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Marta
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E-book559 pagine5 ore

Marta

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Info su questo ebook

Giovanni Franti è un ex agente segreto, alle sue spalle una vita di importanti missioni e un matrimonio più volte messo a rischio a favore del lavoro, che da sempre lo ha assorbito pienamente. A 80 anni, mentre è ospite del lussuoso residence La Quiete intento a rievocare il passato, tirare un bilancio e cercare di accettare la sua nuova condizione, dovrà fare i conti con un passato che ritorna in maniera tanto drammatica quanto prepotente, per chiudere un conto lasciato in sospeso. Giovanni, con gli acciacchi dell'età che lo minano nel fisico e nella mente, dovrà affrontare quello che è stato il caso più pericoloso e irrisolto: Solana. Tra fisioterapie, lotte degli ospiti per avere il tavolo migliore in sala mensa, infermieri scorbutici e nuove dolci conoscenze, Giovanni affronterà una nuova missione, la cui posta in gioco si rivelerà incredibilmente alta: la vita di sua figlia.
LinguaItaliano
Data di uscita7 ago 2013
ISBN9788867930449
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    Anteprima del libro

    Marta - Andrea Zaniboni

    © Edizioni SENSOINVERSO

    Collana SenzaTregua

    www.edizionisensoinverso.it

    ufficiostampa@edizionisensoinverso.it

    Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)

    ISBN 9788867930449

    1° edizione – Febbraio 2013

    © 2013 - Copyright | Tutti i diritti riservati

    Sensoinverso - P.I. 02360700393

    Creazione eBook | http://creoebook.blogspot.com

    ANDREA ZANIBONI

    Marta

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    Alla mia famiglia

    Quem Fors dierum dabit, lucro

    Adpone.

    (Qualunque giorno la Sorte ti concederà, mettilo nel conto dei guadagni.)

    Orazio, Ode IX, versi 14-15

    La storia del fucile

    Il Moschetto ’91 utilizzato dall’agente Giovanni Franti per uccidere Solana Rodriguez è finito nel Residence La Quiete per una serie di accadimenti che hanno dell’incredibile.

    Effettivamente si tratta del fucile che il nostro Gianni puliva quando era giovane. Probabilmente è iniziata da lì la sua passione per le armi. Il padre l’aveva venduto a un collezionista della città: si trattava di un certo Amilcare Pescatori, conosciuto appunto per la sua passione per le armi vecchie.

    Claudio Franti lo aveva contattato attraverso un conoscente, aveva anche preso un bel gruzzoletto. Certo gli era dispiaciuto, era un ricordo di suo padre, ma temeva che si venisse a sapere che deteneva un’arma illegalmente; di denunciarla non ci pensava neanche, dopo tutti gli anni che erano passati.

    Soprattutto però il motivo per cui voleva sbarazzarsi del Moschetto era l’attaccamento morboso del figlio a esso, attaccamento che egli stesso aveva alimentato e che giudicava insano per un ragazzo della sua età. Giovanni l’avrebbe presa male, ma era per il suo bene.

    La prese malissimo. Per un mese non spiccicò parola, si chiuse in sé, ogni notte lo si sentiva piagnucolare. Fu uno shock per il piccolo Gianni. Non si riusciva a capire il perché di una reazione così spropositata, sembrava che gli fosse stata tolta a forza una parte di sé, una mano, per esempio.

    Poi un giorno tornò il ragazzo allegro di prima. Il fucile fu dimenticato del tutto, rimosso completamente: Gianni non ne parlò più con nessuno, come se non fosse mai esistito. Riprese a frequentare con regolarità una sua amichetta di nome Marta.

    Ma seguiamo la storia del fucile, non divaghiamo. Il signor Pescatori era ormai su con gli anni. Farmacista in pensione, aveva una collezione di tutto rispetto: fucili e pistole della prima guerra mondiale, archibugi, armi da taglio. Periodicamente organizzava una mostra per esporre i propri pezzi. Per la denuncia ci avrebbe pensato lui, disse a Claudio Franti quando gli consegnò l’arma: non avrebbe corso alcun pericolo.

