Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

BRAGADIN
BRAGADIN
BRAGADIN
E-book317 pagine4 ore

BRAGADIN

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

1571. Prima di portare gli alleati europei alla meravigliosa vittoria sulla flotta ottomana nella battaglia di Lepanto, la Repubblica di Venezia dovette sopravvivere all’ordalia della guerra che dilaniò il suo più prezioso dominio, Cipro. Durante quel lungo anno l’antica isola non fu soltanto il luogo di un sanguinoso confl itto militare, fu il terreno dove si scontrarono due civiltà, due credenze, due visioni del mondo: il Cristianesimo e l’Islam.
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2014
ISBN9788865123133
BRAGADIN

Correlato a BRAGADIN

Ebook correlati

Saggi, studio e didattica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su BRAGADIN

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    BRAGADIN - Sergei Tseytlin

    DELL’AUTORE

    PARTE PRIMA

    I

    Una fredda sera di marzo inoltrato, quando già l’oscurità aveva avvolto la laguna come un sudario, una galeotta veneziana di pattuglia rientrò nel bacino di San Marco e, senza dare nell’occhio, avanzò verso il Palazzo Ducale.

    Era di ritorno dall’isola del Lido – una striscia di terra lunga e stretta che ripara la laguna dal mare aperto – dove era stata inviata per una missione assai delicata.

    Spinta da bruschi colpi di remi, la prua fendeva le placide acque, dritta e imperterrita verso la sua destinazione. Sorpassando le altre imbarcazioni nel bacino, la galeotta proseguiva senza rispondere al loro saluto. Una torva tensione regnava da poppa a prua: nessuno parlava e nessuno si muoveva. Nessuno gridava allegramente verso le abitazioni sulla Riva degli Schiavoni. Nessuno era impaziente di mettere piede a terra. I marinai sul ponte restavano in una rigidità innaturale, porgendo solo i volti cupi e ostili all’austero chiaro di luna.

    Quando la galeotta gettò l’ancora di fronte al Palazzo, una nutrita coorte di guardie munite di lanterne si affrettò a creare un corridoio dall’ingresso dell’edificio fino all’imbarcazione, impedendo il passaggio a chiunque si trovasse sulla banchina. Quattro soldati armati fino ai denti uscirono dal portale e percorsero a grandi falcate il corridoio fino all’orlo della banchina, suscitando la curiosità degli astanti. La forma di questa frettolosa accoglienza militare era molto insolita. Tutti sapevano che il doge non aveva mai avuto bisogno di una scorta per andare dalla sua nave al Palazzo. E, del resto, difficilmente poteva trattarsi del doge, dal momento che, normalmente, egli viaggiava sulla galea ducale, il Bucintoro. E neppure poteva essere un dignitario straniero poiché ambasciatori e cardinali erano sempre accolti in pompa magna e, inoltre, venivano fatti entrare nel Palazzo durante il giorno, in modo da poter meglio apprezzare lo splendore architettonico dell’edificio.

    Passarono diversi minuti, ma ancora non vi era traccia dell’ospite tanto atteso. Altri passanti si ammassarono alle spalle delle guardie; fissavano con apprensione il ponte della galeotta. I gabbiani volteggiavano e planavano intorno all’albero; i loro strilli voraci si fondevano con lo stridulo cigolio dell’imbarcazione e lo sventolio dello stendardo veneziano nella brezza salmastra.

    D’un tratto, dalla cabina emerse una grande, oscura figura irriconoscibile che fece strepitare di spavento la folla e portò i soldati ad afferrare le else delle spade. Era avvolta in un lungo mantello nero con un ampio cappuccio che le pendeva floscio sul viso, coprendolo del tutto. Se ne stava ritta e immobile, ben consapevole, se non persino fiera, della reazione che aveva appena provocato nella folla sottostante. La sensazione di essere sconosciuta e di incutere timore la esaltava ancora di più. Il mantello fasciava talmente l’imponente figura che non si poteva distinguere l’abito o l’uniforme che esso nascondeva. Nemmeno quando il vento sollevò il mantello fino alle ginocchia fu possibile capire se la persona che torreggiava sulla banchina fosse un ufficiale o un civile, se fosse o no un italiano, se fosse o no un cristiano. L’identità dello sconosciuto rimaneva un enigma irrisolvibile.

