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La stazione ferroviaria di Priverno Fossanova
La stazione ferroviaria di Priverno Fossanova
La stazione ferroviaria di Priverno Fossanova
E-book371 pagine5 ore

La stazione ferroviaria di Priverno Fossanova

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Info su questo ebook

Anno del Signore 1860. Roma, Palazzo del Quirinale.
Papa Pio IX invia un noto geologo all’Abbazia di Fossanova per valutare la possibilità di portare la ferrovia in quel luogo isolato e sperduto fra le paludi pontine.
Ma il geologo scompare…
È persona illustre: la sua scomparsa non può essere ignorata.
Il Papa incarica delle indagini il Capo del suo personale Servizio Segreto, il sagace e temuto Ispettore Martin Della Sassetta.
In una calda mattinata di settembre, in mezzo a un nugolo di insetti, Martin Della Sassetta e il suo scudiero piombano sull’Abbazia di Fossanova e sulla comunità di sedicenti frati che ivi vivono.
L’indagine stravolge l’incauta pace della comunità fratina e insieme sconvolge la sicurezza di sé dello stesso Ispettore.
Nel romanzo si intrecciano alla mefitica e iridescente bellezza delle paludi pontine le opulente feste nei palazzi romani, gli intrighi segreti di una Città inquieta e maltrattata, i ricordi della tragica fine della Repubblica Romana e dell’avventurosa fuga di Pio IX da Roma.
Sulla verde e ubertosa pianura pontina, circondata dal fluttuante profilo dei monti Lepini, si solleva una rotonda collina, sulla quale oggi passa la ferrovia, con la elegante stazione di Priverno-Fossanova.
LinguaItaliano
Data di uscita10 mar 2015
ISBN9788868271176
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    Anteprima del libro

    La stazione ferroviaria di Priverno Fossanova - Maria Teresa Borsò

    aiutato.

    Premessa

    Un Settembre del 1999. Stazione ferroviaria di Priverno Fossanova

    Sull’ondulata e dolce pianura laziale, la piccola collina si sollevava morbida e verde e all’apice di essa sorgeva la stazione ferroviaria di Priverno-Fossanova, una piccola stazione perduta nella campagna laziale.

    Alma scese dal treno e si fermò sul marciapiede, tra un binario e l’altro, e guardò davanti a sé gli edifici della stazione ferroviaria, così essenziale e adatta alla terra che la circondava. Quella piccola stazione le piaceva moltissimo. Mentre, ritta e ferma, si guardava intorno, pensò, come già altre volte aveva fatto, che quel luogo era un regalo di bel garbo per coloro che scendevano dal treno.

    Si lasciò andare a pensare come poteva essere lì quella morbida collina quando tutta la terra intorno annegava sotto l’acqua putrida delle paludi.

    Come era quel luogo centocinquant’anni prima?

    Parte Prima

    Colloqui Romani

    1. L’istrice e il cane

    Pio IX riceve il geologo Camillo De Serrante.

    Nella calura del mattino, la luce quasi bianca del giorno rendeva opache le erbe verdi e gialle che ricoprivano quella collina, così diversa dalla palude circostante.

    Quel minuscolo pezzo di terra sopraelevato era riarso e assetato in quell’ora. Spiccavano ovunque ciuffi di macchia cespugliosa di verde vivo e cupo, tipicamente mediterraneo, ma ricoperti di una polvere terrosa lieve che ne appannava lo splendore. Qua e là nella zona si ergevano alberi alti, verdi e forti, isole di colore diverso, che spiccavano nel cielo intorno a loro quasi azzurro.

    Tutto era caldo e secco ma poco lontano, dai piedi della collina fino ai monti Lepini all’orizzonte, una caligine solida biancastra si adagiava pesantemente sul suolo, là dove la palude marciva.