    Circolavano voci malevole che Pescatori avesse conoscenze losche, che addirittura fosse un trafficante d’armi, come se un trafficante d’armi avesse l’aspetto di un vecchietto piccolo, magro e mezzo cieco, disponibile con tutti e benvoluto da tutti.

    Insomma a un certo punto Pescatori morì senza dare alcuna indicazione su cosa fare della sua collezione. I due figli, di certo, non avevano ereditato la passione del padre.

    Augusto e Federico Pescatori erano entrambi medici. Possedevano uno studio in centro, erano conosciuti sì per la loro competenza, ma principalmente per il fatto di essere gemelli omozigoti.

    I dottori gemelli, così erano chiamati i Pescatori in città. Avevano fatto una fortuna con il loro studio, erano specializzati in geriatria e il lavoro certo non era mai mancato loro. I clienti in buona parte glieli aveva procurati man mano il padre attraverso la sua attività.

    Di comune accordo i gemelli decisero di donare in blocco l’intera collezione alla cittadinanza: sarebbe stato allestito un museo delle armi. Nella cantina in cui il padre teneva i suoi gioielli venne fatta piazza pulita. O quasi.

    Sotto la supervisione di Augusto una piccola squadra composta da dipendenti comunali e stradini arrivò un mercoledì mattina del 1978 alle dieci di fronte alla casa del defunto con un furgone Fiat 242 ammaccato e sporco: il dottore ebbe da ridire a riguardo. C’erano anche i vigili a sorvegliare l’operazione, ovviamente.

    Una cassettiera verde si trovava in fondo alla cantina, faceva parte dell’arredamento della prima farmacia che il padre aveva aperto in città. La cassettiera conteneva una serie di pezzi della collezione che necessitava di un qualche restauro, tra cui, guarda caso, il nostro fucile. Il signor Pescatori nei mesi prima di morire stava proprio sistemando i meccanismi del Moschetto che, a suo dire, erano un po’ duretti e perciò andavano lubrificati abbondantemente e periodicamente.

    Lo stradino incaricato di svuotare la cassettiera la sera prima aveva avuto una cena con gli amici del Circolo delle Bocce circondariale e aveva alzato un poco il gomito. Giuseppe Maggi, per tutti Beppo, quella mattina non era molto presente con la testa e non allungò abbastanza la mano per poter sentire e afferrare la pelle della custodia contenente il fucile.

    Lasciò il Moschetto in fondo al terzo cassetto, a partire dal basso.

    Nel frattempo i progetti che i due fratelli maturavano erano ben altri.

    In cima alla collina della città il vecchio ospedale, cinque anni dopo l’effettuazione della donazione delle armi, era divenuto una casa di riposo. Le strutture risalivano ai primi anni Sessanta e si procedette, da parte della cooperativa subentrata, a una parziale ristrutturazione, che consistette nella messa a norma degli impianti, nell’imbiancatura e nella sostituzione di porte e serramenti.

    Man mano che si andava avanti con gli anni la cooperativa non riusciva più a tener testa alle crescenti spese che la gestione del centro comportava.

    Così si decise di vendere l’intera baracca.

    Non era certo facile trovare un acquirente disposto ad addossarsi la gestione di una casa di riposo di tali dimensioni.

    I dottori gemelli decisero che era il momento di investire il loro enorme capitale accumulato in anni di attività. Insieme ad altri sei soci nel 1991 acquistarono la casa di riposo in cima alla collina.

    Il padre sarebbe stato orgoglioso, pensavano gongolanti.

    Entrambi erano usciti da burrascosi matrimoni, naufragati in buona parte per il loro attaccamento ossessivo al lavoro e per il forte legame che li univa. Erano una persona sola e tagliavano fuori chiunque non facesse parte della loro unione. Quindi alla fine anche le mogli.

    Il divorzio fu per loro uno sprone per buttarsi nell’impresa: entrambi senza figli non avevano nulla da perdere.

    La loro decisione fu dettata da incoscienza: infatti non avrebbero mai effettuato un tale acquisto se avessero saputo in anticipo a cosa sarebbero andati incontro.

    Era innanzitutto necessaria una profonda ristrutturazione dell’intero edificio, la quale ebbe tutta una serie di incidenti di percorso e cambi di rotta rispetto al progetto iniziale.

