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Rintocchi nel buio
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E-book220 pagine2 ore

Rintocchi nel buio

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Info su questo ebook

‘Rintocchi nel buio’ può senza dubbio essere definito come una storia nella storia, un viaggio nel tempo, nello spazio ma ancor più nell’anima. L’ambientazione ci riporta all’ Ottocento di Edgar Allan Poe, il grande maestro della letteratura dell'orrore, al quale questo romanzo rende omaggio.

Poe a distanza di più di un secolo si ritrova protagonista di un’avventura del mistero, intrapresa per dar sollievo al proprio tormento, ma che lo metterà di fronte proprio agli spettri che lo perseguitano.

In un’ambientazione dal sapore tipicamente gotico, sia per la scelta ricercata del linguaggio che dell’aspetto descrittivo dello svolgersi delle azioni, Edgar Allan Poe rivive appieno la sua epoca e si confronta con compagni di ventura che a nullaltro serviranno se non a confermare il suo stesso esistere sul filo dell’irreale e del subconscio.

Attraverso una disperata ricerca per riscattare l’amore della sua amata, si troverà ad attraversare l’Europa fino a giungere a Venezia, città alla quale lo stesso Poe rese omaggio con un celebre racconto nel 1834.

Non è questo un libro che pretenda di ricollocare la figura dello scrittore americano all’interno di un contesto geografico e sociale, già più volte analizzato e discusso dai più influenti critici letterari.

Si tratta bensì di un coraggioso omaggio ad un’anima persa e tormentata, al costante inseguimento di una pace interiore intesa come trofeo dall’ incessante fuga dalla realtà.

Una ricerca che ha generato angoscia e dissolutezza per tutta la sua esistenza, dalla quale sono nati capolavori che lo hanno reso il precursore del Decandentismo.

Non fatevi però ingannare… In questo romanzo nulla è davvero come sembra e l’introspezione dell’anima porterà alla percezione suprema della coscienza.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ago 2015
ISBN9788893060738
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    Anteprima del libro

    Rintocchi nel buio - Daniele James Marchiori

    sempre.

    Nota dell’Editore

    Difficile immaginare uno scrittore che non sia pure un lettore. Non è inconsueto poi che uno scrittore elegga un altro scrittore (generalmente del tempo passato) a suo modello. Gli esempi non mancano. Questa seconda opportunità rientra nella discrezionalità umana di manifestare gusti e scelte, anche se trattandosi di letteratura e della copiosità millenaria della sua produzione, è arduo per un letterato contemporaneo, accreditato alla dialettica culturale, scegliere tra molti il proprio modello. Non meraviglia che la scelta cada su Omero, Aristofane, Sofocle, o chissà quale altro remoto autore. In questo caso parrebbe opportuno pensare che una simile preferenza sia dettata da apposito radicalismo spirituale, non troppo diverso da quello del religioso che sceglie a nume tutelare il proprio santo. I vescovi eletti papi scelgono non a caso il nome con cui caratterizzare simbolicamente il proprio papato. Religione quindi. Propensione all’assoluto della fede, atto di lucida consapevolezza passionale, gesto di riconoscimento, debito e riconoscenza verso il maestro.

    Non sono pochi i saggi elaborati da scrittori che hanno per tema l’opera di altri scrittori. Meno frequenti i romanzi che hanno per protagonista la figura storica di uno scrittore.

    Passiamo al caso di Daniele James Marchiori e al suo romanzo di debutto che ha per protagonista Edgar Allan Poe.

    Marchiori è veneziano, ma non so in che modo Venezia si inserisca nella sua scelta narrativa, o meglio non so se il luogo venga prima del protagonista del romanzo: Edgar Allan Poe. Insisto nel dilemma: l’uomo o lo scrittore? Ripiego in un dato certo: Poe ha ambientato a Venezia il racconto dal titolo L’appuntamento.

