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Che ti sia lieve la terra
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Che ti sia lieve la terra
E-book230 pagine3 ore

Che ti sia lieve la terra

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Info su questo ebook

Che la terra ti sia lieve. Non ti sembra strano che queste parole vengano usate come epitaffio sulla tomba di chi muore?" sussurrò Nina. "No, ... che ti sia lieve la terra, che non ti pesi quando ti seppelliamo, che non ti intrappoli in questo mondo, ma ti permetta comunque di lasciarlo, di partire..." "Si, forse hai ragione, per me però queste parole hanno un sapore di vita, come a dire che il tuo passaggio sulla terra sia lieve...." Olivia, Irena, Nur, e Nina, quattro figure femminili che ci raccontano del presente e di memorie lontane sospese tra l'Italia, i Balcani e il Libano. Le loro storie si alternano e si intrecciano, si rincorrono lungo il bordo orientale del mar mediterraneo, tessendo una trama che unisce l'Occidente al Medio oriente.
LinguaItaliano
Data di uscita23 set 2014
ISBN9788891157874
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    Anteprima del libro

    Che ti sia lieve la terra - Camilla de Concini

    Morgana

    Capitolo 1

    Olivia camminava svelta sul marmo dell’Aeroporto Internazionale Rafic Hariri di Beirut, aveva uno zainetto rosso in spalla e la mano nella mano di sua zia. Avrebbe voluto pattinare su quel pavimento liscio e pulito, ma pensò che non fosse il caso, la zia era stanca, nervosa, si guardava intorno spazientita e ogni tanto le tirava il braccio per farla accelerare. Erano partite la mattina presto dall’Italia e avevano viaggiato tutto il giorno, poi erano rimaste a lungo, in piedi, davanti ai soldati di frontiera.

    Oltre le transenne si vedeva un accalcarsi di corpi e di gambe. C’erano palloncini colorati, bambine vestite a festa e fiori incartati e infiocchettati; c’erano uomini coi baffi, molti uomini coi baffi, più di quanti non ne avesse mai visti tutti assieme e poi c’erano donne col foulard intorno al viso, ragazze coi capelli lunghi e le gonne corte, portavano tacchi altissimi che a lei parvero i trampoli delle fiere di paese. C’era un odore strano che le ricordava qualcosa, ma non sapeva bene cosa. L’aria condizionata era fredda e sapeva di sigarette spente.

    Olivia alzò lo sguardo. Tra le tante teste ricce vide spuntare le facce di Nadir e di Isham che si spingevano tra la folla. Poi vide Rima, era un po’ più indietro, stava in piedi accanto a suo padre, lo zio Nuhad.

    La zia li notò, aggirò le transenne, accelerò il passo e le lasciò la mano. Olivia vide la zia che veniva accerchiata dalla famiglia, poi la vide nascondere il viso sulla spalla di Nuhad e abbracciarlo a lungo. Nadir le saltellava attorno, in cerca di attenzione. La gente si accalcava spingendo carrelli debordanti di valigie. La gente la tirava, la schiacciava, la spingeva, Olivia si sentì alla deriva. Un’alga trascinata dalle onde del mare. Cercò con lo sguardo la famiglia, ma nella calca non distingueva nessuno. Accidenti, si era distratta un attimo e si era persa, possibile che fosse stata così stupida? Da che parte erano? Niente, non vedeva nessuno, solo gambe, scarpe, schiene. E adesso, cosa avrebbe fatto? Smarrita come una mocciosa al supermercato. Di che colore era vestita la zia? Possibile che nessuno avesse notato la sua assenza? Possibile che non la stessero cercando? La testa cominciò a girarle e sentì che in mezzo a quel muro impenetrabile di gente le mancava l’aria; poi fu sollevata da terra, alzò lo sguardo spaventata e si ritrovò appesa al collo di Nuhad. Vide il suo viso avvicinarsi e sentì la sua barba nera e ruvida pungerle la faccia.

    Ahlan wa sahlan Olivia! – urlò col suo vocione profondo, sorridendo. Olivia non poté fare a meno di rispondere a quel sorriso: conosceva quella lingua, era la lingua di sua madre, la lingua delle ninnananne e dei segreti, una lingua magica che nessun altro all’infuori di loro poteva capire. Olivia si sentì a casa.

    I cugini la attorniarono incerti, la guardavano curiosi ma restavano in silenzio.

    Salirono tutti e sei in macchina, gli zii davanti e loro quattro pigiati sul sedile posteriore di una vecchia Mercedes bianca.

    Non ricordava bene la casa, ma quando arrivarono era talmente stanca che non aveva voglia di esplorare. La zia sistemò un materasso a terra, accanto al letto di Rima e le mise un paio di lenzuola profumate, color arancio. Olivia si appoggiò sul letto e cadde all’istante in un sonno profondo.

