101 storie sulla Sicilia che non ti hanno mai raccontato
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Anteprima del libro
101 storie sulla Sicilia che non ti hanno mai raccontato - Gambino Daniela
1.
SCILLA E CARIDDI
Quando ho conosciuto questa storia nei suoi particolari feroci, ho capito perché, tanto spesso, mi era capitato di vedere coppie di cani da guardia chiamati proprio Scilla e Cariddi. E ho capito perché in Sicilia si usa spesso una frase per indicare la sospensione e l’indecisione nello stabilire qual è il male minore, una frase che suona così: Ma ’u sai comu iera? Fra Scilla e Cariddi.
Ora, Scilla non è sempre stata la mostruosa
Scilla, anzi. Nacque ninfa di rara bellezza, figlia di Crateide che viveva sulla magnifica spiaggia di Zancle (l’odierna Messina). Il suo destino nefasto è figlio di traffici, invidie, ripicche e gelosie, in particolare frutto di difetti da addebitare al femminino. Ma procediamo con ordine. Tutto comincia quando il dio Glauco, metà uomo e metà pesce, la vede e si innamora a prima di vista di lei. Il corpo di Glauco però non piace particolarmente a Scilla, che lo rifiuta. Il dio è costretto a ricorrere alle arti degli incantesimi, perché è disposto a tutto pur di averla, ma si rivolge alla persona sbagliata, la maga Circe. La maga, che è innamorata di lui, si sente infatti doppiamente scartata, e monta su tutte le furie: come fa a chiedere proprio a lei pozioni segrete per avere l’amore di un’altra donna? Così Circe decide di vendicarsi, ma non sceglie Glauco come bersaglio, bensì Scilla. E qui entra in gioco uno spinoso difetto femminile, la mancanza di solidarietà: perché fare fuori l’avversaria quando è l’uomo a essere insensibile? Non avrà ciascuno il diritto di innamorarsi di chi gli pare? Ma la maga Circe se ne frega della logica stringente (per fortuna, direi, altrimenti questa leggenda non sarebbe mai nata), e versa nelle acque dove Scilla usa bagnarsi un filtro a base di erbe magiche, che la trasforma in una specie di mostro, con sei teste di cani dai lunghi colli che si muovono come tentacoli, affamati e pronti a dilaniare tutto quello che capiti loro a tiro. Terrorizzata da se stessa, Scilla corre a nascondersi dentro un antro e da lì anche lei ordisce una vendetta contro la maga, sempre per via indiretta, prima privando Ulisse dei suoi uomini, quando questi si accingevano ad attraversare lo stretto, e ingoiando anche, in seguito, le navi di Enea.
Anche Cariddi nasce ninfa (ma Cariddi è anche il cognome di Tano, il cattivo de La piovra, aggiungo per inciso!), figlia di Poseidone e di Gea, ovvero del mare e della terra, ed è contraddistinta da una grande voracità. La metamorfosi in mostro è la punizione per aver rubato dei buoi a Eracle che attraversava lo stretto con l’armento di Gerione. È Giove stesso che la scaraventa in mare colpendola con un fulmine: la sua voracità si muta nella capacità di ingoiare grandi quantità d’acqua per poi ributtarla in mare formando vortici e mulinelli, una vera maledizione per le navi.
Il mito delle due sentinelle dello stretto
, divenute il terrore dei naviganti, l’una a causa dell’invidia e della vendetta da parte di una donna, l’altra a causa della propria ingordigia, fu raccontato forse per la prima volta da Omero. Cariddi viene nominata anche nell’Eneide di Virgilio. Le due mostresse
, secondo la leggenda, si trovano una di fronte all’altra, tra Sicilia e Calabria, e rappresentano, nell’immaginario, i pericoli del mare. Sembrano messe lì a presidiare la punta estrema dell’isola, quella che lega e slega noi siciliani al resto della penisola. Una specie di punto di non ritorno. E proprio da qui, dai flutti agitati di questo confine naturale comincia il nostro viaggio all’interno, nelle viscere del tempo, della storia, del costume della Sicilia.
Scilla e Cariddi
2.