    Dunque Venezia. Ancora una volta.

    Prima New York.

    Il romanzo inizia citando il laudano, vizio tipicamente ottocentesco. Il che quadra con le pagine che seguiranno: il proposito di Marchiori è ribadire la centralità dell’Ottocento letterario. Come negare a questo secolo la reputazione di grande costruttore di storie? C’è chi dice che la storia finisca con l’avvio del Novecento. Rilievo divenuto ormai accademico. Marchiori vuole riempire questo vuoto, e lo fa senza risparmio. Se il protagonista del romanzo è Edgar Allan Poe, il riempimento non può essere che debordante, in linea con gli eccessi a cui lo scrittore americano ci ha abituati.

    Naturalmente non si tratta solo di sostanza, la forma dello scrivere di Marchiori (che viene dalla poesia) è volutamente aulica, a tratti mimetica. Qui il sipario si apre sulla mimesi come componente non propriamente segreta dell’esercizio letterario di architettare storie (affresco, saga, epica, fungono da accessori alla storia). Le storie si assomigliano, si incuneano una nell’altra. Un medesimo trasporto di voler costruire e raccontare fa da ponte tra storia e storia, le diversità del racconto si uniformano al paradigma della costruzione e dell’intenzione. Ogni storia è emulatrice. Borges ci ha insegnato che un libro inevitabilmente ne contiene un altro, o altri, non è questione di quantità ma di circolarità. È interessante citare Borges in rapporto al ritorno di Marchiori che sceglie il paradigma opposto alla sintesi borghesiana: la prosa debordante di Poe.

    Nel romanzo di Marchiori è accentuato il credito romanzesco, il grado appercettivo che fa della storia lo specchio di se stessa. Marchiori vuole vedersi costruire e raccontare e vuole esser visto. Non vuole ingannare, travestire, confondere: vuole che gli sia riconosciuto il diritto di ricordare e far ricordare il tesoro della letteratura. Ecco perché ha scelto uno scrittore come protagonista del romanzo, ed ecco perché lo scrittore paradigmatico è Edgar Allan Poe, forse il più prolifico costruttore di storie al limite dello stesso raccontare.

    Marchiori è consapevole di camminare sul filo, il rischio è il precipizio. Ammiriamo il coraggio e la fede, il giudizio finale lo daranno i lettori, l’editore ha fatto la sua parte.

    New York

    New York estate 18…

    Giacevo nel cottage di Grand Concourse road, Fordham, Bronx, quasi assuefatto all’assunzione di intrugli che ad altri sarebbero risultati fatali. Ragionavo sull’accaduto: le poche gocce ingerite dalla bottiglietta di laudano acquistata dal farmacista di Norfolk prima del mio arrivo a New York, prima dell’imbarco sul battello a pale e prima del treno in cui portato dagli effetti della tintura avevo cercato la morte. L’estasi si insinuava fra i cunicoli del mio cervello, stendendo un buio velo su quel che in realtà era un lucente meriggio assolato.

    Quel mostro oscuro lo combattevo con tutto me stesso e quando finalmente giunsi a New York mi attendeva per la nostra quotidiana battaglia.

    Un flusso di coscienza inarrestabile, che scendeva come una cascata ad invadere la mia mente, suggeriva che: da quando la mia amata Virginia, le cui corde del cuore sono un liuto, mi aveva privato del suo amore morendo, il mio essere già tendente alla dissolutezza si trovava a dover affrontare soltanto critiche, costernanti insuccessi, pettegolezzi. Il Reverendo Rufus Griswold, pessimo poeta ed ottimo chiacchierone da salotto, vestiti i panni del difensore della purezza e del pudore, aveva cercato di screditarmi massacrando la mia opera e riducendola a qualcosa di depravato e sinistramente volgare.

    Questo appariva ai miei occhi certamente come una sconfitta Mi sentivo escluso, osservavo la miseria che mi attorniava, pensando che stavo marcendo con essa.

