Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La strana distanza dei nostri abbracci
La strana distanza dei nostri abbracci
La strana distanza dei nostri abbracci
E-book336 pagine4 ore

La strana distanza dei nostri abbracci

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Estate del ‘69: i giovani sono spinti dal gioioso vento beat a frantumare le barriere sociali, reclamano nuove libertà. Ma a Bolzano si avverte l’ambiguità di una terra di confine contesa, lambita appena dal sentimento di fratellanza universale. Rudi è uno studente, abita a Shangai (Bolzano) nel quartiere a ridosso della zona industriale. Ama scrivere, poetare, è attratto dall’arte e dalla Bellezza. Non sa che farsene della politica. Franzis è una ragazza tedesca consapevole e intelligente quanto spinosa. Il destino incrocia le loro vite in una sequenza di accadimenti sconvolgenti: alla dolcezza per la reciproca scoperta si contrappone l’ombra di laceranti esperienze personali.
LinguaItaliano
Data di uscita25 ott 2013
ISBN9788868150464
La strana distanza dei nostri abbracci

Correlato a La strana distanza dei nostri abbracci

Ebook correlati

Narrativa generale per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La strana distanza dei nostri abbracci

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La strana distanza dei nostri abbracci - Roberto Masiero

    La strana distanza dei nostri abbracci

    romanzo

    Roberto Masiero

    Meligrana Editore – Priamo

    Copyright Meligrana Editore, 2014

    Copyright Priamo, 2014

    Copyright Roberto Masiero, 2014

    Tutti i diritti riservati – All rights reserved

    ISBN: 978-88-6815-046-4

    Immagine in copertina:

    La bicicletta di Nadia Favero,

    acrilico su tela, 2009, 100x100 cm,

    (fotoritocco: Marco Crestani).

    Meligrana Editore

    Via della Vittoria, 14 – 89861, Tropea (VV)

    Tel. (+ 39) 0963 600007 – (+ 39) 338 6157041

    www.meligranaeditore.com

    info@meligranaeditore.com

    Priamo

    www.priamoedit.it

    info@priamoedit.it

    INDICE

    Frontespizio

    Colophon

    Licenza d’uso

    Roberto Masiero

    Copertina

    Premessa

    Dedica

    La strana distanza dei nostri abbracci

    Priamo

    Meligrana

    Note

    Licenza d’uso

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale e non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se si desidera condividere questo ebook, è necessario acquistare una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non è stato acquisito per il vostro unico utilizzo, si prega di acquistare la vostra copia. Grazie per il rispetto all’impegnativo lavoro di questo autore.

    Roberto Masiero

    Roberto Masiero è nato e cresciuto a Bolzano, ma risiede da molti anni nei dintorni di Treviso. Si definisce volentieri autore dalle radici aeree, per sottrarsi alle classificazioni. Scrive preferibilmente narrativa con qualche fuga necessaria nella poesia. Sue pubblicazioni e recensioni compaiono in diverse riviste ed antologie. Dello stesso autore: la raccolta di racconti Una notte di niente (2005 Editing) ed il romanzo Mistero animato, finalista al premio Rhegium Julii opera prima (2009 Mobydick).

    Contattalo:

    robertomasiero@libero.it

    Seguilo su:

    https://www.facebook.com/roberto.masiero/about

    Questo romanzo si è nutrito di notizie storiche, ma le vicende narrate e i nomi dei personaggi sono frutto della libera ricostruzione nella fantasia dell’autore: ogni riferimento è dunque puramente casuale.

    Cercavo di aver foglie. Volevo attecchire.

    Trattenendo il respiro – perché accadesse prima –

    aspettavo di chiudermi in una rosa.

    Wisława Szymborska, Tentativo

    Amai trite parole che non uno

    osava: mi incantò la rima fiore

    amore,

    la più antica difficile del mondo.

    Umberto Saba, Amai

    Poi subito tutto si scompone e si dissolve in cenere come la mano che riempì quei fogli.

    Presto non rimane che un mucchietto di braci lucide e nere.

    Sàndor Màrai, Le braci

    A Wally e Fabio.

    Ai miei nipoti sorprendenti.