    Si svegliò che era buio, non riusciva a capire dove si trovasse, ma di certo quella non era la sua stanza. Doveva fare pipì, ma non si azzardava a muoversi, aveva paura.

    Restò in silenzio cercando di ricordare.

    Era caldo, quasi si soffocava, ma doveva assolutamente proteggersi. Si coprì fin sopra la testa con il lenzuolo, era uno scudo sottile ma potente e lei vi si nascose sotto, senza lasciare neanche una piccola parte di sé esposta alla mercé del buio.

    Le sembrò che il suo ventre fosse molle e vulnerabile, allora si girò a pancia in giù e trasformò la schiena in un guscio di tartaruga, duro e inespugnabile.

    Prese a dondolarsi nel tentativo di non pensare a niente e di riaddormentarsi, ma sentì una serie di colpi secchi, forti, distinti che scandivano il tempo e rabbrividì.

    Più passavano i minuti più quel martellare si faceva assordante. Era il suo cuore e batteva sempre più veloce. Sbatteva contro le costole scuotendole.

    Doveva calmarsi.

    A dieci anni era troppo grande per avere paura del buio.

    Nel dormiveglia una voce metallica la fece sussultare:

    Allaahu Akbar – era una voce di uomo che cantava al megafono.

    Allaahu Akbar – altre voci si unirono alla prima da direzioni diverse.

    Allaahu Akbar – Olivia ascoltò quelle voci e poco a poco sentì che stava diventando leggera.

    Ash-hadu an la ilaha illallah – il suo corpo cominciò a fluttuare nell’aria e si diresse verso la finestra aperta.

    Ash-hadu anna Muhammadan Rasulullah – Olivia si affacciò sui tetti della città.

    Hayya ‘alas-salah – le voci si espandevano nell’aria, rimbalzavano di casa in casa e lei le seguì galleggiando nel cielo umido.

    Hayya ‘alal-falah – ammirò dall’alto le poche luci ancora accese.

    As-salatu khayru min al-nawm – oltre i palazzi vide il mare allargarsi all’orizzonte, poi vide il cielo scuro tingersi di luce e sorrise al giorno che scacciava la notte.

    Allaahu Akbar – conosceva quel canto, certo! Era la voce del muezzin, un uomo con la barba lunga, che cantava versi del Corano per richiamare i fedeli alla preghiera.

    Allaahu Akbar – chissà se anche gli zii stavano pregando?

    La ilaha illallah – ma certo, ora ricordava, si trovava in Libano.

    Sua madre era morta da cinque giorni.

    Fece la pipì a letto e rimase sveglia in quel bagnato appiccicoso che a poco a poco da tiepido si fece freddo. Si addormentò mentre il sole stava sorgendo cullata da una brezza fresca che entrava nella stanza sollevando le tende.

    Capitolo 2

    Nur preparava il pranzo in attesa che i figli tornassero da scuola. Sua nipote era in camera, ne sentiva di tanto in tanto i passi e poteva immaginarsela mentre camminava nel corridoio per andare al bagno e poi tornare indietro, sdraiarsi di nuovo sul letto e riprendere a leggere. A Olivia piaceva molto leggere ed era quasi sempre immersa nelle pagine di un libro. Nur non sapeva se fosse sempre stata così o se, spaesata dagli ultimi eventi e dall’arrivo a Beirut, stesse utilizzando la lettura come paracadute, per atterrare più dolcemente nella nuova realtà. In fondo si conoscevano appena e Nur era preoccupata di come potesse reagire Olivia a un’onda d’urto così devastante. Lei stessa si sentiva molto fragile, se si fermava un attimo, si ritrovava sul bordo di una voragine oscura e dal fondo di quel precipizio le sembrava di udire la voce di sua sorella che la chiamava a sé, il pensiero della sorella la seguiva ovunque, si manifestava all’improvviso scatenato da stimoli che apparentemente non avevano nulla a che vedere con Ni’mat: poteva essere un profumo nell’aria o un raggio di luce che illuminava la polvere sospesa nella stanza. Non appena quel pensiero conquistava la sua testa un dolore dilaniante l’attanagliava e Nur pensava che sarebbe durato per sempre, che non se ne sarebbe liberata mai. Sentiva un’urgenza, un bisogno quasi fisico, animale di abbracciare la nipote, di stringerla forte, di annusarla, come se fossero le uniche due superstiti di un naufragio.

    Anche ora sentiva quel richiamo, forse sarebbe dovuta salire di sopra a controllare se Olivia stava bene. Quando non le era accanto la prendeva una paura irrazionale che la nipote sparisse, era terrorizzata all’idea di perderla.

    Di certo la bambina aveva bisogno di ambientarsi e Nur voleva darsi da fare per far sì che avvenisse il più rapidamente possibile.