    Un Re afflitto in un ricovero per straccioni, un Re costretto ad una dimora da poveri.

    Quando tutto ciò sarebbe finito?

    Quando il corvo avrebbe pronunciato ancora mai più?

    Quando la notte avrebbe smesso di essere solo tenebra e si sarebbe accesa di speranza?

    Mai più in queste maledette condizioni.

    Mai più schiavo di intrugli fatali.

    Il giorno muore quando la notte prende vita, ed io ero deciso a scomparire nella tenebra di ghiaccio.

    Mai più.

    La visione

    Svanita ogni visione offertami dal laudano, mi trovavo solo senza zia Clemm a pensare al futuro della mia massa di stracci. Steso sul letto della mia amata sposa sulla cui tomba avevo proferito lancinanti pianti e volgari bestemmie. Rimaneva di lei: un ritratto ovale.

    Turpi pensieri.

    Dovevo partire, andarmene, dimenticare il tetro dolore che le mura ed i viali di questo luogo mi infliggevano. Dovevo cercare qualcosa di meno funesto che ristabilisse il mio pensiero organico.

    Dopo alcuni bicchieri di dozzinale cognac consumati in una bettola di Fordham, finii per ronzare come una mosca afflitta da un fuoco interno per le strade umide e consunte dal disonore e dalla prostituzione, ambienti congrui al mio stato d’animo. In questo vagare, la mia strada corrotta mi portava sempre più verso le adiacenze del porto, senza che la più sensibile delle mie cellule nervose potesse accorgersene, favorendo ciò che speravo avvenisse: partire, lasciare questo posto infame.

    Ma verso dove?

    Avevo rifiutato la gentile accoglienza del Chevalier Ruinal presso la sua maison di Place Vendôme a Parigi. Dovevo ripiegare su qualcosa che mi assicurasse una indipendenza al riparo dal clamore.

    Voci indefinite spianarono la strada alla soluzione. La mia meta aveva un solo nome: Venezia.

    La città Serenissima era stata già per me luogo di agiato ricovero, ospite di un caro amico per il cui tramite avevo conosciuto la Marchesa Mentoni in circostanze purtroppo sinistre: madre sconsolata aveva perduto il suo neonato fra le gelide acque del canale nei pressi del Ponte dei Sospiri.

    Vidi la morte, la riconobbi e la vinsi per mezzo della vita che resiste. Feci la conoscenza della bellezza e l’apprezzai, sondai il mistero e ne rimasi avvinto.

    Mi trovavo ora sul molo e osservavo le bettole lungo la banchina che pullulavano di marinai ubriachi, capitani più o meno ardimentosi e smunte prostitute di ogni nazionalità che offrivano in cambio di pochi dollari sorrisi a occhi guerci e a bocche sdentate. Figure confinate in un quadro oscuro che aveva snaturato le loro esistenze e senza il quale non sarebbero sopravvissute. Animali sottratti al loro ambiente naturale.

    Lo scenario di pattume stava cominciando a solleticare la mia fantasia. Dovevo stare attento a non lasciare che la realtà si plagiasse in spregio alla ragione. La mia meta era ragionevole: dovevo arrivare a Venezia! Cercare il mezzo che mi avrebbe trasportato nella piccola laguna italiana.

    La partenza

    Il molo sembrava respingere i miei passi, quasi che il battito dei tacchi fosse fonte di fastidio per le pietre lastricate e per lo sciabordio sincopato del mare, confuso fra i suoni cupi delle navi entranti, e i fischi di quelle in partenza verso terre di salvezza.

    Percepivo il rifiuto della mia terra natale divenuta ostile, il paese mi stava respingendo con ogni mezzo. Ricordai i molti tentativi da parte di svariati medici ottusi e corrotti per farmi internare in una clinica per alienati di Utica, o da editori perversi che mi avrebbero venduto a ricoveri Wigs per le tornate elettorali, dove ubriacati e malmenati gli elettori erano obbligati a votare più volte lo stesso candidato.