    Gli stessi ospiti dovettero subire una serie di disagi per tutta la durata dei lavori, disagi tali che molti furono trasferiti definitivamente dai parenti in altri ospizi.

    Fu un periodo estremamente difficile per i gemelli, che vedevano dilapidato il loro patrimonio nel giro di pochissimo tempo.

    Di fronte a insormontabili carenze strutturali si giunse alla fine a una drastica decisione: buttare giù e ricostruire praticamente ex novo.

    Questo fu possibile perché un potente finanziatore di cui non è dato sapere il nome accorse in aiuto dei Pescatori. Pare fosse uscito dal nulla, il mistero aleggia intorno a questo personaggio, come se non bastassero i misteri in questa storia. C’è chi dice addirittura che provenisse dalla Russia.

    La casa di riposo fu ricostruita in pochi anni. Divenne motivo di orgoglio per l’intera città.

    Dopo una decina di anni il Residence La Quiete necessitò di una serie di nuovi lavori. I gemelli si erano ormai ritirati dalla società, si godevano la meritata pensione e non intendevano più avere nulla a che fare con i problemi della gestione del complesso.

    Da parte dei nuovi proprietari si decise per una diversa destinazione del piano interrato, giudicato poco adatto per le esigenze di comfort dell’ospizio. Esso risultava troppo buio e sacrificato: sarebbe stato riconvertito in zona di servizio, avrebbe ospitato una nuova cucina, dei magazzini e ambienti destinati agli inservienti.

    Il piano venne quindi abbandonato in previsione dei lavori, gli ospiti trasferiti in una nuova ala costruita ad hoc. Ma il piano seminterrato non fu mai risistemato.

    Come vi arrivò la cassettiera verde?

    Durante la ricostruzione della casa di riposo fu necessario sgombrare la cantina della vecchia casa del Pescatori; quest’ultima infatti era stata messa in vendita dai figli anche per far fronte alle spese sempre maggiori che i due erano costretti a sobbarcarsi per il loro faraonico progetto.

    Tutto sommato, era un pezzo abbastanza pregiato, soprattutto era il ricordo della prima farmacia del padre. L’idea era quella di restaurarla e metterla nella hall della casa di riposo, in bella vista; vi si sarebbe apposta una targa che celebrasse il ricordo del padre e della sua attività di farmacista.

    Residence Amilcare Pescatori, questo doveva essere il nome del complesso.

    Il mobile venne quindi trasferito sulla collina; durante il trasporto nessuno si accorse del suo contenuto, fatto strano, perché il fucile si poteva muovere e fare rumore all’interno del cassetto. Forse il fatto che la cassettiera fosse stata maneggiata con estrema cura per espresso desiderio dei gemelli impedì che essa fosse scossa abbastanza perché il Moschetto facesse sentire la propria presenza.

    Alla fine il misterioso finanziatore si era imposto nella decisione del nome della casa di riposo: venne così chiamata Residence La Quiete. Nemmeno aveva più senso porre all’entrata un vecchio mobile di farmacia, giudicato tra l’altro inadeguato all’estetica postmoderna prevista per l’arredamento del residence.

    Durante i lavori la cassettiera venne conservata in un container del cantiere; terminata la costruzione del residence passò un periodo nel ripostiglio dell’ufficio personale della direzione: anche qui incredibilmente a nessuno venne mai in mente di aprire il cassetto; infine, per far spazio a una nuova scaffalatura, venne trasferita giù. Anche in occasione di questo spostamento il fucile stette zitto zitto nel suo nascondiglio.

    La cassettiera fu così dimenticata nel piano dimenticato; là sotto non sarebbe stata di impedimento.

    Non si è mai saputo perché il piano interrato non sia mai stato ristrutturato. Il finanziatore misterioso era scomparso da qualche anno, dopo aver venduto anch’egli la propria quota. Di lui non si seppe più nulla. Qualcuno sostiene che fosse contrario alla nuova ristrutturazione e avesse messo in qualche modo i bastoni tra le ruote. Ma è solo una voce.

    Per quanto si sa, il problema è consistito in un permesso edilizio prima accordato poi inspiegabilmente negato alla casa di riposo, che così ha dovuto sospendere i lavori a tempo indeterminato. Che ci crediate o no, è andata così.

    E il proiettile? Beh… Quella è un’altra storia.