    Poi, prima che qualcuno capisse cosa stava accadendo, il capitano della galeotta apparve accanto allo sconosciuto e insieme i due uomini discesero rapidamente dall’imbarcazione appressandosi ai soldati in attesa, che li circondarono e li spinsero attraverso il corridoio delle guardie nel Palazzo Ducale.

    La folla fu lasciata a fissare inebetita gli enormi finestroni scuri dell’edificio.

    Al suo interno, la Sala del Collegio fremeva di concitazione. Presso la parete più lontana, assiso sul trono, l’ottantottenne doge Pietro Loredan aveva il suo bel daffare fra le lamentele, le proposte e le dispute gridate dei membri del Collegio. Quella sera egli stava presiedendo non solo la Serenissima Signoria – ovvero i suoi sei consiglieri e i tre giudici supremi – ma anche il Collegio dei Savi (i ministri in carica degli Esteri, delle Finanze, dell’Esercito e della Marina, dei Movimenti delle Truppe, delle Spedizioni e del Cerimoniale di Stato, ecc.) e il Consiglio dei Dieci, il corpo del servizio segreto.

    L’argomento della discussione non era affatto piacevole. Echeggiava da due mesi fra le maestose mura del Palazzo, tormentando la mente di ogni funzionario di alto o di basso rango. Nessuno poteva credere che fosse così imminente, che ciò che un tempo era stata solo un’ipotesi remota stesse ora per trasformarsi in un’orribile realtà. Alcuni senatori cercavano disperatamente di evitare di affrontare la questione.

    Altri erano ancora assolutamente convinti che fosse impossibile, che si trattasse di un bluff. Fino all’ultimo giorno questi avevano tentato di persuadere Loredan a continuare le trattative, a trovare un’altra soluzione. Avevano dimostrato ai consiglieri del doge che qualsiasi decisione affrettata avrebbe portato a gravissime e rovinose conseguenze. Ma il doge sapeva che ormai restava ben poco spazio per la trattativa. Sapeva qual era la decisione che andava presa, come del resto lo sapeva l’intero Collegio, ed era proprio quella sera che tale decisione doveva essere pronunciata a chi di dovere.

    Mentre l’agitazione si placava nella Sala del Collegio, i funzionari si sistemarono nei loro scranni di legno ai due lati del doge il quale, innalzato su un palco, divideva l’assemblea in maniera perfettamente simmetrica. I loro volti erano risoluti e Loredan si compiaceva che la decisione, malgrado qualche apprensione iniziale, fosse stata raggiunta all’unanimità. Ma non appena il suono di passi pesanti risuonò dalla Scala d’Oro, i membri del Collegio cominciarono ad agitarsi nervosamente sui loro seggi, emettendo sospiri di esasperazione. Il suono dei passi era accompagnato dallo sferragliare delle armature e da un profondo mormorio. Il rimbombo divenne sempre più forte e la frequenza dei passi sempre più intensa. Raggiunsero la cima delle scale e proseguirono verso la Sala del Collegio passando attraverso l’Anticollegio. I passi si fecero così forti e pesanti che il savio Cassiere¹ rivolse lo sguardo a un’immagine di Cristo e poi chiuse gli occhi in preghiera. E quando i passi finalmente si arrestarono appena fuori dalla Sala, in un momento di silenzio che parve interminabile, lo stesso savio si fece per due volte il segno della croce e si volse verso il doge con sguardo implorante.

    Bussarono alla porta. Le guardie della Sala la aprirono. Un giovane e pallido araldo entrò e annunciò cerimoniosamente all’assemblea:

    Dalla Sublime Porta di Sua Maestà Imperiale il Sultano Selim II dell’Impero Ottomano, Califfo del Califfato Islamico, annuncio il magnifico ingresso di Sua Eccellenza l’Ambasciatore Cubat.