    La volontà di un rapporto d’amore colmo di intensità, tenero come la culla di un bambino, mai reciso dalla violenza impietosa del destino. L’avversità che ha versato il bocciolo dell’amore in una pozza di sangue scuro, denso e avvolgente... Tutto ciò mi stava uccidendo.

    Quale timore misto a scomposta gioia provai nel trovarmi davanti l’oggetto della mia ricerca: il cartello con la scritta BOARDING TO VENICE ITALY (SOUTHAMPTON ENGLAND, GENOA ITALY, ATHENS GREECE) LUGGAGE CLAIM.

    Una nave di grandi dimensioni stava attraccata alla banchina, come un enorme essere venuto da altri mondi, sovrastante l’insulsa piccolezza di noi terrestri... Athena il suo nome.

    Mi avvicinai leggero alla biglietteria passeggeri, aspirando l’odore del legno impregnato di salsedine marina e quello tipico delle corde impilate in un angolo del locale.

    Dietro al banco un ufficiale di marina, dalla corporatura robusta e dai folti baffi bianchi, controllò i miei documenti e dopo aver riposto la mia quota in contanti in un cassetto, mi iscrisse sul libro di bordo, specificando: cabina di seconda classe. Mi fu consegnato un foglio con il regolamento di bordo, le disposizioni di sicurezza ed il sigillo in ceralacca verde, tipico delle compagnie di trasporto passeggeri.

    Ritornato nelle vicinanze della nave mi misi in fila sulla banchina dove agenti di commercio, famiglie e cercatori di fortuna formavano una lunga coda in attesa dell’imbarco.

    Controllai ripetutamente il mio orologio da taschino. Trascorsi venti minuti venne calata la passerella d’imbarco, il bagaglio dei passeggeri di prima classe fu trasportato dai facchini e riposto nella cabina di destinazione; per noi della seconda classe solo il controllo del foglio e poi una scricchiolante passerella per arrivare al primo ponte dove erano situate le nostre cabine. Padri di famiglia grondanti sudore caricavano i bagagli, per me e la mia scarna borsa in pelle fu un gioco da ragazzi, scalai la passerella e di fronte alla porta 121 mi fermai. Entrai nei miei nuovi alloggi.

    La cabina era piccola e molto calda, composta da un letto, un piccolo armadio malconcio e uno scrittoio con una piccola sedia, entrambi fittamente incisi di nomi e date di precedenti traversate.

    Sistemai il soprabito, la giacca, la borsa e la tuba nell’armadio, presi l’acciarino e feci brillare le due lampade a olio. Estrassi dalla borsa i miei fogli densi di lavori in bozza, la penna ed il calamaio, e mi stesi sulla branda cullato dallo sciabordio dell’acqua. Caddi in un sonno lieve. Sognai come sempre la leggiadria perduta di Virginia: felice danzava leggera fra la folla brulicante del mercato di Richmond. Nel sogno pensai approvasse la mia scelta di lasciarmi alle spalle l’orrore, ma la consolante considerazione fu straziata dall’arrivo di un corvo che divorò occhi e membra della povera anima mia, tesoro prezioso. Fui preso da un’ira furente, dolorosa quanto impotente: non potevo muovermi, non potevo correre e afferrare quella bestiaccia che con il becco insanguinato mi osservava con occhi diabolici. Nell’orecchio mi risuonavano le parole che il Vescovo di Chichester aveva pronunciato in occasione delle esequie della moglie: Aspettami là! Non mancherò di raggiungerti in quella valle cupa... Con un balzo mi svegliai madido di sudore.