    Venerdì 10 luglio 2009

    Come sono vecchio. Le rughe mi attraversano il viso in lungo e in largo. Mi sto radendo nella mia stanza, con l’unica mano rimastami reggo il rasoio. Purtroppo è la sinistra e io non ero mancino; lo sono diventato, con un lungo allenamento.

    Tra poco arriva l’infermiera per dirmi di fare alla svelta, che se tutti ci mettessero tanto a prepararsi, la colazione si farebbe a mezzogiorno. Non la sopporto, con quel suo volto anonimo, quel sorriso forzato, di una che nella vita preferirebbe fare altro che assistere gli ospiti di questo maledetto posto. Mi osservo allo specchio: chi è quello lì, non sono io. I lineamenti stravolti dall’età, gli occhi opachi dietro un paio di occhiali, la testa pelata e piena di macchie. Non è possibile, come sono diventato così? Era ieri quando dovevo spostarmi i capelli dalla faccia per poter vedere, quando in tre minuti, con pochi, precisi gesti mi radevo perfettamente. Era ieri quando facevo l’amore. Adesso anche il sesso è come farsi la barba, naturalmente sempre con la sinistra. Una routine quotidiana, fatta per passare il tempo, per compiere un gesto che un po’ richiami la vita che si faceva fuori da queste mura.

    Ho finito. L’infermiera se ne è andata da qualche minuto, non ho voglia che torni ancora a chiamarmi. Per quanto posso, mi affretto a vestirmi. La maglietta estiva, le braghe leggere di cotone, ne ho venti paia. Esco dalla mia camera e mi avvio lungo il corridoio: incontro poca gente per strada, sono sempre l’ultimo. Sono già tutti con le gambe sotto il tavolo a sorseggiare il caffellatte, di solito quando arrivo molti sono già pronti a tornare nelle loro stanze. Meglio. Preferisco fare colazione da solo, senza che nessuno interrompa i miei pensieri. Forse è per questo che faccio tardi: sono un orso, non mi piace la compagnia, soprattutto in un momento come quello della colazione. Per me è necessario essere soli, un po’ come quando si sta al cesso. Non è naturale cagare e conversare con qualcuno che caga con te, perlomeno è il mio punto di vista. Forse sono io un po’ schizzinoso, tra l’altro mi sembra di aver visto in qualche documentario delle latrine in cui era possibile fare salotto e nello stesso tempo espletare. Chi erano, i romani? O i tedeschi nella seconda guerra mondiale? Non mi ricordo. Sono tante le cose che non mi ricordo, ormai. Certo sono ancora abbastanza lucido, ma la memoria, quella, è da un po’ di tempo che perde qualche colpo.

    Ho finito. Davanti a me è rimasta la tazza vuota, la osservo. Cosa farò oggi? Quello che faccio tutti i giorni, fesso che sono. Che domande fai, rimbambito? Sono lontani i bei tempi. Ogni giorno era diverso dall’altro. Un giorno avevi la mano destra, quello dopo non c’era più. Ma mi sentivo vivo, il rischio, l’avventura. Adesso è tutto uguale. Magari capita che piova, allora la routine viene un poco stravolta. Tutto lì.

    Mi alzo. Prima di tornare alla mia camera per lavarmi i denti voglio fare due passi. La casa di riposo è piuttosto bella: un bel parco, l’edificio moderno, posizione invidiabile. Si vede tutta la città da qui, i miei figli non hanno badato a spese. Maledetti figli, non potevano intraprendere la professione del padre? Poteva prender piede una tradizione familiare. Ma no, io voglio fare l’avvocato, io voglio vendere vestiti. Nessuna considerazione per il mio lavoro.

    Si apre la porta a vetri scorrevole e sono fuori. Ormai il caldo dell’estate scioglie la città, laggiù. Qui in alto c’è un po’ di brezza, dopotutto è sopportabile. Poi alle prime ore del mattino si sta quasi bene. Io ho la mia età, anche se fisicamente sto bene non credo che sopporterei l’afa che sale dall’asfalto rinchiuso in un appartamentino al quarto piano in pieno centro. A proposito di fisico: a parte la mano devo dire che l’ho mantenuto piuttosto bene. Un tempo mi allenavo delle ore ogni giorno, adesso è tanto se arrivo a un’ora con la cyclette. Ma l’allenamento di allora mi giova tuttora, i miei muscoli sono rimasti, tutto sommato, ancora abbastanza tonici.