    1

    Qualche volta mi comporto da egoista, anzi da vero bastardo: esisto solo io. I più, in buona fede, pensano che sia solo un distratto e questo è vero, in parte: dunque il mio giudizio non cambia. Ad essere sincero, stabilisco certe precedenze che mi isolano da tutti. Così sentivo e non sentivo Siegfried che si sgolava a chiamarmi da un altro pianeta: inutile, io continuavo a grattarmi una caviglia. Con calma, quasi soprappensiero. Mi servivo dell’altro piede. Sollevando un poco la balza dei jeans con la punta della scarpa, ma piano, la sfregavo sulla pelle della nocca.

    Seduto su quel terrazzo naturale, con le palme delle mani a contatto del prato caldo, avvertivo la mancanza di uno schienale dove poggiare una certa perplessa sicurezza.

    Quasi all’improvviso ero stato circondato da un pensiero assillante. Provavo una sensazione crudele, di smarrimento. E i miei neuroni si cacciavano in un labirinto, come bianche povere ochette sprovvedute.

    Ero affascinato, anche intimorito per come la Natura fosse così maledettamente ordinata: tutto avveniva per gradi quasi impercettibili, in un modo all’apparenza casuale.

    Lo scenario d’aspetto primordiale che avevo davanti assomigliava ad una specie di Sagrada Família in eterna costruzione ma miliardi di volte più complessa.

    Partecipavo, intuendo qualcosa di arcano, ma da spettatore, forse anche da vittima inconsapevole, all’esecuzione del progetto di una mente creativa. Geniale e scientifica. Procedeva nella sua realizzazione, badando che nessuno si accorgesse anzitempo del vero scopo: ultrasensibile.

    La missione non ci riguardava affatto, se non come ospiti temporanei. Sputacchietti viventi magari necessari, ma non protagonisti dello spazio.

    Compatitemi se provavo questa strizza dentro, in ritardo di almeno un secolo per certe illuminazioni romantiche: capite? Le cose ovvie non cessano di essere vere.

    Intorno a me si spaparanzava un’usuale distesa di prati gonfi di sole, l’atavica tranquillità delle malghe brune di legno solidamente stagionato. Un paesaggio immerso nel brulichio ronzante di minuscoli esseri volanti che non interrompe mai il silenzio alpino, semmai gli appartiene come una dote naturale.

    Ma sotto, a poche centinaia di metri, appariva quella rappresentazione. Si innalzavano elementi scenici costruiti apposta per stupire, così come potrebbe inventarseli un bambino aizzato controvoglia a immaginarsi qualcosa di fantastico. Una prospettiva di punte irte e viola: coni terrosi, pinnacoli con i massi a cappello, enormi e precari.

    A chi apparteneva quel luogo? Non certo a me, né a nessun altro uomo apparteneva niente: né della terra, né dell’aria. Anche se qualcuno, illuso, ne aveva registrato la proprietà su qualche foglio al catasto. Perché era accaduto lì, e non altrove, quello sfogo sconvolgente, lo schizzo tracciato in un angolo disabitato di Tirolo, proprio a Oberbozen, in attesa di altri capolavori nell’universo?

    I miei tacchi strisciavano sulla costa terrosa. Sassolini precipitavano nella scarpata con un fruscio leggero. Nel sostanziale silenzio parevano grano in un sacco, rovistato appena da una folata di vento. Scivolavano, scivolavano rotolando verso il fondo di quella cavea.

    «Pazzo, paaazzo! Cristo, che cos’hai fatto!». Mi girai di scatto: era Siegfried che si avvicinava facendo ballonzolare la sua zazzera biondissima. Scrollai le spalle, per dire che non avevo capito cosa avevo combinato, ma ero quasi intimidito da quella furia buffa. Sedette pesantemente accanto a me, strascicando gli scarponcini tipo militare. Mi pose una zampona amichevole sulle spalle. «Occhialetti, occhietti azzurri che scavano mentre pensano. Hai sgretolato la costa con il tuo sguardo. Ehi, Nembo Kid! Superman superdisastroso. Un giorno farai crollare tutto. Badabam, l’universo! Già. Se non tieni al guinzaglio il cervellino. Oppure finirai in manicomio. Ti conosco, chissà cosa ti frulla...».