LE TERME DI MONTEVAGO E LA LEGGENDA DI CINZIO E CORINZIA
Sembra di vederli, Cinzio e Corinzia, due giovani pastori della Valle del Belice. Si dice che si incamminarono, risalendo dalla foce il fiume Ypsas (oggi Belice), per cercarne l’origine, la Fonte Sacra. Indossavano bianche vesti da cerimonia, si inerpicavano lungo il dolce pendio cosparso di ginestre, alberi di sommacco e cardi selvatici, guidati forse più dallo scroscio, dalla canzone dell’acqua che scorre nascosta dalla vegetazione, invisibile agli occhi. Ed ecco che davanti a loro, ai piedi del monte, si apre la sorgente: è calda, accogliente, forma nuvole di vapore, gorghi e zampilli, e l’aria è soffusa e umida, rende i contorni indistinti. Certo, i due erano stati toccati dal divino, avevano compreso qualcosa che tutti andavano cercando troppo lontano. Secondo la leggenda, Cinzio e Corinzia, per anni, celebrarono presso questa fonte e in segreto i riti sacri alla dea Venere. Dopodiché rientravano ogni sera nella grotta che era divenuta la loro dimora. Piano piano, affidandosi al soprannaturale e animati da una sacra fiducia negli elementi della natura, scoprirono di essere diventati immortali. I loro corpi non invecchiavano, le loro vesti non si consumavano, la grotta continuava a proteggere le loro ossa e i loro denti dall’umidità, i loro averi dalle intemperie.
Quello che i due giovani pastori non avevano capito, immersi in quest’atmosfera soffusa, era che avevano scoperto uno dei siti termali più noti della Sicilia. Forse non si diventa immortali, ma sono trascorsi molti secoli e la calda sorgente continua a scorrere donando salute e bellezza a quanti si immergono nelle sue acque. Oltretutto col passare del tempo e grazie agli studi scientifici in merito si è scoperto che la leggenda tanto inventata poi non è: l’acqua che vi scorre ha comprovate capacità terapeutiche ed estetiche (solo per nominarne alcune, cura con buoni esiti eczemi e acne, asme bronchiali e riniti allergiche). E poi la fonte è incastonata in una natura incontaminata, un luogo dove si ripetono gli stessi gesti da secoli, dove si condividono le medesime speranze, se non di guarigione, almeno di ritrovato relax, e di intesa con il fluire incessante del tempo. Le terme godono di un’ubicazione particolare, al confine tra le province di Palermo, Agrigento e Trapani, nel cuore della Sicilia occidentale, nel territorio del comune di Montevago (vicino a quella città magica, toccata dalla grandiosità dei templi, che è Agrigento). Accanto all’antica fonte si trova Acqua Pia, un moderno centro benessere dove intrattenersi per vacanze terapeutiche e rilassanti.
3.
IL PUPARO SICILIANO CHE SI ESIBÌ DAVANTI A SOCRATE
Se cercate su internet le origini dei pupi siciliani troverete di certo questo racconto datato 421 a.C.
Al tempo, per rendere onore ad Autolico, vincitore di una gara atletica, Callia offrì un convito in cui, fra gli invitati, si annoverava Socrate. E proprio un suo allievo, l’ateniese Senofonte, riporta nel suo Simposio l’episodio del puparo di Siracusa che fece ballare le sue marionette al cospetto del noto filosofo. Conclusa la danza di Bacco e Arianna, Socrate gli chiese che cosa desiderasse per essere felice e il puparo di Siracusa, con arguzia tutta siciliana, gli rispose: «Che ci siano molti sciocchi, perché essi, accorrendo allo spettacolo dei miei burattini, mi procurano da vivere».
Ecco, io non capisco come mai questo racconto possa aver avuto successo, e dissento pubblicamente da questa dichiarazione del puparo. Intanto perché aveva appena divertito Socrate, che sciocco certo non era. E poi perché le recite dei pupi sono la passione dei bambini, gli spettatori più esigenti che esistano. Lo so, quella era solo una battuta scherzosa, però, come si dice in Sicilia, coi pupi non si babbìa. Sono una cosa delicata, una specie di sogno messo in scena, sono esseri evanescenti, malgrado esistano da secoli, portino armature, armi e spade e si lancino al galoppo sfrenato su cavalli di legno.
Storicamente l’Opra dei Pupi nasce nella seconda metà dell’Ottocento come rappresentazione degli scontri medievali tra i Cavalieri e i Mori. Già sul finire del Settecento, comunque, a Napoli come a Palermo, troviamo marionette molto rudimentali. È il genio siciliano che comincia a ricoprire il pupo con armature di metallo finemente cesellato, e arricchisce la marionetta di movimenti complessi, quali sfoderare la spada, abbassare la visiera dell’elmo, abbracciare, battersi il pugno sul petto, portare una mano alla fronte nella disperazione (di solito ripetendo «Oh! Oh!»), grazie ad accorgimenti tecnici come l’asta di ferro al posto del filo per comandare la mano destra.