    Ehi, Giovanni.

    Ecco lo scocciatore. Possibile che lo incontri sempre? Mi sa che mi segue di soppiatto e poi salta fuori e si presenta come se passasse lì per caso, se no non me la spiego la sua presenza ogni volta che voglio stare solo. Ma cosa vuole da me?

    Ciao Giancarlo.

    Fa caldo, oggi.

    Abbastanza.

    Non mi hai raccontato ancora la storia della mano.

    Non è niente di bello.

    Ogni volta è la stessa domanda: non mi hai raccontato ancora la storia della mano. Ogni volta gli rispondo allo stesso modo, dopo di che lascio che la conversazione si spenga sul nascere. Neanche lui, infatti, è interessato a una chiacchierata. Forse non gli interessa nemmeno cosa è successo alla mia mano, la sua frase la ripete in automatico quando mi incrocia, semplicemente. La cosa che mi irrita è che lo incontro sempre quando voglio stare solo a pensare. Poveraccio, alla fine si limita alla sua battuta, poi mi lascia in pace. Ma è quel suo comparire proprio quando ho bisogno assoluto di solitudine che mi manda in bestia.

    Non sono mai stato un tipo socievole. Mia moglie, lei sì che amava la gente. Bianchi, neri, asiatici, marocchini. Per tutti, Marta aveva una parola, le differenze di cultura e di vedute non la spaventavano, anzi, la spingevano a osare, a vedere fin dove la chiacchierata poteva essere portata. E trovava sempre risposta dall’altra parte. Per me era sempre un miracolo il formarsi di questa intesa tra Marta e il suo interlocutore, quale che fosse.

    Mi avvicino al muretto che cinge il parco. Guardo verso la distesa di tetti e strade: pare non finisca mai. Una volta non era così, una volta c’erano meno cemento e più umanità. Da qui la metropoli è quasi silenziosa: si sente un brusio leggero ma avvolgente, quasi come il rumore di una radio sintonizzata su nessun canale. È un rumore indistinto, un rumore che ora per me è senza senso. Distolgo lo sguardo. Dio, ci mancherebbe che andassi in depressione; su Gianni, gira i tacchi e vai a distrarti. Eppure una volta mi piaceva questo miscuglio di suoni: era il pulsare della vita, il respiro dell'umanità che sentivo.

    Ieri è venuto a trovarmi Massimo. Ormai è un uomo, il suo completo grigio sottolinea il suo essere adulto. Sembrano tutti uguali gli avvocati, a parte la cravatta, che cambia a seconda dei gusti dei singoli. Viene a trovarmi sempre di giovedì, chissà perché quel giorno. Chi l’ha deciso? Là ui, suppongo. Sull’agenda del suo cellulare ha impostato giovedì e poi ha aggiunto papà, e poi è stato sempre così da un anno a questa parte. È un bravo figliolo, mai in ritardo, spacca il secondo. Poi passiamo mezz’ora nella quale verranno pronunciate, sì e no, quattro parole. Ma va bene così, mi guardo intorno e vedo tanti anziani dimenticati da tutti. Io sono privilegiato, nell’agenda di mio figlio c’è posto anche per me.

    Lella invece non la vedo più.

    Ritorno nella mia camera, devo lavarmi i denti. Poi deciderò sul da farsi. Devo tirare a mezzogiorno: è un’impresa. Io che nella vita ne ho passate di tutti i colori e affrontato mille pericoli adesso sono in enorme difficoltà di fronte a una mattina vuota di impegni.