    Mi toccò la fronte. Ritirò subito la mano, quasi che si fosse scottato. Ma io non ero in vena di stare al suo scherzo, mi trovavo ancora nella quarta dimensione del mio stupore. Così mentii spudoratamente:

    «Sei una rogna, Siegfried! Uno non può mettersi tranquillo, inerte, senza nessun pensiero come un sasso, che gli arriva dietro al culo un caprone... Provi mai a staccarti dal tuo lardo? Non arrivi a certe finezze. E poi, Siegfried, tu non sopporti il silenzio. Sospetto che ti faccia paura».

    «Paura?» confabulò tra sé, poi annuì indeciso con la testa, comunque toccato dal colpo basso.

    Ricambiò subito:

    «C’è una graziosa ciurma di pensatori. Rimescola a fuoco lento qualche fissazione. Fa tutto in silenzio. Fin qui questa gente è sopportabile... Gusti son gusti, diceva anche il gattino, leccandosi il buco. Ma quando ha il testone bollito per bene, oddio! Ti rifila qualche meraviglia, una bella invenzione tipo la catena di montaggio. Un gingillo simpatico: la bomba atomica. O un libricino da consigliare ai fanciulli come Mein Kampf, o quel che è!».

    Scambiai con lui uno sguardo storto. Siegfried, al suo solito, corresse il tiro:

    «Non fare quel muso. Non mi riferisco a te, Rudi... Tu sei davvero un poeta, come mentalità. E questo non è proprio un complimento, sai! Sei un buon coglione. Pericoloso per te stesso, più che per gli altri. Dai, Schatz¹... Fine della gita. Tirati su che viene tardi e quelli giù avranno ancora bisogno di una mano...».

    Siegfried diede buon esempio, alzandosi, e mi prese da sotto le ascelle. Mi lasciai sollevare, rimbalzando apposta la nuca sulla sua pancia muscolosa, come se fosse stata di gomma. Siegfried rise, io pure, e ci avviammo verso il piazzale.

    Salimmo su quell’aggeggio a tre ruote. In due dentro la cabina si stava strettissimi, ma adattandosi era pur sempre un veicolo a benzina. Siegfried accompagnò la rotazione della chiave di avviamento con un leggero movimento del capo, per sottolineare la musicalità del gesto. Il veicolo di latta rispose immediatamente, strillando come un rasoio elettrico. L’accensione di quel motore mi sembrava sempre quasi un miracolo. Essendosi ripetuto infinite volte, non era valutata abbastanza la sua straordinaria meccanica transustanziazione da ferraglia inerte a propulsore quasi divino. Salendo su qualsiasi Ape si provava un brivido di sublime precarietà. Cantava una specie di inno del lattoniere: lamiere montate come nel gioco del meccano, legate in modo coatto da immaginarie e invisibili migliaia di viti e da altrettanti dadi, ma sempre sul punto di separarsi. Eppure aveva ricevuto, probabilmente da re Laurino in persona, il maleficio dell’eternità. In barba alle leggi della fisica, così come può volare un calabrone che è un evidente assurdo aeronautico, l’Ape era il mezzo da soma più robusto.

    «Dici che avremo gente, stasera?» chiese Siegfried.

    «Speriamo. Piazza Matteotti è in mezzo al quartiere degli operai. Dobbiamo crederci. Punto. Se lo spettacolo funziona» aggiunsi «a me piacerebbe ripeterlo in città. Sai che forte, in centro. Magari in piazza Walther».

    «Sììì, intanto come minimo dovresti sprecare in tedesco, deutsch sprechen, bimbo. Altrimenti fanno i sordi, nichts verstehen². E comunque sia, cosa vuoi che gliene freghi del proletariato a questi crucchi? Mica ti badano, sei scemo! Sul palco devi mettergli intorno la banda dei pompieri. Col contorno di würstel e trombette e piume e mazurche, se vuoi che si fermino».