Prima di allora, a fomentare il pubblico siciliano assetato di giustizia, desideroso di assistere al trionfo dei buoni, c’erano soltanto i cantàri dei cantastorie, che divulgavano le imprese cavalleresche con il cuntu (racconto). Come in una sorta di serial, propinavano a puntate le avventure degli eroi cavallereschi, secondo uno schema che poi sarà riprodotto dall’Opra. Del loro repertorio facevano già parte I Reali e una Storia di Orlando e Rinaldo.
Il cantastorie declama attraverso il canto mentre il contastorie utilizza solo il ritmo ipnotico del racconto e, a volte, una spada con la quale indica i quadri, coloratissimi, che rappresentano le vicende su un grande cartellone dai disegni naif, comprensibilissimo anche per gli analfabeti.
Certo, va ricordato che a divulgare le Chansons de geste nell’Italia meridionale furono anche i jongleurs francesi durante il periodo della loro dominazione. Si dice poi che l’Opra dei Pupi abbia mutuato codici di comportamento propri dei siculi e alcuni lati spigolosi del loro noto caratterino, come la cavalleria e il senso dell’onore. Quest’ultimo poi, nel tempo, ha preso significati via via più incerti, basti pensare all’uso che ne ha fatto la cultura mafiosa. Ma l’onore dei pupi, che si muovono con fragore nei loro fondali dipinti, i fili appena visibili, è di certo più affascinante.
A Palermo a preservare la memoria de l’Opra dei Pupi isolana, è nato uno splendido Museo internazionale della marionetta che raccoglie circa tremila pezzi tra pupi, marionette e ombre sceniche, con una sezione dedicata anche alle marionette napoletane e dell’Estremo Oriente.
4.
LA STORIA DELLA MITICA HEIRKTAI SCOPERTA DA BENEDETTO GIAMBONA
Un gruppo di ragazzini gioca fra gli alberi, si insegue per i campi, si inerpica per il monte Palmeto. Non sono lontani da casa, anzi, sono a un tiro di schioppo. Scavano, cercano ipotetici tesori, trovano alcuni cocci, alcuni chiodi. Li dimenticherebbero, se fra di loro non ci fosse un ragazzino che si chiama Benedetto Giambona, cresciuto con il mito dell’archeologo Schliemann, colui che scoprì la mitica, letteraria Troia. Lui si appassiona, si convince che quei resti significhino qualcosa, è certo che contino migliaia di anni. Giambona studia per la prima volta i misteri di monte Palmeto a quattordici anni, eppure quello che trova sull’onda dell’entusiasmo è una vera e propria rivelazione: sono le tracce di un accampamento del III secolo a.C.
Malgrado i reperti siano ancora da identificare, Giambona sente di essere sulla strada giusta, perché, a volte, devono essere l’intuito e l’ambizione a dettare legge nella vita di uno studioso, dev’esserci una percentuale di fortuna, intraprendenza e passione a segnare la differenza fra l’applicazione metodica e l’ingegno. Tutti punti a suo favore, se si considera che Giambona non è un archeologo, ma un curioso, come l’ha definito la storica e giornalista Amelia Crisantino su «la Repubblica». Dilettante, nel senso che «prova diletto nelle ricerche, può quindi permettersi di perdere molti anni per ricostruire, indizio dopo indizio, una realtà lontana e dimenticata».
Fra i suoi appunti ci sono le parole dello storico siciliano Tommaso Fazello, che nel giugno del 1556 scoprì casualmente le rovine di una città sconosciuta e nel suo De rebus siculis così ne scrisse:
Domina su questo golfo a due miglia dal mare un monte erto, alto, scosceso, assai difficile da espugnare perché ha una sola via di accesso, quella verso Oriente e l’entroterra, peraltro ben protetta e bisognosa di un presidio molto piccolo. Sulla sua sommità c’è una pianura che in tutta la sua estensione, circa un miglio, è occupata dalle enormi rovine di una grande città e di edifici abbattuti, da pietre enormi, da tegole laterizie d’inaudito spessore, da vasi di terracotta di forma insolita sia per noi che per i saraceni, e da tante cisterne, una per ogni casa, simili a quelle che vedemmo nelle città di Erice e di Segesta, il tutto in modo sparso e confuso.