    Stava mettendo in tavola il pranzo quando sentì Rima e Isham rientrare da scuola, pensò che fosse il momento ideale per il discorsetto che si era preparata quella mattina. Non appena si sedettero a tavola cominciò:

    – Ragazzi, Olivia è appena arrivata, sapete che per lei è un momento molto difficile, ha appena perso sua madre ed è spaesata, non è facile ambientarsi in un nuovo contesto.

    – Quindi? – aveva chiesto Isham.

    – Presto verrà a scuola con voi, cercate di farla sentire accolta, di starle accanto i primi giorni. – I ragazzi la guardavano con occhi interrogativi.

    – Non so, magari potremmo invitare qualche vostro amico qui a casa, fare una piccola festicciola di benvenuto, così avrà l'occasione di conoscere qualcuno e magari non si sentirà troppo sola a scuola.

    – Mamma, già devo dividere con lei la mia stanza, non pretenderai che divida con lei anche le mie amiche! – protestò Rima seccata.

    Qelbi, abbi un po’ di pazienza, tua cugina è appena arrivata.

    – Comunque parla come una bambina di tre anni, le mie amiche mica capiscono l’italiano.

    – Adesso non esagerare, vedrai che presto il suo arabo sarà come il tuo, del resto per imparare una lingua bisogna praticarla e magari conoscere qualcuno le servirà da stimolo.

    – Forse potremmo presentarle qualche amico di Nadir, di certo con loro non avrà problemi di comprensione – commentò Isham.

    Rima scoppiò a ridere e Nur si vide costretta a spedire i ragazzi in camera in punizione.

    Era delusa dalla reazione dei suoi figli. Del resto però c’era da aspettarselo, anche per loro l’arrivo improvviso della cugina non doveva essere facile da accettare. Non era un cambiamento da poco e al momento i ragazzi vedevano in lei solo un'intrusa. In fondo per loro Olivia era una sconosciuta, una bambina qualunque con cui molti anni addietro avevano giocato qualche giorno in spiaggia, forse addirittura si sentivano minacciati dalla sua presenza perché vedevano che assorbiva tutte le sue energie, era probabile che fossero gelosi.

    Non era giusto mettere troppa pressione su di loro, anzi sapeva per esperienza che insistendo avrebbe ottenuto solo l’effetto contrario.

    «Se i ragazzi sono così refrattari, dovrò rimboccarmi le maniche io» Non poteva certo abbandonarla a sé stessa, ricordava bene quanto fosse stato difficle quando era toccato a lei di dover lasciare improvvisamente la sua casa, la sua terra, per ritrovarsi straniera in un paese sconosciuto.

    Era l’82, la guerra civile in Libano si era inasprita: gli israeliani, dopo aver invaso il sud del paese, erano entrati a Beirut occupandone la parte ovest ed era diventato quasi impossibile circolare per la città. Suo padre all’epoca aveva buoni rapporti commerciali con l’Emilia Romagna – importava macchinari industriali per la produzione del gelato – decise quindi che la famiglia si sarebbe rifugiata in Italia, in attesa che la situazione si calmasse.

    Erano partiti per un vero e proprio viaggio della speranza, in quel momento era difficile lasciare il paese, l’aeroporto di Beirut veniva bombardato spesso. Suo padre voleva tentare di imbarcare la famiglia su una nave per Cipro. Nur ricordava bene la tristezza che l’aveva assalita al momento di lasciare casa, la difficoltà di dover scegliere poche cose da portarsi dietro senza sapere se e quando sarebbe tornata.

    Fin dall’inizio, il viaggio era stato difficile e disagevole: il porto era pieno di gente e non si riusciva a capire quando sarebbe partita la loro imbarcazione. Erano rimasti due giorni accampati con gli altri sulle banchine, sussultando a ogni rumore di esplosione. Alla fine il padre era riuscito a trovare i biglietti per un traghetto, ma i passeggeri erano troppi e avevano dovuto viaggiare sul ponte, tremando per il freddo la notte e bruciandosi al sole durante il giorno. La nave era talmente piena che era difficile poter usare il bagno, e il ponte, nel giro di poco, era diventato sporco e maleodorante. Non ci si poteva lavare e al momento dello sbarco sembravano tutti macilenti, sporchi e affamati. Nur ricordava il senso di vergogna davanti agli sguardi compassionevoli dei ciprioti che venivano al porto spinti dalla curiosità o dal desiderio di dar loro una mano. La gonna le si era strappata in viaggio e lei faceva di tutto per nascondere quel buco come se quello strappo fosse l’emblema della loro condizione di precarietà. L’esercito li aveva scortati all’aeroporto di Larnaca e di lì con un volo militare erano giunti in Italia.