    Su quel terreno aspro e ondulato un sentiero sassoso e polveroso divideva cespugli, arbusti ed erbacce. Un istrice arrancava seguendo una linea longitudinale da una parte all’altra di quel sentiero diretto chissà dove e chissà perché, spinto da non si sa cosa. Zampettava tentando di essere veloce nei limiti delle sue possibilità, gli aculei grigi appiattiti sul corpo e appena luminosi al sole.

    Come spesso avviene nella vita, improvviso e inaspettato, da un cespuglio vicino saltò fuori urlando il pericolo, sotto le forme sgraziate di un cagnaccio rognoso e combattivo, i cui fianchi assottigliati quasi alla spina dorsale dimostravano il travaglio della fame. Il cagnaccio, tra un abbaio furioso con la gola alzata e un ringhio stridulo con la testa abbassata e il naso pronto a cogliere l’odore, saltò davanti all’istrice. Era un cagnaccio vecchio e probabilmente esperto perché si fermò selvaggio a una salutare distanza dalla bestia spinosa. L’istrice si era fermato, aveva drizzato tutti i suoi aghi e si era rattrappito su se stesso a palla. Il cane cominciò a girargli intorno sempre a prudenziale distanza, abbaiando e ringhiando e ogni tanto girando vorticosamente su se stesso, quasi impazzito, tra la fame e la gioia della caccia.

    Questo feroce giochetto della natura durava da alcuni minuti senza soluzione, ma l’istrice comunque doveva andare. Si allungò e cominciò a muovere alcuni passi veloce, pronto a rattrappirsi. Quando il cane si accorse che gli aculei si erano appiattiti, smise di ringhiare e si distese ventre a terra piegando le zampe, gli occhi pieni di fuoco crudele. Nell’insorto silenzio l’istrice, seppur non rassicurato, continuò ad avanzare ma nel così fare esibì l’addome. L’esperto cacciatore che gli si trovava di fronte non perse il colpo: allungò la zampa e rovesciò l’istrice sul dorso. La bestiola non fece in tempo a rotolare e ad appallottolarsi, che l’astuto cacciatore gli fu sopra, gli piantò i denti nel morbido addome palpitante e golosamente succhiò il sangue. Il cacciatore sapeva che l’istrice non era morto e che non doveva correre rischi e quindi si accontentò di succhiare, poi con sveltezza aprì i denti, tirò indietro il muso e se la diede a gambe.

    L’istrice agonizzante era rimasto nella polvere, con l’addome aperto e le budella di fuori. E così, agonizzante e vivo, aspettò che le formiche, gli scarafaggi e i bruchi lo scarnificassero in mezzo al sentiero polveroso.

    Nel mattino estivo le grandi sale del Quirinale, pur protette dalle spesse mura, dai tendaggi e dai tappeti, alitavano di calura. Valletti e vallettini, avvolti in divise ricciolute e dorate ma un po’ fruste, avevano di sala in sala accompagnato il giovane gentiluomo fino all’anticamera dello studio papale, come al solito piena di uomini, aristocratici e non, e di guardie svizzere.

    Il giovane era alto, sottile ma robusto e ben fatto, con capelli castani ondulati sulle orecchie, con basette di modeste proporzioni, piccoli baffetti e guance rasate. La gran cravatta morbida a fiocco dimostrava quello che era: uno studioso, ma complessivamente il vestiario era da cerimonia, poiché il giovane Camillo, della famiglia dei Conti De Serrante, terzogenito e geologo, quella mattina aveva ricevuto l’onore di essere chiamato da Sua Santità e puntuale eseguiva l’ordine.

    Qui si vide venire incontro il Segretario Privatissimo di Sua Santità, uomo in età, dall’andatura lievemente sospinta in avanti, quasi in un perenne inchino, capelli scuri e radi su una faccia pallida, gli occhi accuratamente rivolti verso terra, le mani intrecciate sul petto. Tutta questa sottomissione del Segretario Privatissimo era smentita da un passo fluttuante e veloce che faceva sventolare la tonaca di qua e di là, dando al prete un’andatura ambigua.

