Le mani dell'assassino
Di Imam Tareq
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Anteprima del libro
Le mani dell'assassino - Imam Tareq
Note
Le mani dell’assassino
Tareq Imam
© Atmosphere libri 2016
Traduzione dall’arabo di Barbara Benini
In un Cairo spettrale, dall'atmosfera cupa e insolitamente piovosa, una metropoli sovrastata da grattacieli abbandonati e popolati da fantasmi, lungo strade affollate da storpi, prostitute e strani manichini animati, vive Salem, impiegato dell'Organismo Centrale per le Statistiche e la Mobilità Pubblica con il sacro compito
di collaborare al censimento. Salem, un vecchio di trent'anni
, uno dei discendenti dell'Eremita, capostipite di una stirpe di assassini che popolano la città, vive e rivive i fatti di sangue narrati nell'antico manoscritto ereditato dal suo avo e ne mette in pratica gli insegnamenti perpetrando i propri delitti con la mano destra, quella che lavora sodo
, affinché la sinistra, liscia, superba e amante del lusso
, possa completare la stesura del suo diwan
, la raccolta di poesie scritte con il sangue di ogni vittima.
a Faris Khidr
… si ritrassero pieni di paura e mi diedero il nome di Colpa
mi tennero per segno prodigioso; finché, familiare
piacqui e con grazie seducenti riuscii a vincere
anche i più avversi, soprattutto te, che spesso
riconoscendo in me la tua perfetta immagine
ti innamorasti; e tale gioia con me ti prendesti in segreto…
John Milton, Paradiso perduto[1]
… prendi quel che resta degli ultimi respiri
a niente val l’amore che serba gli animi vivi…
Ibn Al-Farid, Nella battaglia tra intelletto e passione
1
Il Cairo appare immenso, a chi non lo conosce. Solo gli assassini – per loro natura, necessariamente sognatori – si rendono conto che non è affatto così.
Ho sempre creduto che la storia degli omicidi abbia avuto inizio con un vecchio eremita, che viveva in un antro, sotto un cumulo di macerie, oltre quest’enorme edificio di vetro, ben visibile da ogni dove, simbolo della città fantasma.
Sono sulla terrazza del ventitreesimo piano. Fermo, in piedi, osservo il mattino indugiare dietro i vetri degli altri edifici, il volto ancora nascosto, in cerca dei propri resti, nelle case all’orizzonte. A ogni istante piccoli aquiloni si schiantano, accartocciandosi, sulle vetrate della facciata. Minuscole orribili bare, alla rincorsa di una brezza lontana. Per un attimo restano attaccate al vetro, poi ricadono giù, trascinate via da un invisibile filo, nella mano di un dio sleale.
*
L’Eremita non aveva barba, così come chiunque cui sia apparso, in sogno, il volto di Dio: era a conoscenza delle vie più brevi per avvicinarsi a Lui.
Al lobo sinistro portava un serpente alato di metallo, che gli scendeva fin quasi a toccare la spalla. Al posto dell’altro orecchio che, improvvisamente, gli era caduto, consumato dal continuo origliare attraverso le camere chiuse della città, aveva messo un brano di stoffa.
I ratti gli saltavano in grembo, a divorare i resti del pasto e briciole di pane, abituati com’erano a quella mano santa che gli carezzava il pelo rado, lasciando scorrere tra le dita la sfuggente, lunga, serpeggiante coda. E anche se da quelle minuscole narici colavano gocce di sangue, che andavano a raggrumarsi sulla gallabiya[2], egli non temeva affatto il contagio della peste.
E non erano solo i topi a condividere le sue mattinate: le formiche uscivano dai loro nidi; le lucertole si allungavano sui muri e dalla finestrella aperta, nella parete cui poggiava la schiena, entravano gli avvoltoi, a smuovere l’aria insufficiente, a presagirgli una morte imminente, o ad avvisarlo del fetore di un ennesimo cadavere di cui, immerso com’era nei sogni della propria veglia, non s’era ancora accorto.
Spesso infilava la testa in quella feritoia irregolare, fatta a misura, tanto da trovare difficoltà a rientrare, credendo per un attimo – ma senza alcun vero timore – di rimanere così, affacciato sulla vita, mentre il resto del corpo, all’interno, sarebbe inesorabilmente invecchiato.