    Quando arrivarono ad Anzola Emilia, Nur aveva dieci anni e Ni’mat sei, appena compiuti. Il prete del paese, nel tentativo di supportarli, aveva annunciato durante la messa domenicale che era arrivata in paese una famiglia di profughi libanesi ed aveva insistito perché tutti, da buoni cristiani, si mostrassero generosi e ospitali. Non era raro, quindi, che trovassero delle buste con vestiti usati e scatolette di cibo davanti alla porta di casa. La sua famiglia non era povera e i sui genitori erano entrambi professionisti affermati, facevano parte della ricca borghesia progressista di Beirut. Quelle buste anonime davanti al portone erano piene di buone intenzioni, ma lasciavano a tutti loro un profondo senso di umiliazione. Nur ricordava ancora sua madre in lacrime quando avevano trovato il primo pacco. Se solo qualcuno avesse bussato alla porta, si fosse presentato e fosse entrato a bere un caffè con loro, invece di lasciare quelle buste di nascosto…

    Erano stranieri, libanesi, arabi e la gente li guardava con diffidenza, pensavano che venissero da un paese pieno di palme e cammelli, un paese di nomadi che vivono nel mezzo del deserto ignari del mondo.

    Erano sciiti, barbari musulmani con abitudini alimentari strane e riti sospetti. Per la verità nella sua famiglia erano laici, non si celebrava il ramadan e non si faceva troppo caso alla carne di maiale, ma di certo non erano cattolici, non festeggiavano né Pasqua né Natale.

    Ricordava ancora bene il dramma della prima comunione: sua sorella era nell’età perfetta per iniziare il catechismo e prepararsi a quel sacramento, sarebbe stato sufficiente un battesimo un po’ tardivo a risistemare tutto e a trasformarla in una perfetta italiana. Le sue compagne di classe ovviamente non parlavano di altro, del vestito che avrebbero scelto, dei regali che avrebbero ricevuto e di dove avrebbero fatto la festa per celebrare l’occasione.

    Ni’mat, attorniata da tanta concitazione, non era rimasta indifferente e, dopo qualche dubbio iniziale, aveva deciso che anche lei voleva il vestito, i regali e la festa. Si era fatta coraggio e aveva chiesto ai genitori se poteva fare il battesimo, seguire il catechismo per poi fare la prima comunione.

    Hayeti, – aveva risposto il padre, – se ti interessa la religione cattolica, sei libera di andare a catechismo e di imparare. Il battesimo però significa entrare a far parte di una comunità che non è la tua, tu sei sciita, musulmana, quando sarai grande e saprai cosa significa, potrai decidere, ora se vuoi puoi studiare, ma battezzarsi è fuori discussione. – Ni’mat era corsa da lei in lacrime e ne aveva fatto una tragedia, voleva vestirsi come una principessa e voleva poter invitare tutti i suoi compagni alla festa più bella del mondo, voleva essere come tutte le altre, invece in classe, i compagni la chiamavano con fare sprezzante beduina e lei si sentiva brutta e sola.

    Col tempo ovviamente le cose erano andate meglio, avevano trovato un gruppo di amici affiatato e consolidato. Ma anche ora, a distanza di anni, Nur sapeva bene quanto l’alleanza con sua sorella fosse stata alla base della sua sopravvivenza in Italia. Doveva assolutamente trovare il modo di far sì che i suoi figli...

    Olivia apparve sulla soglia della cucina e riportò Nur bruscamente al presente.

    Sembrava piena di energia, quasi… felice.

    Era le prima volta che Nur la vedeva così vitale.

    – Domani è domenica, zia perché non prepariamo una torta per la colazione?

    – Le torte non sono il mio forte habibi, forse potremmo cercare un ricettario…

    – Non preoccuparti, hai davanti a te la miglior pasticcera d’Italia!

    Nur la guardò stupita, la nipote sembrava una furia, apriva e chiudeva ante e cassetti.

    – Abbiamo delle fruste? Dove trovo le uova?

    Le due si misero fianco a fianco a lavorare. Nur era impacciata e chiedeva continuamente a Olivia – E adesso che dobbiamo fare? E poi cosa ci serve? – Olivia invece sembrava a proprio agio, rispondeva sicura di sé, senza esitazioni, dava indicazioni chiare e puntuali.

    Nur si fermò un attimo a guardarla.

    La nipote lavorava concentrata facendo piccoli movimenti precisi. Si muoveva rapida per la cucina, come se si trattasse del suo ambiente naturale. Aveva un’aria così… decisa. «Olivia ce la può fare» pensò e sentì le proprie ansie calmarsi un poco.

    Erano intente a sbucciare le mele quando Olivia si fermò un attimo, si girò verso di lei e le disse incerta:

    – Senti zia, – di colpo le sembrò piccola e fragile, – non so proprio come fare con quel mio problema… – Nur, colta di sorpresa da quel mutamento, tentennò:

    – Quale problema hayeti?

    Olivia abbassò lo sguardo sulla ciotola di

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