    Prima che potesse riprendere fiato, il Collegio si trovò di fronte l’imponente figura nera. Si levò il mantello e lo porse all’araldo, il quale uscì dalla Sala e chiuse la porta dietro di sé.

    Loredan percepì il brivido che attraversò i membri del Collegio.

    Gli occhi di Cubat ardevano del desiderio di conquista. La sua pelle, bruna e liscia, brillava alla luce del lampadario e il suo alto turbante tempestato di diamanti faceva sembrare il suo corpo enorme addirittura insormontabile. Sulla mascella volitiva e sul mento sporgente ostentava baffi e barba perfettamente curati, che non solo davano un tocco di grazia alla potenza che egli incarnava, ma gli conferivano l’aspetto di un maturo diplomatico. Vestito con un caffettano di seta dorata finemente ricamato, l’ottomano attraversò lentamente la solenne sala rettangolare in direzione del doge, calamitando gli sguardi di tutta l’assemblea. Eretto come un minareto, con un incedere che esprimeva un perfetto equilibrio interiore, Cubat poteva vedere con la coda dell’occhio come i veneziani fossero al tempo stesso abbagliati e intimoriti.

    Avvicinandosi al trono del doge, posò un ginocchio sul palco e, in segno di riverenza, sfiorò con le labbra l’orlo del manto purpureo di Loredan. All’istante il doge gli fece cenno di alzarsi.

    Vi prego, mio caro Cubat, non servono formalità, disse dolcemente Loredan, sperando di allentare la tensione.

    L’ambasciatore si alzò e i loro occhi si incontrarono.

    Serenissimo Principe, Eccellentissimi Membri del Collegio, cominciò Cubat con voce roca, voltandosi a squadrare ognuno dei presenti con un’unica occhiata indagatrice. Sono venuto da voi… da amico.

    Borbottii sommessi risuonarono nella sala.

    Sono venuto da voi a nome di un vicino di buona volontà, a nome di un sultano che desidera solo pace e prosperità fra i nostri due grandi imperi. La sua padronanza della lingua veneziana era eccezionale. Ho definito la Serenissima Repubblica un impero poiché, malgrado la sua forma di governo elettiva, essa è guidata da un’unica volontà. Questa volontà, come la volontà di tutti i sovrani, è dettata dalla saggezza, dalla nobiltà d’animo, dal coraggio e dalla suprema devozione.

    I membri del Collegio rimasero interdetti da questo magnanimo preambolo. Si aspettavano che il turco venisse subito al dunque.

    Eccellentissimi Signori, siete riusciti a portare il vostro stato ad altezze venerabili. Avete dato straordinari contributi alla guerra navale, alla diplomazia, alle arti, al benessere dei cittadini sui quali il Leone di San Marco ha dispiegato le sue ali. Il vostro stato è temuto, Signori. Sì. Voi siete temuti dagli altri stati europei. Non vi ricordate della Lega di Cambrai? Avete forse dimenticato che fu necessaria un’alleanza di quattro eserciti – papale, imperiale, spagnolo e francese – per contenere l’espansione di Venezia sulla penisola? Voi possedete territori nell’Adriatico, nello Ionio e nell’Egeo.

    "Possedevamo territori", bofonchiò qualcuno alle spalle di Cubat.

    I vostri legami commerciali con l’Oriente vi hanno reso la più bella e opulenta nazione del continente europeo. Tutti, nel mondo, invidiano la vostra reputazione di società tollerante e aperta. Ecco perché il vostro stato io lo chiamo impero. Un impero che non ha eguali in Occidente. Proprio come…

    Loredan comprese la strategia di Cubat. L’ambasciatore voleva adulare i veneziani, nutrirne l’orgoglio, così da far sembrare qualsiasi sua eventuale richiesta poco più che un’inezia.

    … il nostro impero non ha eguali in Oriente.