    Nella sala tv l’enorme televisore ultrapiatto è già acceso. Dapprima lotto per distogliermi dalla tentazione di sedermi su una delle poltroncine schierate davanti all’apparecchio: per esperienza so che mi rialzerei dopo qualche ora. Ma sono incuriosito. Non c’è il solito telefilm degli anni Ottanta, stavolta è una trasmissione di medicina. Si parla di protesi alle gambe, della possibilità di poter correre ancora nonostante si sia subita un’amputazione dal ginocchio in giù. Io le gambe le ho ancora, di correre m’interessa relativamente, ora come ora. Sto aspettando che si parli anche di mani. Niente. Compare la sigla di chiusura. La speranza non l’ho mai persa. Ho ottantuno anni ma il desiderio di poter impugnare ancora con la destra è rimasto intatto. Sì, la sinistra fa il suo onesto lavoro, ma niente è paragonabile alla precisione della destra. Faccio un sospiro e sprofondo nella poltroncina. Sono caduto nella trappola. Adesso mi aspetta una maratona di televisione.

    Giovedì 9 luglio 2009

    Hai preso le medicine?

    Le prendo sempre le medicine.

    Ti saluta Lella.

    Massimo è arrivato alle cinque e mezza in punto. Ora sta seduto davanti a me. Pare imbarazzato, io di certo non lo aiuto. Perché non viene mai a trovarmi mia figlia? Cosa le ho fatto?

    Sempre presa col lavoro?

    Sì. Ha detto che ti fa avere un altro paio di pantaloncini leggeri, così ne hai uno di scorta.

    Non dico niente. È una fissazione di Lella quella delle braghe di cotone. Non so più dove metterle, ma non oso rifiutarle: è il suo modo per dirmi che in fondo mi vuole bene.

    Adesso dov’è?

    A Parigi. C’è la collezione autunnale.

    Adesso? La collezione autunnale? È saggia la moda: si porta sempre avanti, mi dico.

    Ti saluta anche Luisa.

    Mia nuora, Marta non l’ha mai accettata del tutto. A me invece piace, credo sia adatta a nostro figlio.

    Ecco, questa l’ha fatta per te.

    Massimo tira fuori dalla sua valigetta di pelle un contenitore trasparente per alimenti. Dentro c’è un tortino di carote. Luisa sa che mi piace.

    Rimaniamo in silenzio. Massimo si alza e va alla finestra, la giacca l’ha lasciata sullo schienale della sedia.

    Fa caldo in città. Stai meglio tu, qui.

    Sei andato a cambiare i fiori?

    Sì, ieri mattina.

    Bene.

    Adesso devo andare.

    Oggi se ne va prima, perché?

    Devo portare la Mercedes di Luisa dall’elettrauto, mi aspetta alle sei. Vado. Ciao.

    Che funerale. Se ci fosse Marta darebbe una sberla a me e a lui. Direbbe: ma si può parlare così tra padre e figlio? Al ricordo di lei che diventa rossa dalla rabbia in viso mi viene da sorridere. Era soprattutto quando si arrabbiava che l’amavo. Che sia un masochista? Osservo il tortino: è brava ad andarmi dietro Luisa; forse era più oggettiva mia moglie a giudicarla. Non lo so. Apro il contenitore e strappo un pezzo del dolce. Me lo gusto, poi richiudo. Non devo mangiare troppa pasticceria, è per il colesterolo. Guardo fuori. Tra poco serviranno la cena. Chissà che fiori ha messo Massimo. Vorrei vedere Lella, come si fa? Forse so perché ce l’ha con me. È per via di quello che facevo, non l’ha mai accettato quello che facevo. Ma era la mia vita, dio santo, non avrei mai potuto fare qualcos’altro. E poi mantenevo la famiglia, possibile non lo capisse? Già, è un miracolo che avessi pure una famiglia.

    La settimana scorsa ho ricevuto la visita di un mio vecchio collega. Vecchio non per l’età, è molto più giovane di me. Vecchio nel senso degli anni trascorsi insieme. Gli ho insegnato tante cose sul mestiere che ormai lo considero un terzo figlio. Luigi. Forse l’unica persona di cui mi sia mai fidato ciecamente, professionalmente parlando. Lui lavora ancora, è ancora in prima linea, come si suole dire. Le sue visite sono un’iniezione di vitalità per me, anche perché mi chiede consiglio su questo o su quello: su come effettuare certi appostamenti, le attrezzature più indicate alla circostanza e così via. E io mi sento, come si suole dire, ancora in prima linea. Peccato che Luigi venga solo una volta al mese, quando va bene.