    Costui con un cenno indicò al giovane Camillo di seguirlo e giunto alla porta dello studio privato di Sua Santità la spalancò. Passò avanti al giovane e con un rigiro su se stesso lo fece accomodare mentre profondamente si inchinava al Papa Pio IX. Camillo quasi scoppiò a ridere e rimase molto più impressionato dagli svolazzi del Segretario Privatissimo non austeramente intimidito dalla presenza di Sua Santità.

    Dietro un’ampia scrivania di splendente rococò stanziava, su una sedia cremisi e oro, sempre rococò, la pesante figura del Papa Pio IX vestito di bianco. Sul corpo grasso nascosto dalla tonaca si ergeva una gran testa, coperta dal cappelletto bianco da cui sfuggivano capelli bianco ferrigni brutti e ispidi e ai lati due orecchie di proporzioni notevoli. Sporgeva davanti alle brutte orecchie un viso altrettanto brutto e pesante, il cui unico elemento luminoso era una fronte molto alta, non si capiva bene se per natura o per calvizie. Sotto di essa, le sopracciglia di colore analogo ai capelli e sfumate verso le tempie, coprivano a malapena due occhi nascosti da palpebre pesanti che lasciavano scoperte solo l’acuto fulgore delle iridi chiare. Tra di essi sporgeva un naso grosso e lungo. Le guance floride, lucide di grasso, ricoperte da una barba nera ben rasata circondavano come due cuscini una bocca non abbastanza grande per quel volto, dalle labbra piatte e sottili, lievemente cascanti. Il mento spariva tra le guance e il collo. Quel volto totalmente privo di dolcezza, al contrario dei famosi ritratti, esprimeva soprattutto astuzia e diffidenza.

    La voce argentina del Privatissimo Segretario declamò: «Santità, è qui presente il signor Camillo della famiglia dei Conti De Serrante, professore geologo, dalla Vostra Santità chiamato a consulto».

    Il Papa si sporse in avanti e sollevò gli angoli della bocca in un sorriso, mentre lo sguardo acuto diveniva indagatore. «Alzatevi professore e venite avanti» disse con una strana voce bassa, quasi dolce e invischiante.

    Il professore geologo, che era arrivato quasi col ginocchio a terra, si rialzò e, spedito, avanzò verso la scrivania, mormorando: «Vostra Santità, sono ai vostri ordini».

    Il Papa, lasciando una mano in grembo, appoggiò il gomito destro sulla scrivania e con l’indice, indicando prima il giovine, gli disse: «Sedetevi» e poi, con un gesto sprezzante quasi a scatto dell’indice, indicò al Segretario Privatissimo di uscire. Inchino, giravolta, svolazzìo di tonache e il Segretario Privatissimo, con aria sottomessa, uscì e chiuse la porta. Camillo ormai, divertito dagli svolazzi del povero prete, aveva perso qualunque soggezione di fronte al severo atteggiamento papalino.

    A onor del vero il giovane Camillo, per quanto sicuramente appoggiato e raccomandato, aveva studiato molto brillantemente sia in Italia che in Austria interessandosi soprattutto di bonifiche e di linee ferroviarie ed era tra i più importanti studiosi del campo che esistevano allora nell’Europa occidentale. Avvezzo alla vita all’aria aperta, al contatto con le difficoltà della natura, ai capricci metereologici e vivendo in un continuo pensare a cui seguiva un efficace realizzare, aveva una ben scarsa opinione dei suoi simili e una opinione assolutamente irriverente nei confronti del Papa, che disprezzava sia come portatore della trascendenza, che come portatore della civiltà e della giustizia, per non parlare del progresso. Camillo era tra quelli che considerava Pio IX e il suo liberalismo una vera patacca e il Papa e l’uomo un vero disastro per gli altri esseri umani. Si guardava bene, però, dal comunicare ufficialmente, in privato e in pubblico, questa sua idea. Rimaneva per tutti un bel giovane molto colto e capace ma anche molto distratto e avvolto soprattutto nei fumi della sua scienza. Era quasi sempre silenzioso, fatto salvo quando andava a caccia con i contadini e i dipendenti di suo padre con i quali, finalmente, si lasciava andare, facendosi matte risate e belle bevute; era un cacciatore mediocre, poiché non gli piaceva uccidere, ma appassionato. Sedette compunto e attese con gli occhi bassi.