    Siete troppo buono, mio gentile Cubat, disse Loredan, deciso a stare al suo gioco. Ma è il vostro impero che merita tutti gli allori. Sono i vostri sovrani che hanno procurato una gloria inimmaginabile al loro popolo. Oggi l’impero ottomano si estende da Buda a Baghdad fino alle rive dell’Algeria, facendo di voi gli indiscussi dominatori del Mediterraneo. In effetti, non credo che il mondo abbia mai conosciuto una macchina da guerra pari alla vostra. Il modo in cui foste fermati a Vienna sfugge a qualunque deduzione logica.

    Infatti.

    "Vi siete persino presi il nostro retroterra in Dalmazia.

    Per non parlare dei porti di Malvasia e Nauplia nel Peloponneso, che per noi erano così preziosi, aggiunse timidamente Loredan esalando un sospiro. Ma questa ormai è acqua passata. Queste sventure sono state archiviate nel dimenticatoio e vi assicuro che Venezia non porta alcun rancore. I nostri stati sono in pace da trent’anni esatti grazie al trattato siglato con il Magnifico sultano Solimano nel 1540. E sono certo che suo figlio, Selim il Grande, desidera mantenere questa pace, dal momento che, quando è salito al trono nel 1566, si è volontariamente impegnato con un accordo di non aggressione. Mio illustre Cubat, voi stesso sapete bene che è nel nostro reciproco interesse conservare una fluida rete di scambio commerciale e culturale".

    Oh, quanto avete ragione, mio saggio Serenissimo! esclamò Cubat con vigore tale da far sobbalzare alcuni ministri. Ma come certamente vi suggerirà la vostra grande competenza, trattati e accordi sono figli del loro tempo, legati esclusivamente a necessità contingenti. Gli individui e gli stati evolvono e si trovano di fronte nuove sfide e nuovi obiettivi. Non è possibile conservare una prospettiva permanente mentre il flusso della vita scorre senza posa. Bisogna adattarsi, cambiare, espandersi con il mutare dei tempi.

    Mi trovate completamente d’accordo, Vostra Eccellenza. Ma uno non può proprio espandersi in qualcosa che non è suo, disse Loredan, carezzandosi la folta barba ovale con il dorso della mano ed esaminando l’espressione del musulmano. Bisogna prendere in consi…

    Che non è suo?! Che non è suo?! la voce di Cubat cresceva d’intensità, rimbombando fra le pareti della Sala. Studiava il doge con attenzione, penetrandolo con uno sguardo minaccioso. Due mesi fa il vostro bailo² a Costantinopoli è stato convocato alla Porta dove gli è stato minuziosamente spiegato il perché l’isola di Cipro appartenga all’impero ottomano. Cipro un tempo era un feudo della Mecca! Qualsiasi territorio che un tempo abbia aderito alla Fede Islamica, anche se in seguito conquistato o convertito, fa parte automaticamente e indiscutibilmente del Califfato Islamico, che oggi è retto da Sua Maestà il sultano Selim II. Pertanto, è assolutamente naturale che il califfo voglia l’isola sotto la propria giurisdizione. Non vedo proprio la necessità di ulteriori chia rimenti.

    Oh, io non metto in dubbio il fatto che Cipro sia stata un tempo territorio musulmano – gli arabi l’hanno governata per trecento anni. Proprio come prima e dopo essa è stata parte dell’impero romano d’Oriente. Ma questo fu seicento anni fa. Voi sapete benissimo che Venezia non si è mai opposta ai commerci fra l’impero ottomano e quell’isola. Anzi, i vostri mercanti godono di speciali privilegi, privilegi che i nostri vicini europei possono solo sognarsi. Inoltre, vi assicuro che la nostra politica punta proprio ad alimentare questa relazione d’amicizia.

    Insignissimo Doge, la vostra benevolenza mi turba, disse Cubat con un gaio sorriso. Se questo atteggiamento è una sembianza artefatta che nasconde intenzioni opposte, dovrei stare in guardia. Ma, se state parlando per pura ingenuità, allora rimpiango di aver fatto questo faticoso viaggio a Venezia di persona quando avrei potuto benissimo mandare il mio sarto. Avrebbe risolto la questione con voi in un attimo.