    Sono quasi le sei di sera. L’aria condizionata rinfresca la stanza ma so che fuori fa ancora caldo. Dio, com’è calda questa estate. D’un tratto una fitta mi attraversa la mano che non ho: non ho mai fatto l’abitudine a questo dolore, non tanto per la sua intensità, quanto per l’illusione che alimenta, quella di possedere ancora l’arto. Me lo ricordo ancora perfettamente il momento in cui l'ho perso, un po’ meno quello che è avvenuto immediatamente dopo. Sospiro. Non si può tornare indietro, purtroppo. È stato un mio errore e gli errori si pagano, senza possibilità di scampo o sconti di pena.

    Tra poco serviranno la cena, ma non ho molta fame. Devi sforzarti, mi dice Marta da lassù. Non ho il coraggio di risponderle che è perché ho mangiato un pezzo della torta di Luisa.

    Mercoledì 8 luglio 2009

    Ciao mamma. Che saluto a fare? È solo una fotografia. A volte sono proprio sciocco. Ho dieci minuti soltanto per stare qui. Cambio i crisantemi poi vado in ufficio. Domani vado a far visita a papà. Sarà il solito strazio, io che non so cosa dire, lui che non sa cosa dire. Perché te ne sei andata? Lella è a Londra, sai? Saresti orgogliosa di lei. Ce l’ha ancora con papà. Un po’ la capisco, ma è pur sempre nostro padre. Ci ha fatto penare, non sapevamo mai se sarebbe tornato a casa intero. Ma è fatto così. Lella dovrebbe smetterla, una figlia deve avere più rispetto per il padre. Guarda questa tomba. Piena di terra, possibile debba fare sempre tutto io? Sono sempre stato io a badare alla famiglia. Lui non c’era mai, sempre in giro, in missione. Ma tu stravedevi per lui. Magari ti faceva anche le corna, ma tu lo amavi ciecamente. Scusa, hai ragione. Ho esagerato. Adesso però vado, sono uno sciocco a parlare con una fotografia. Meglio andare.

    Giovedì 2 luglio 2009

    Allora come va?

    Il solito schifo, Luigi.

    Il mio collega si mette a ridere, sta per accendersi una sigaretta ma incontra lo sguardo di Beatrice, la mia infermiera preferita. Rimette la sigaretta nel pacchetto e il pacchetto in tasca.

    Sei ancora giovane, potresti smettere. Anch’io ho smesso.

    Ci ho provato, lo sai. Ma non ci sono mai riuscito.

    Guardo Luigi: ha un viso simpatico, pieno di rughe di espressione. La testa è piena di capelli, ormai tutti grigi. Se non fosse per rughe e capelli lo scambieresti per un ragazzo di venti anni. La sua aria giovanile mi ha sempre affascinato. Avrà bevuto un elisir di giovinezza, questa è l’unica spiegazione. È appassionato al suo lavoro, come pochi.

    Se la cava l’agenzia senza di me?

    Direi di sì, senza la zavorra di un nonno. A proposito, i nipoti?

    Niente, per ora. Ma ci credo poco.

    A Marta sarebbe piaciuto avere intorno dei marmocchi da viziare.

    Allora, come mai sei qui? Non dirmi perché ti manco.

    A dire il vero volevo vedere se c’era ancora quella biondina che conosci bene. Mi ha appena lanciato uno sguardo di fuoco.

    Beatrice? Non sei un po’ maturo per lei?

    La sua aria da ragazzino si è sempre accompagnata a un’immaturità mai superata del tutto. Ciò talvolta mi ha creato non pochi problemi sul lavoro. Sembra che non prenda niente sul serio, fino a che non gli si impone la disciplina. Allora diventa un collega perfetto.

    Smettila di fare il bambino. Fallo almeno per i tuoi figli.

    D’un tratto il suo volto invecchia di venti anni. Mi dispiace, ma devo sempre toccarlo sul vivo per rimetterlo in carreggiata.

    Potevi risparmiartela questa, Gianni. Con tutto quello che devo spendere per gli alimenti. E li vedo ogni quindici giorni se va bene…

    Non sono mai stato un diplomatico, non so se per fortuna o sfortuna. Ora Luigi distoglie lo sguardo, per un momento rimane in silenzio, poi un sorriso fiorisce di nuovo sul suo viso riempiendolo di rughe intorno agli occhi.