    Siegfried era sempre così eccessivo, esasperava ogni cosa e avevo imparato a lasciarlo nel suo orto. Aveva un modo vulcanico di invadere il mondo. Poteva essere frainteso e apparire sprezzante o anche grossolano: quel che non era. Avevo notato altre volte che un certo straparlare affligge spesso le persone generose, impulsive come lui. Non c’entra l’intelligenza o l’educazione, ma più che altro l’umore. Siegfried era così: capace di smentirsi da solo quando cambiava la circostanza. Se capitava il caso, figurarsi, avrebbe preso per il culo persino sua madre. Trascurando, per giunta, che anche lui era mezzo tedesco, proprio per parte materna.

    Scendevamo con inebriante lentezza verso la città, obbligati dai numerosi tornanti. Ci concedevamo un vero e proprio diorama di bellezza: i filari dei vigneti verso Santa Maddalena disegnavano prospettive verdi e pettinate. In un certo modo accoglievano la sinuosità del terreno come una fatalità da assecondare con rispetto, per ogni suo salire, curvare, precipitare.

    Pensavo alla metodica passione con cui i contadini coltivavano quel suolo che era anche nostro, e che pure noi avvertivamo invariabilmente estraneo.

    Questo sentimento deforme aveva anche qualche vantaggio. Potevo osservare la mia terra con gli occhi di un turista, mai abbastanza saturi da darne per scontato il fascino. Nel pomeriggio rosa le montagne ad est, roccia integrale, chiudevano il fondale della vallata con un’offerta di luce riflessa proprio rilassante.

    Le prime case della città ci incontrarono, senza far troppo caso allo strepito meccanico del nostro mezzo affaticato.

    Percorremmo la via Renon sui cubetti di sasso che sconfortavano le balestre; passammo davanti alla stazione ferroviaria: da sopravvissuto, quel manufatto pretendeva rispetto. Era roba fascista, un vecchiaccio arcigno. Niente affatto accogliente, meno che mai si mostrava premuroso per accompagnare alle partenze: semmai incuteva l’amarezza istintiva di un transito sbrigativo.

    Svoltammo nel ventre perbene di Bolzano. Ci accolse una nuova prospettiva di splendide guglie. Più indietro, celati da un fronte di case decorose, ma abbastanza anonime, si distendevano i portici con le botteghe artigiane che portavano impressa sull’insegna, come un blasone, l’antica data di proprietà familiare, giunta intatta fin qui: garanzia di affidabilità.

    Due ragazze, vestite completamente di nero che parevano in divisa, se non fosse stato per le gonne forse un po’ troppo corte che indossavano, al nostro passaggio clamoroso si erano affacciate dal marciapiede.

    Per divertimento la biondina, richiamata dallo stridio accorato delle lamiere, ci aveva fatto segno di darle un passaggio, gesticolando col pollice alzato. Portava capelli tagliati a caschetto. Reggeva, tenendola per una maniglia, la custodia sagomata di uno strumento musicale. Anzi, ad un certo momento aveva addirittura finto di lanciare verso di noi quella specie di valigia. Con ogni probabilità conteneva una viola o una chitarra, comunque un arnese piuttosto voluminoso.

    L’altra, una fiammata di capelli mossi, si era ritirata subito, spiazzata dal gesto imprevisto, inopportuno della prima. Anch’essa portava una cartella nera. Certo non era d’accordo con quell’uscita plateale e ora tirava la biondina, troppo esuberante, per una manica.

    Sfilammo avanti a loro: Siegfried, tutto compreso nel suo orgoglio di conducente Ape, tirava il collo al motore.

    «Ferma, ferma! Dai che ce le imbarchiamo» nitrii come un cavallino, digiuno, al miraggio di un covone di biada.

    Mi pareva che avessimo già perso troppo tempo. Appena possibile Siegfried arrestò l’Ape con una sterzata brusca. Fregandosene del divieto, l’aveva quasi conficcata al centro della via Goethe, il vicolo pedonale che sbucando da piazza Erbe si inseriva in piazza dei Domenicani.

    Intanto le due si stavano allontanando, senza fretta, per i fatti loro lungo il marciapiede. Si tenevano per mano.