    I membri del Collegio capirono che il doge aveva preso l’ultima battuta di Cubat come un’offesa personale. Loredan sapeva che si trattava di una provocazione. Sapeva che se avesse contrattaccato, avrebbe fornito al turco il pretesto di scatenare un profluvio di pesanti insulti nei confronti della Repubblica. Insulti che avrebbero mirato a compromettere i rapporti diplomatici fra Venezia e Costantinopoli. Come le passate esperienze avevano dimostrato, quando quei rapporti diplomatici erano stati tagliati, gli ottomani si erano scatenati in una furia distruttiva, devastando qualunque cosa gli capitasse fra le mani, prosciugando la Repubblica di risorse e di vite umane. Alla fine, solo la stanchezza avrebbe riportato i turchi al tavolo delle trattative. Perciò Loredan doveva trattenersi – fermo e inflessibile nella sua posizione, ma cortese e pacato nei toni. I canali diplomatici dovevano rimanere aperti in qualsiasi momento.

    Cubat attese la reazione di Loredan, scrutando le labbra screpolate del vecchio doge.

    Caro Cubat, mi piacerebbe poter prendere la situazione con la vostra stessa leggerezza, ma la nostra posizione riguardo alla questione è irremovibile.

    La prudenza di Loredan dispiacque a Cubat, che si augurava invece una ritorsione da parte sua. Sentì che i membri dell’assemblea si trattenevano a stento sui loro seggi, aspettandosi che lui esplodesse e facesse tremare il palazzo bombardandolo di ingiurie.

    Signori, capite che vi sto pregando per il vostro bene? Avete una vaga idea di ciò che succederebbe se il nostro esercito sbarcasse a Cipro? L’isola si trova a quasi tremila chilometri dal vostro arsenale, mentre le coste dell’Anatolia distano appena un centinaio di chilometri. Voi avrete al massimo trentamila soldati stanziati sull’isola, mentre noi potremmo mandarne centinaia e centinaia di migliaia. E, se non bastasse, potremmo mandarne altri centomila di rinforzo, e poi ancora e ancora e ancora. Sareste decimati nel giro di poche settimane. E di conseguenza la vostra Repubblica non potrebbe più beneficiare delle risorse dell’isola, né di quelle politiche, né di quelle commerciali. Se invece ci consegnerete pacificamente le chiavi dell’isola, potrete stare certi che nessuno si farà del male. Se la vostra gente vorrà tornare a Venezia, le nostre navi garantiranno che tutti arrivino in laguna sani e salvi. Chi invece sceglierà di rimanere sull’isola, potrà mantenere tutti i suoi beni e le sue proprietà e potrà professare liberamente la sua religione e tutti quei rapporti di amicizia di cui avete parlato saranno perpetuati all’infinito. Risparmiatevi questa tragedia, Signori. Risparmiate gli ottimi comandanti che avete al vostro servizio. Vi supplico: accettate il nostro ultimatum.

    Loredan guardò i funzionari attorno a sé. Vide solo volti sfigurati dall’esasperazione e dall’afflizione. I veneziani ora sapevano con sicurezza che Cubat non stava bluffando. Sapevano che aggrapparsi a Cipro era come sottoporsi a una tremenda ordalia, un’ordalia che gli sarebbe costata molto cara, sia finanziariamente, sia in termini di vite umane. E per di più, non vi era alcuna certezza che Venezia sarebbe riuscita a mantenere il controllo sull’isola, nemmeno se avesse impiegato il suo intero esercito per difenderla. Ma, d’altra parte, non potevano cedere alle richieste del musulmano. Gli ottomani erano insaziabili. Continuavano a inghiottire territori su territori – nei Balcani, nel Mediterraneo orientale. Se gli fosse stata concessa Cipro, presto o tardi avrebbero preteso anche Creta, e poi la Dalmazia settentrionale, e poi l’Istria. Sarebbero giunti fino ad Aquileia e, in men che non si dica, ce li saremmo trovati sul Lido. No, la decisione era già stata presa e i veneziani vi si sarebbero attenuti. Niente avrebbe fatto vacillare le loro convinzioni.