    Allora parliamo di lavoro. Non si può nemmeno scherzare con te.

    Non riesco a capire come abbia fatto a sopportarmi per tutti questi anni. Sono sempre stato un burbero, proprio l’opposto di lui, sempre allegro e gioviale. Forse davvero mi vede come un’autorità paterna. Forse gli è mancato un padre severo che lo regolasse: il suo lo ha lasciato orfano a dieci anni. Così si è legato a me. Una strana coppia, veramente. Poi stava simpatico a Marta: di carattere un po’ si assomigliano. Quando Luigi veniva a cena da noi non era raro che i due si coalizzassero contro di me e mi sfottessero per tutta la sera.

    È per un caso di qualche anno fa. Ti ricordi Solana?

    Solana, Solana… Non mi dice niente…

    La mia memoria. E sono passati solo pochi anni.

    Possibile che non te ne ricordi? Ci abbiamo lavorato tanto a quel caso.

    Luigi mi guarda preoccupato. Io non so che dire, non me lo ricordo.

    Il trafficante, il sudamericano, proprio niente?

    Ah, sì, Solana…

    Sto bluffando, in realtà. Spero che non lo scopra, spero che mi dica altro intanto che mi torna la memoria.

    Beh, abbiamo perso completamente le sue tracce e non sappiamo più come recuperarlo. Questo circa sei mesi fa.

    E vieni solo adesso per chiedermi consiglio?

    Non me lo ricordo ancora questo maledetto Solana.

    Sai com’è… L’obbligo di riservatezza… Poi sembrava che stessimo per rintracciarlo…

    In realtà so che Luigi ha aspettato tanto perché ha voluto, come suo solito, fare di testa sua. La sua cocciutaggine è un aspetto del suo carattere con cui ho imparato a convivere.

    Solana. Incomincio a ricordare.

    Ho messo tutto quello che ti serve in questa pen drive. Vorrei che tu guardassi tutto e poi mi dicessi il tuo parere. Stiamo proprio brancolando nel buio e il tempo adesso stringe.

    Cos’è? Cosa devo fare con questa supposta?

    Non hai mai visto una pen drive? Ma sei proprio dell’età della pietra!

    Così piccola no.

    Il riso di Luigi rimbomba fino al soffitto. Non so che dire, mi sa che sono stato poco attento all'evoluzione tecnologica in questi ultimi anni.

    Ho visto che avete una sala computer. Devi inserirla nella porta USB, sai qual è? Poi fa tutto da sola.

    Sì, sì, so cos’è una porta USB. Li ho sempre usati i computer, io.

    Di nuovo bluffo, è più forte di me. Non ho mai amato i computer, ho sempre preferito l’azione allo stare seduto davanti a uno schermo. Ma spesso sono stato costretto a utilizzarli, mio malgrado.

    Luigi sta ridendo ancora.

    La vuoi smettere?

    Sì, adesso faccio un bel respiro… Ecco, mi sono ripreso. Ti prego Gianni, dacci un’occhiata. Io torno tra dieci giorni. Hai tutto il tempo che ti serve.

    Dieci giorni? Ma io ti so già dare una risposta domani, Luigi.

    Va bene.

    Ora devo scappare. Naturalmente tutto questo rimanga tra noi. Se all’agenzia sanno che ti ho passato le informazioni su Solana mi licenziano in tronco e mi tagliano le mani…

    Luigi si accorge dell’espressione che ha usato. Segue un breve momento di imbarazzo.

    Scusa, m’è scappata.

    Non importa, Luigi.

    Perché non ti fai una protesi?

    Alla mia età? Ormai cosa vuoi che faccia.

    Era un’idea. Comunque prima che dica qualcos’altro di sconveniente me ne vado. Ci vediamo tra dieci giorni.

    D’accordo.

    Il ragazzo di una volta si alza dalla sedia e mentre prende la via dell’uscita meccanicamente estrae il pacchetto di sigarette e se ne infila una in bocca. Prima che scompaia dalla mia vista l’ha già accesa.

    È un brav’uomo, forse troppo buono.

    Non è ancora mezzogiorno. Una capatina alla sala computer faccio in tempo a farla.

    Di solito qui si passa il tempo a chattare o a navigare. Non io,

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