    Scesi, sbattendo la portiera, e le inseguii. Mi pareva una sfida legittima: chi oserebbero prendere per il culo, queste?

    Ero eccitato dall’occasione imprevista. Dopo qualche passo abbastanza controllato, dignitoso quel tanto da salvare le apparenze, mi ero messo a correre. Mentre le avvicinavo, sapevo già che tanta determinazione, favorita da un certo pompaggio ormonale (comportava anche un battito di cuore non completamente causato dallo sforzo fisico), era inutile. Comunque almeno mi davo da fare, Cristo! Col coraggio evanescente dei timidi volavo. Intanto le candide ochette visionarie, i miei neuroni, si appassionavano. Preparavano nella mia testa d’aria un film niente male. E un finale adeguato, molto rosa. Ma non potevo mentirmi: sapevo che lo slancio sarebbe durato solo fino al momento, fatalmente pacchiano, in cui i tipi come me si trovano davvero al cospetto di una fanciulla di ciccia, viva e sconosciuta. In questo caso due, addirittura: troppe.

    Stavo quasi addosso alle ragazze. Mi ero convinto ancora di più che si trattasse di due sorelle, addirittura di gemelle: da dietro mostravano proporzioni simili. E poi vestivano eguale, anche se i capelli della seconda erano rossi, decisamente più lunghi. Arricciati in onde e contro-onde, all’apparenza burrascose. Con quattro belle gambe le puledrine camminavano affiancate. Mi ero ancorato dietro ad un passante, giusto il tempo per raccogliere la potente energia cosmica di cui avevo bisogno: ma adesso era già così rarefatta, vaccaeva! Ero disposto a tradire il copione e a perdere, ancora prima di provarci, quei cloni di bellezza. Mi ero dato anche una buona scusa: viste di spalle, non avrei potuto giurare che le ragazze fossero, obiettivamente, due fate. Era stato bello l’inseguimento, l’istinto, l’agguato rituale di un cavallino timido, e ciò malgrado in estro, a due femmine della stessa specie. Potevo svanire, dopo essere tornato in me da un sogno troppo spinto che ha provocato la polluzione. Che maschio! Mi arrestai un attimo e guardai indietro, verso l’Ape. No, ora non potevo più ritornare indietro...

    Mi feci coraggio. Le abbordai in un modo annacquato, quintessenza di grigiore:

    «Ehi ragazze! Io... Io sono uno di quelli che stavano sull’Ape...».

    La bionda mostrava una certa aria disinvolta, perfino cordiale, mentre la rossina, che pure era graziosa, si era trincerata dietro due occhi distanti, verdi e lunghi. Stava oltre, in un atteggiamento riservato. Stringeva la propria cartella scura, trattenendola fra le braccia come se si fosse trattato di uno scudo.

    «Il mio amico, e io, vi diamo volentieri uno strappo fino a casa. O carichiamo anche solo quello». Accennai col dito al valigione della bionda. Proprio non c’era pudore a immaginare di trasportare le creature sul nostro mezzo da sgobboni, e poi dentro al cassone. Ma offrivo tutta la merce che avevo. Così, senza tante pretese: cavalleria da soldatino di stagno.

    «No no, danke. Nessun bisogno, grazie grazie» chiuse subito la partita, la rossina. Più che altro erano crazie molto ruvidi.

    Per effetto di quelle parole in apparenza innocue, la faccenda si era ulteriormente complicata: non potevo immaginare che loro fossero due tedesche. Tempo perso per me e per loro, era chiaro.

    La rossa fece cenno all’altra di darsi una mossa, farfugliando qualcosa, ovviamente in un dialetto stretto e di cui, ovviamente, compresi solo il tono fermo. La biondina mi sorrise, fregandosene.

    «Scusa» disse giungendo le mani in segno di garbata preghiera, quasi orientale. «Abitiamo qui vicino. Scusa, ma avevo voglia di fare la matta. Dopo una giornata al conservatorio...».

    «Ah, studiate al Monteverdi?» mi allargai, superando la complicazione etnica. «Siete due artiste?».

    «Non artiste. Studentesse di musica» precisò la rossina, un po’ impaziente. La bionda scosse la testa, infastidita dall’atteggiamento dell’altra, di cui si percepiva l’aria fredda intorno.