    Ambasciatore Cubat, vi siamo grati per il vostro interessamento e per averci mostrato, con molto garbo, i nostri svantaggi in un eventuale conflitto. Loredan parlava dignitosamente, con la massima compostezza. Ma sono costretto a ribadire che la Repubblica di Venezia non accetta il vostro ultimatum e non cederà l’isola di Cipro all’impero ottomano.

    Sul volto di Cubat apparve un sorriso ambiguo. Avrebbe certo preferito convincere i veneziani a cedere Cipro attraverso le arti diplomatiche. Il sultano gli aveva detto chiaramente che, per gli ottomani, ottenere l’isola in modo pacifico sarebbe stato molto più vantaggioso che conquistarla con la guerra. Avrebbero risparmiato denaro, tempo ed energie in modo da poter allestire una flotta per una futura spedizione ancora più ambiziosa. L’unica strategia che ora restava a Cubat era la minaccia di interrompere ogni rapporto diplomatico, nella speranza che, paventando le possibili conseguenze, i veneziani fossero costretti a rivedere la loro decisione. Per fare questo doveva ricorrere a toni violenti e aggressivi.

    Vi darò un’ultima possibilità, Signori. Sarà il mio ultimo tentativo di sistemare la faccenda con le parole. Se avrete l’impudenza di negarci Cipro, una terra che è, per storia e per spirito, parte del Califfato Ottomano…, la voce di Cubat si levò imperiosamente, se avrete il coraggio di provocare le nostre spade e mettere alla prova i nostri cannoni, vi assicuro che ciò che vi aspetterà sarà la devastazione più totale e umiliante. Vi affronteremo per terra e per mare con una determinazione che non avete mai visto né vi potete immaginare, con un impeto che non potrà essere contenuto o respinto, con una forza che si alimenterà solo di morte e distruzione. E non pensiate che le vostre ricchezze potranno salvarvi, perché le faremo defluire dalle vostre casse come torrenti di montagna. Questo è il potere della Profezia!

    Cubat si guardò attorno e vide i veneziani incassati nei loro seggi. La sua voce si era levata a un volume tale da far tintinnare i lampadari di vetro sopra di lui. Tutti erano immobili tranne il doge. Loredan si alzò maestosamente, avendo perfettamente compreso le intenzioni del turco. Guardò fisso negli occhi del suo interlocutore, sapendo che Cubat si attendeva l’ultima parola da lui e da nessun altro. Per un lunghissimo minuto le loro menti parvero rinchiuse nello stesso piano temporale e spaziale. I due uomini sembravano pensare e sentire sulla stessa lunghezza d’onda; e in quel momento Loredan disse con orgoglio:

    A nome dei membri del Collegio di fronte a me, a nome del governo e dell’intera popolazione della Serenissima Repubblica di Venezia, io dichiaro che noi difenderemo i nostri territori e i nostri diritti con onore. Non permetteremo a nessuno di pretendere, invadere e appropriarsi di qualcosa che è legittimamente nostro. E siamo certi che la giustizia ci darà la forza per farlo e che Dio e il nostro patrono San Marco saranno con noi per contrastare con la ragione la vostra brutalità e per sconfiggere con la forza d’animo la vostra ingiusta violenza.

    ‘Ingiusta’. Ecco la parola che Cubat aspettava. Ecco il pretesto che doveva usare per attaccare l’orgoglio nazionale dell’assemblea. Con questo attacco sarebbe finalmente arrivato a toccare i tendini più scoperti dei rapporti diplomatici e li avrebbe potuti fare a pezzi. Così i veneziani avrebbero visto l’inferno emergere dalla laguna e inghiottire il palazzo. E, inoltre, lui adorava dare spettacolo.

