua stanza, quella che per tanti anni era stata la sua casa, il porto sicuro dove rilassarsi nei momenti bui. Con un profondo sospiro, lentamente, si avviò attraverso il corridoio, immerso nel silenzio più totale, fino alle scale, passando accanto al locale lavanderia. Non poteva scendere dal montacarichi come aveva fatto la mattina, perché a quell’ora il rumore avrebbe svegliato tutti: le scale erano l’unica soluzione, se non volevano essere sentiti. Avrebbe raggiunto Dominica e insieme sarebbero scesi al piano terra per uscire dalla finestra della sala relax. Conosceva ogni angolo di quella casa e anche con il buio, interrotto solo dalle sporadiche luci d’emergenza sparse per il corridoio, sapeva esattamente come muoversi. Scese silenziosamente i gradini arrivando al corridoio del primo piano. C’era una porta a vetri chiusa a chiave per impedire che i ragazzi potessero andare dalle ragazze, ma lui sapeva come riuscire ad aprirla. Con la punta del coltello che aveva preso in falegnameria forzò la debole serratura e si incamminò verso la stanza di Dominica. Come arrivò davanti alla sua porta lei uscì, andandogli incontro: era già pronta. Si guardarono per un momento, come per darsi forza reciprocamente: poi, con un sorriso carico di tensione mista a dolcezza, ritornarono verso la rampa delle scale. Erano quasi arrivati alla porta a vetri, quando la luce del corridoio si accese improvvisamente e una voce di donna urlò: «Dove credete di andare!?»
I due si guardarono, spaventati, prima di iniziare istintivamente a fuggire mentre la donna, una sorvegliante, si avvicinava correndo. Come per magia, tutto l’orfanotrofio sembrò svegliarsi con un trapestio crescente, in una confusione di suoni e luci che si accendevano man mano. Alexander, più veloce di Dominica, arrivò per primo alla rampa di scale, iniziando a scenderle. Lei invece, rallentata dalla pesante borsa che aveva preparato per la fuga, non era in grado di tenere il passo: la guardiana l’aveva quasi raggiunta. Vide Alexey scendere le scale, ma proprio mentre si apprestava a imitarlo una mano l’afferrò per la tracolla della borsa. Cercò di divincolarsi con forza, era quasi arrivata ai gradini, ma la donna non mollava la presa sulla sacca che conteneva tutti i suoi averi, tutte le sue speranze di sopravvivere per qualche giorno nel mondo all’esterno di quel luogo: non poteva separarsene, ma quella decisione le si rivoltò contro.
«Fermati!»
Con uno strattone, Dominica si liberò, perdendo però l’equilibrio: si ritrovò catapultata oltre la ringhiera delle scale, senza riuscire ad aggrapparsi al corrimano. Alexander era quasi al piano terra quando, voltandosi, la sentì urlare, un attimo prima di vederla di precipitare al suolo.
Tutto si svolse nell’arco di una manciata di secondi: fu come ricevere un pugno alla bocca dello stomaco, come sentirsi mancare l’aria nei polmoni. Stordito, esterrefatto, Alexander si precipitò al capezzale del suo corpo immobile, incapace di metabolizzare l’accaduto. Il petto della giovane non sembrava neppure muoversi, il trauma doveva averla…
«Dominica!», gridò, toccandole la spalla, scuotendola per cercare di svegliarla, ordinando ai pensieri di fermarsi prima di dare forma all’ultima parola di quella feroce sentenza: lei non rispondeva, non dava segni di vita.
La guardiana si