    Avvertii lo sciogliersi delle corde d’ormeggio, la vibrazione della vaporiera percuoteva la nave in tutte le sue parti provocando un rumore costante e profondo. Aprii la porta della cabina e usci sulla passerella; avvicinandomi al parapetto notai che il cielo si era fatto plumbeo e l’acqua nera come la pece. Osservavo il molo distanziarsi e la ressa di amici e parenti venuti a salutare i naviganti in partenza; per me non era venuto nessuno, ma ciò non aveva importanza. Presto udii il fischio che annunciava l’uscita dal porto, mentre un forte vento mi scompigliava i capelli facendo svolazzare le falde della mia redingote. Ostentavo uno sguardo sapiente. Mentre l’orizzonte si faceva via via più lineare e rarefatto cercavo di immaginare una sorte per il mio Gordon Pym.

    Athena

    Le prime ore di navigazione trascorsero piacevoli, tranne per la diffusa sensazione di malessere che il navigar per mare infonde in chi non ci è abituato. Pensai che il rimanermene rannicchiato nella cabina di certo non avrebbe giovato al torpore febbrile che stavo vivendo, tanto meno si sarebbe rivelato guaritore della nausea assassina che attanagliava il mio stomaco.

    Presi la tuba, il bastone da passeggio ed ignorando i malesseri percorsi il ponte esterno ricoperto in legno verniciato. Passai oltre le cabine degli altri viaggiatori, o forse converrebbe definirli compagni di sventura, e mentre mi accingevo a salire le scalette che mi avrebbero condotto al ponte principale mi parve che un’ombra mi stesse seguendo. Mi voltai di scatto, quasi nel tentativo di sorprendere il silenzioso inseguitore, ma nulla si presentò ai miei sguardi di indagatore.

    Eppure qualcosa si muoveva alle mie spalle. La mia pelle sembrava cosparsa di invisibili aghi aguzzi che penetravano le carni, avviso della presenza di qualcosa di oscuro ed infame. Reputai tale sensazione uno strascico delle sbornie dei giorni precedenti. Mi sbagliavo. Mentre giungevo alla sommità della scaletta, si propagò nell’aria un olezzo putrescente, dovuto, così dedussi, alle acque dell’oceano; mi girai lentamente quasi fossi un pupazzo da carillon e osservai alle mie spalle.

    Non l’avessi mai fatto!

    Figure orrende avvolte nel buio si stagliavano sulla scaletta e sul ponte di seconda. Potevo solo scorgere con certezza la luce violacea emanata dai loro occhi infernali. Mostri infami che segreti assiepavano lo spazio d’ombra che mi circondava: esseri venuti dall’oltretomba, servi della bestia selvaggia, festosi nell’aver trovato territorio fertile al loro disegno di incutere orrore.

    Era certo che il sottoscritto, bersaglio della ingiuria, fosse uno dei più dotati detentori di capacità d’analisi che si conoscesse, oltre a Monsieur Dupin ovviamente. Chi giocava con le ombre nello stupido tentativo di spaventarmi, dimenticava la mia prefazione ai I delitti della Rue Morgue dove potenzialità d’analisi erano dispiegate con ampi riferimenti al quotidiano e ai sistemi più efficaci di simpatizzare con la soluzione, per così dire.

    In questo frangente di analisi commisto all’orrore mi sovvenne un nome: Nachzehrer.

    Nachzehrer: nella tradizione popolare tedesca, i vampiri, i masticatori del sudario... Si narra che questi defunti particolari, se così vogliamo considerarli, avvolti come tutti gli altri in un sudario, fossero in grado di risvegliarsi post-mortem e divorare il panno avvolgente la faccia, aprendo un varco alla loro voracità di nutrirsi del sangue del defunto compagno di fossa. Vampirizzare e generare un nuovo Nachzehrer.

    Spesso a suddetti dannati veniva conficcata una pietra in bocca prima dell’avvolgimento nel sudario, in modo da impedire al vampiro di praticare il foro.

    Pensai che nella nave doveva essere

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