    «E tu?» mi chiese.

    «Ho finito l’anno scorso il liceo!» risposi «Il Torricelli. Adesso sono iscritto giù a Padova... ma anch’io amo l’arte, sai». Mi resi immediatamente conto che quel ma non aveva alcun senso. Era una fissazione delle ochette impacciate che avevo in testa: secondo me le ragazze quotavano gli studenti dello scientifico come dei tipi gelidi, tecnici. Altra qualità manifestavano i peripatetici col fiore tra le dita del classico... Come trasmettere all’altra metà del cielo che ero sentimentale, abbastanza poeta da immaginare la rivoluzione sociale della Bellezza? Sussiego e compensazione al complesso di inferiorità che inevitabilmente mi calava addosso come conseguenza di una carriera di perenne rimandato in matematica.

    «Dai Grete, adesso andiamo» pregò la rossa in un italiano perfetto che confondeva appena le d con le t, sforzandosi di apparire gentile.

    «Grete. Tu sei Grete? Ci verresti al nostro spettacolo?» chiesi e lanciai un altro ponte verso la rossina «Anche tu, sai. Mi piacerebbe molto».

    «Uhm, also³, che spettacolo?».

    «Mettiamo in scena un’opera scritta da noi. È una specie di commedia. Più che altro scritta da me. Alcuni amici hanno una compagnia. Amatoriale. Gente impegnata. Il mio di stasera è un pezzo che porta avanti un certo discorso... Avete presente il genere di Brecht?». Non avevo più pudore e sparavo cartucce a salve molto rumorose.

    «Interessante. In quale teatro?». La rossina finalmente mostrava un poco di attenzione per questo drammaturgo in erba, infilatosi abusivamente sotto l’ala del grande tedesco.

    «Lo facciamo all’aperto. In piazza Matteotti».

    «Lì a Shangai?» chiese lei in un modo quasi scialbo. Quel nomignolo del quartiere era garanzia di qualità ma scadente. D’impulso sentii di dovermi spendere meglio.

    «Non è proprio dentro Shangai, un po’ prima. Lo facciamo all’aperto. In un ambiente meno impressionante di un teatro. Portiamo lo spettacolo in mezzo alla gente, nel luogo dove vive».

    La rossina guardò verso l’altra ragazza e mi chiese, pensai per proforma, a che ora. Dopo Grete tese educatamente la mano, la raccolsi come un dono. Offersi la mia, in modo ostentato, anche alla rossina e dissi:

    «Io sono Rodolfo. Rudi. Ich heiβe Rudi, Schatz». Questa volta aggiunsi proprio quel Schatz, come diceva Siegfried: tesoro. Italiano pizza amore: stereotipo di passione naturale. Lei la strinse in un modo inaspettatamente molto caloroso:

    «Franziska».

    Dal midollo spinale ricevetti l’impulso che non avrei mai più toccato la sua mano, né quella di Grete. Eravamo esseri sideralmente diversi, nonostante l’apparente somiglianza umana. I nostri astri viaggiavano su traiettorie parallele, avevano incrociato orbite che ora proiettavano ombre reciproche in una scansione di tempo che ne impediva la ripetizione, se non dopo uno scarto occasionale di millenni.

    2

    Su un lato della strada c’era quello slargo, poco profondo e incuneato tra i condomini spartani degli operai e dei ferrovieri, che prendeva il nome di piazza Matteotti. In qualche modo c’era spazio abbastanza per un mercatino stabile nei chioschi di legno. Tutti dipinti di verde bosco ed eguali tra loro. Parallelepipedi accostati al marciapiede, in fila meticolosa come i vagoni di un treno merci sempre fermo. Definirla piazza e basta, senza spiegare la sua parca diversità, significa usarle una cortesia ipocrita. Almeno per le anime sentimentali una piazza è uno spazio ideale, poco meno di un parco: niente di monumentale, per carità. Una tana provvisoria e complice. Un quadretto naïf: panchina, albero, fontanella. Piazza Matteotti non era nulla di tutto ciò: un rettangolo lastricato e basta.