    ‘Ingiusta!’ ‘Ingiusta!!’ urlò il musulmano a pieni polmoni. La sua bocca sparava parole come un pezzo d’artiglieria. Osate dire che la Volontà del Profeta è ingiusta? Osate dire che la Fede Islamica è illegittima? Ma sapete a chi vi state rivolgendo? Vi rendete conto di chi sono io? Io rappresento il Califfo, il Signore e Protettore dell’Islam, il Propagatore della Profezia, il Messaggero di Allah! Allah il Compassionevole, Allah il Misericordioso!! Se noi avessimo voluto, avremmo potuto invadere e prenderci Cipro senza chiedervelo. Ma è prescritto dalla Sharia, la Legge Islamica, di concedere un ultimatum prima di qualunque attacco militare, di mostrare rispetto persino per i nostri avversari. Perciò, come osate dire che…

    Vostra Eccellenza, non ho mai detto che il Profeta sia ingiusto, cercò di interloquire Loredan.

    … che la Profezia debba essere sconfitta! Gli occhi di Cubat stavano per schizzargli fuori dalle orbite per la furia.

    Non ho detto nemmeno questo.

    "Onore?! Voi parlate di onore?! Il vostro onore. Ma quale onore ci avete mai mostrato? Negli ultimi due mesi non avete fatto altro che interrogare i mercanti ottomani, impossessandovi delle loro navi…"

    Questo perché voi avevate arrestato dei veneziani a Costantinopoli.

    Guardate come avete trattato me! Avete negato il permesso alla galea ambasciatoriale di attraccare davanti al Palazzo. Ho dovuto lasciarla al Lido e sono stato trasportato qui su una miserabile galeotta e spinto nel Palazzo da un’infima soldataglia.

    Volevamo che foste al sicuro, Vostra Eccellenza.

    E non è tutto. Mi avete fatto indossare un sudicio mantello perché avevate troppa paura che la gente mi vedesse. Ho accondisceso alle vostre richieste per sincero rispetto. Ho persino lasciato il mio attaché sulla galeotta poiché davvero volevo evitare che la vostra gente giungesse a conclusioni affrettate. Volevo davvero la pace.

    Vi prego di accettare le nostre scuse per qualunque inconveniente…

    Scuse?! Non è con me che dovete scusarvi! il suo tono era ormai folle. La metà della vostra popolazione è alla fame. Protestano perché non c’è più grano. E tutto quello che riuscite a pensare è di organizzare una mascherata. Non siete in grado di sfamare il vostro popolo e avete il terrore che i cittadini lo capiscano. Avete il terrore di affrontare la realtà. La vostra amministrazione è debole, inefficiente, egocentrica, corrotta, buona solo a mascherare i problemi dello stato con esibizioni di sfarzo e pretenziose cerimonie. Siete dei ruffiani! Siete la vergogna del Dio che fingete di pregare! Il vostro spirito è marcio e non potete più nascondervi sotto il velluto. Il lusso vi ha solo resi ignavi e ciechi. Oh, ma presto vedrete la lama ottomana penetrare il grasso che circonda la vostra laguna. Vedrete come penetreremo la vostra imperturbabile favola. Vi stroncheremo, vi sradicheremo e vi cancelleremo per sempre dalla faccia della terra. Nemmeno Attila si sarebbe mai sognato di fare ciò che faremo noi! Il vostro carnevale è FINITO!!

    Pronunciando l’ultima parola, Cubat batté con forza il piede destro sul pavimento lucido, facendo ritrarre molti ministri. D’un tratto estrasse dal caffettano una busta e la consegnò a Loredan. La parola ‘finito’ risuonava ancora nelle orecchie di tutti quando l’ottomano si allontanò dal palco e si diresse rapidamente verso l’uscita. Giunto a metà sala si fermò e, con mossa elegante, girò su se stesso e tornò a rivolgersi al doge.

    Attenderò la vostra risposta scritta al sultano sulla mia galea, Serenissimo Principe, disse con estrema calma, tornando alla consueta

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1