    «Professore» cominciò il Papa con la sua voce mielata, «come sta il vostro onorevole signor padre, nostro carissimo amico?»

    «Santità» rispose il giovane con voce ferma e chiara, «il mio signor padre sta benissimo e invia i suoi più rispettosi e ossequiosi saluti confidando sempre di poter meritare l’amicizia di vostra Santità».

    Sul volto astuto del Papa passò l’ombra di un sorriso sorpreso: la piaggeria del giovanotto, pur riconoscendola, non gli dispiaceva soprattutto perché era detta in un tono garbato, disinvolto e per niente adulatorio.

    «Bene» disse sua Santità, «lo terremo come sempre nel nostro cuore. E adesso veniamo subito alla ragione per cui vi abbiamo chiamato. Sappiamo dei vostri grandi successi nello studio e poiché vi sappiamo appartenente a nobile famiglia e molto fidata e sappiamo voi essere uomo di assoluta lealtà e di grande riservatezza, oltre che di profonda scienza, vi vogliamo parlare di un nostro problema». Il Papa si mise una mano sulla fronte a coprire un attimo lo sguardo e quasi a dimostrare il peso di un pensiero amaro.

    «Vostra Santità, avrà in me un servo sicuro e leale così come mio padre lo è e può garantire per me». La frase fu detta con tono dignitoso ma con un lieve affanno, come se il giovane fosse colpito dall’improvviso onore, che gli capitava, di ascoltare una confidenza papale.

    Il Papa sentì quell’affanno e, soddisfatto di tanta incertezza, si scoprì la fronte, il volto flaccido ebbe un irrigidimento quasi anche della pelle e divenne il volto di un uomo attento a svolgere con fermezza e sicurezza un Affare di Stato. Il volto di un politico accorto.

    «Veniamo al dunque» il Papa si fermò un attimo a raccogliere i pensieri e a trovare una via per poterli esprimere, «sappiamo che vi intendete e vi interessate di ferrovie. Noi vorremmo da voi che svolgeste il vostro assennato lavoro per vedere se è possibile costruire una stazione ferroviaria all’altezza dell’abbazia di Fossanova ai piedi dei monti Lepini, che è di nostra competenza. Noi pensiamo che sia possibile farlo».

    «È possibile Santità, sicuramente è possibile costruire una stazione. Ma una stazione prevede una ferrovia e il luogo dove si costruisce la stazione deve essere tale da permettere anche di costruire una ferrovia». Il tono del giovane era adesso sicuro e parlò con la calma sicurezza di chi si esprime con competenza sul proprio lavoro.

    «Sì» disse il Papa, «comprendiamo. La ferrovia sarà un nostro compito e successivo alla vostra indagine. Dobbiamo rivelare assolutamente a questo punto una parte del nostro problema con la certezza che rimarrà un segreto tra noi e voi».

    «Certezza data, Santità, e io prego vostra Santità di non spingermi a fare giuramenti poiché la mia lealtà non ne abbisogna». Il giovane esprimeva ancora dignità e fierezza. Dentro di sé il Papa decise che lo avrebbe sottoposto a una prova, ma non ancora, non in questo momento.