Ma per abbozzare una prima interpretazione ci vogliono le fonti storiche, così entra in scena il racconto di Polibio. Per la sua posizione, quel luogo ha diverse caratteristiche che fanno pensare a Heirktai, una città che doveva trovarsi affacciata sul mare, perduta fra i panorami di Erice e Palermo. Secondo lo storico greco questa città fu uno dei teatri della prima guerra punica, qui combatterono romani e cartaginesi per anni, finché Amilcare non spostò i suoi accampamenti a Erice (ma per segnare la fine della guerra punica ci volle, nel 241 a.C., la sconfitta della flotta cartaginese davanti alle isole Egadi, l’arcipelago davanti alla città di Trapani). Forse quei chiodi ritrovati erano serviti a saldare i sandali dei legionari…
Ebbene, con ostinazione e caparbietà tutte siciliane, mettendo insieme i pochi reperti, le tracce archeologiche, le testimonianze degli storici e persino le fotografie aeree della zona, Benedetto Giambona è riuscito a dimostrare che l’esatta collocazione dell’antica città di Heirktai non era né sul monte Pellegrino né sul massiccio di Billiemi, ma proprio sul monte Palmeto.
Nel 2009, la sua avventura di ricerca, a metà tra studio e passione, duro lavoro ed entusiasmo, con la collaborazione storico-filologica di Adalberto Magnelli è stata raccolta nel libro Heirktai e gli accampamenti romani di monte Palmeto, pubblicato dal comune di Terrasini, la cittadina del palermitano dove sorge l’altura. Il volume è impreziosito da un’introduzione firmata dallo studioso Sebastiano Tusa, che ha promosso il metodo di ricerca di Giambona.
5.
LA STORIA DEL GENIO DI PALERMO, SIMBOLO DELLA CITTÀ
La più famosa statua del genio di Palermo la potete vedere a piazza Rivoluzione; altre sono sparse in giro, una è a villa Giulia, un’altra alla Vucciria. Quest’ultima, insediata in un’edicola nei pressi di piazza Garraffello è oggetto di grandissima attenzione da parte dei palermitani che, nonostante i restauri, la fanno periodicamente a pezzettini portandosela via nottetempo per motivi non ben identificati…
Genio
è una parola derivante dal greco ghenos, nascita, e dal latino genius, generatore. Nella tradizione i romani riconoscevano nel genius la divinità che presiedeva alla nascita dell’uomo e lo accompagnava nella vita, una sorta di spirito guida, protettore della famiglia, della casa e degli affari. Culto che, con ogni probabilità, i siciliani ereditarono. Nella leggenda popolare invece il genio, che simboleggia il culto pagano locale, contrapposto al culto religioso della Santuzza, sarebbe un signore di nome Palermo, il fondatore della città sbarcato del tutto casualmente sulle sponde della Sicilia.
Pare che il signor Palermo fosse un riccone sfondato, dedito al turismo in barca a vela, diremmo ai giorni nostri, in viaggio per sollazzo su una barchetta piccola, secondo quanto racconta Pitré. Si ritrovò nel bel mezzo di una tempesta che lo sbatacchiò per tre giorni e per tre notti fino a rovesciarlo, esausto, su una spiaggia bellissima (che fosse l’odierna Mondello?). Il signor Palermo prese a muoversi per la città, che non sembrava affatto una città, perché non c’era proprio nessuno in giro. Il protagonista di questa storia si saziò mangiando i frutti che questa specie di paradiso terrestre gli offriva, passò il tempo pescando e prendendo il sole, e, colpito da tanta pace e bellezza, decise di trasferirsi armi e bagagli e di fondare, a sue spese, una città che portasse il suo nome: Palermo. Ricco com’era chiamò capomastri e ingegneri a costruire e progettare. Gli stessi ingegneri e capomastri che si occuparono di edificare il capoluogo, realizzarono una statua di marmo in onore del fondatore, riccone, padre e patrono della città. La statua è arrivata fino ai giorni nostri, e così lo conosciamo: il Genio, invecchiato, con la lunga barba, l’aria saggia di chi la sa lunga, un re con la corona che somiglia un po’ a Nettuno, il dio del mare, con un corpo giovane e muscoloso e un serpente a mordergli il petto. Perché probabilmente si era sentito un dio, il viaggiatore straniero, quando si era ritrovato solo, baciato dal sole, a spasso sull’isola disabitata.
6.
DAFNI, CHE IMPARÒ A SUONARE DAL DIO PAN
Ora vi direte: anche il dio Pan stava in Sicilia? E io vi rispondo sì, in luogo bellissimo, fra i monti Nebrodi. La storia la racconta il nostro storico Diodoro Siculo,