Osservava la città trasformarsi, non esser più quella che i suoi piedi avevano calpestato, oltre mille anni addietro. Gli era apparsa, quando arrivò scalzo, sotto un sole cocente, simile a un grande monastero disabitato, dove non si aveva da peccare, per essere puniti. Gli abitanti deperivano all’improvviso e ogni nuovo giorno sorgeva, ai bordi di un’ennesima fossa, la terra sempre pronta a ricevere un altro cadavere, da aggiungere alla lista degli spiriti che avvolgevano la città. Ciò nonostante, continuavano a sorridere.
Quando ebbero terminato di trasferire tutti i cadaveri in un luogo appartato, questi presero a muoversi come pedine di un enigmatico gioco ed egli, scrutando dall’alto le file ordinate di case basse – esattamente come faccio io ora, ne sono certo – mosse il palmo della mano, come a salutare un viaggiatore che non sarebbe mai più tornato.
Ogni mattina allungava le dita nodose e affusolate verso un enorme tomo, Il Libro dell’Amor Segreto, e chiunque, durante una visita, avesse sbirciato timidamente quel volume – mentre le lacrime del vecchio affondavano nella sua gallabiya sdrucita – avrebbe creduto si trattasse di un testo sacro.
C’erano momenti ancor più segreti, in quelle mattinate, quando si chiudeva dentro la propria piccola stanza come un despota che, senza intermediari, con un semplice scatto d’ira verso il cielo, s’appronta a distruggere le colonne del Tempio e tutta la città e il mondo intero. In quei momenti ordinava ai topi di allontanarsi; al furtivo raggio di luce, che violava il suo testamento, di spegnersi. Con uno sguardo mummificava i rettili sul muro, trasformava le formiche in fuga in piccoli inanimati punti neri e solo dopo aver raggiunto la completa estinzione del sé nell’unità dell’universo, prendeva a sfogliare le pagine del sacro testo.
Tastava petali di rose appassite e fragili farfalle il cui cartiglio, recante la data di cattura, bastava un sospiro a far volar via.
Spesso vedeva le immagini dei suoi sogni infrante sulle rocce del risveglio: come la ragazza snella che, simile a uno spettro, passava nella sua camera da letto, lasciandogli una rosa rossa sotto il guanciale – mentre i sogni di lui, per il lieve movimento della testa, s’ingarbugliavano. Allora allungava le dita, attento a non ferirsi con le spine, a non svegliarsi troppo bruscamente. Infine si destava, per scoprire che quei petali rossi, aperti sotto il cuscino, altro non erano che resti di saliva e sangue. Sperava che quella sua bava fosse avvelenata, perché voleva la certezza – qualora avesse baciato una donna– d’essere lui il proprietario delle ultime labbra da lei assaporate. Eppure s’interrogava: «E se invece fossi io a inghiottire il veleno? In cambio di un sacro mio bacio, costei non spenderebbe che poche lacrime».
Continuò così a immaginare battaglie in cui non s’era mai gettato e a guardarsi da persone che non aveva mai incontrato; la sua familiarità con le mura che lo circondavano arrivò a un tale grado di confidenza che un semplice suo sguardo bastava a spostarne le pareti, ad abbatterle completamente, nelle notti in cui, come un sonnambulo, si trascinava con il sacro tomo tra i volti della città in cerca della donna dei suoi prossimi sogni.
*
Quell’uomo lasciò i propri sacri scritti di sangue, il suo libro che un giorno pensò essere segreto. Lasciò ugualmente, agli angoli della città, una copiosa discendenza: figli e nipoti con impresso il suo volto, i suoi occhi chiari e la sua stessa voce roca. Assassini solitari, immersi in sogni pericolosi che, come lui, non vedono il volto di Dio se non a occhi chiusi.
E io ho sempre saputo – senza alcun dubbio – di essere uno di loro.
2
Quando Gaber passa a trovare il calzolaio Leyl, come al solito, gli lascia la sua gamba artificiale e se ne torna a casa, appoggiandosi al bastone.
È questa gamba sinistra