    I banchi chiudevano rigorosamente l’attività prima del calar del sole: una corona di frutta, verdura, salumi e formaggi, polleria. Con encomiabile discrezione lasciavano libera una fascia, sufficiente alle occasionali manifestazioni che si svolgevano nell’area più centrale e soprattutto alla Festa dell’Unità di quartiere, che di tutte era la star.

    Il caffè del Moro faceva angolo. Una piccola torrefazione industriale, di successo tra le mescite della zona italiana, aveva battezzato col nome di caffè, oltre che il prodotto (di cui è inutile disquisire), anche il bar. Era stato qualificato con l’esagerazione degli epiteti che si usano in periferia, ma non aveva nulla da spartire con l’atmosfera sottile che si respirava nei caffè del centro.

    Qui anche le paste secche odoravano di nazionali senza filtro, di là le poltroncine viennesi e il profumo delle sfoglie alla panna, dalle dimensioni paragonabili alle fette di torta, indicavano un certo aristocratico modo di consumare; dunque il caffè del Moro in piazza Matteotti, a dispetto del nome, era decisamente un bar e basta. Il vermouth scorreva a bottiglioni.

    Inconfondibili i suoi avventori: marcati classe operaia, anche quando si lavavano e si sbarbavano, per la persistenza nell’atmosfera della formidabile, esplosiva essenza, maschia, di Aqua Velva. O profumata al pino come l’acquaragia. Gente nel vestito buono, di domenica mattina, che pareva nascondere, a malapena, una perenne tuta blu sottostante.

    Dalla piazza Matteotti e poi più giù, giù fino a via Palermo, giù per la via Cagliari e nell’intrico di vicoli stretti tra le casette semirurali, fino a toccare il fondo di via Resia, si apriva il mondo dignitosamente modesto ma operoso di Shangai.

    Senza ravanare nei labirinti della politica internazionale, stringi stringi, il bisogno di sbarcare il lunario aveva spinto qui dai paesi del Veneto e dal sud vere e proprie colonie di ex contadini, di artigiani, ma anche di piccoli commercianti.

    Una comunità indefinibile ed eterogenea, dalla mentalità rurale e adottata in fabbrica, racchiusa e protetta nel proprio quartiere, così come un esile filo di lana si sente sicuro nel gomitolo e, fuori, si potrebbe anche spezzare, quando venisse strattonato. Gente accolta nell’anticamera dell’Alto Adige: terra promessa ermetica e quasi incomprensibile.

    Siegfried planò con l’Ape verso il fondo della piazza. Il mezzo strisciò con una frenata degna di una spider sul selciato di cubetti di porfido.

    «Puttana! Hanno già montato tutto loro!» sbottò, considerando che il palco di assi e tubi Innocenti era già in piedi e gli amici da lassù avevano preso a fischiarci addosso e a coglionarci. Avevamo calcolato male i tempi.

    L’Annalisa venne ad aprirmi la portiera con un gesto plateale:

    «Prego, signor Autore. Ben arrivato, signore».

    «Non fare la stronza. Ciao bella. Scusa, scusate... è che ci siamo persi...». Scesi, lanciando agli amici che avevano già finito di montare le due scene sul palco, tutti e sette, un gesto di solidarietà con le palme delle mani aperte.

    «Paghi pegno». E la dolcezza mi rimediò un calcio da dietro. Un calcio da zatterone. Affettuoso, a modo suo.

    «Non rompete, ragazzi!» si inalberò Siegfried, a cui non andava la parte dello scansafatiche, «In fondo io, stamattina e anche ieri pomeriggio, con lui solo, mi sono smazzato il trasporto di tutta la roba. I tubi pesano un fracco. Con lui solo. E il mio vecchio non era proprio felice che gli abbia scucito l’Ape. Ci porta in giro il latte e lo rispetta meglio di quanto rispettava mia madre, questo triciclo».

    «D’accordo, eroi. Dai, ma ora salite» disse Pelo.

    Ci abbracciammo con tutti i compagni, come al solito. Dal tascapane di Macro saltò fuori una bottiglia di bianco e ce la passammo. Eravamo molto euforici per la

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1