    «Molto bene» la voce mielata aveva adesso toni secchi e taglienti e il Papa continuò: «L’abbazia di Fossanova, di cui avrete sentito sicuramente parlare, è guidata in questo momento da un gruppo di frati cistercensi. L’abbazia vive un momento di assoluta miseria e abbiamo molta paura che questa miseria non sia solo materiale. I nostri tentativi di essere invitati e di onorare questa abbazia sono stati fino ad ora respinti con molta testimonianza di ossequio ma anche con molta fermezza adducendo scuse variate che andavano dalla presenza di malattie contagiose alla totale impossibilità di ospitare adeguatamente la nostra sacra persona. Abbiamo inviato numerosi messi, cioè quattro cinque volte, ma le risposte furono sempre negative ed essi riportarono la verità di alcuni pretesti quali il miserando stato dell’abbazia, ma anche il vago sospetto che qualcosa nella comunità non funzionasse. E tutti i messaggeri riferirono di un intenso puzzo che superava il puzzo tipico delle paludi. Per intenderci, puzzo di merda». Il Papa si fermò: era questa la prima trappola. La brutta parola era piombata all’interno di un discorso impostato in modo severo e autorevole. Il lieve accento marchigiano, presente tutt’ora nel nobile linguaggio papalino, si era incrementato come un colpo di schioppo nel dir la parola. Ma la trappola non funzionò e il giovanotto scoppiò a ridere.

    «Santità, la palude puzza anche di merda, se vostra Santità mi concede di ripetere una brutta parola, ma così efficace e descrittiva di cui, in questo caso, non si può fare a meno». Il giovane non era intrepido, ma era semplicemente rilassato e parlava ora come se fosse ad una riunione di professori universitari suoi pari, o di imprenditori o di proprietari.

    Il Papa sorrise di questo atteggiamento sciolto e sicuro ma così poco convenzionale. «Lasciate che siamo noi a decidere la pesantezza del linguaggio, noi (e calcò sul noi) ce lo possiamo permettere».

    Il rimprovero, mitigato da un lieve sorriso, punse sul vivo il giovane, che abbassò il capo in un assenso silenzioso e disse con voce di nuovo calma e anodina: «Avete ragione Santità, perdonatemi». Ma lo sguardo continuava ad essere di tranquilla attesa.

    Il Papa ridacchiò e accantonò con una certa soddisfazione la sua prima sconfitta: il giovane gli piaceva. Ma era Papa e marchigiano e duttile e abituato alla doppiezza, alla viltà e alla crudeltà e soprattutto alla mancanza di scrupoli. Infatti, anche se il giovane gli stava simpatico, era lì per rendergli un servizio, un servizio come lo voleva lui, lui il Papa.

    «Molto bene, vedo che ci capiamo e allora lasciate che finiamo il nostro discorso. Abbiamo assoluto bisogno di creare un collegamento tra l’abbazia e il mondo esterno, affinché l’abbazia stessa possa essere più frequentata, quindi più esposta agli occhi di tutti e quindi meno misteriosa. Il puzzo dell’abbazia ci inquieta ma dobbiamo anche dire che vogliamo che l’abbazia diventi più ricca e che sul suo sagrato arrivino più facilmente merci e mercanti e quivi venga attratto il popolo, che può commerciare e fare offerte. Vogliamo che sul sagrato antistante l’abbazia ci siano banchi e banchetti dove commercianti esperti possano vendere e comprare greggi e mandrie, carni e pelli, granaglie e piante. Noi vogliamo insomma che questi ricchi commercianti arrivino sul sagrato e partano carichi di soldi. E soprattutto che lascino all’abbazia cospicue offerte per la vita eterna e a quest’ultima parte vogliamo che si adattino e si rendano ottimi stimolatori i frati cistercensi».

    Il Papa, con un profondo respiro come sua abitudine e appoggiando il gomito sul tavolo, portò la mano destra alla fronte. Il giovane Camillo rimase a guardarlo in tranquilla attesa. Infatti era nella felice condizione di aspettare un lavoro interessante, soddisfatto di vederselo assegnare ma contemporaneamente consapevole che, se non fosse arrivato quel lavoro, ne sarebbe arrivato un altro. Il suo compito era soltanto di stare molto attento a non creare attriti e a non indispettire un committente così potente. Era ovvio per Camillo che qualunque suo comportamento sgradevole si sarebbe ripercosso non solo su di lui, ma anche sulla sua famiglia: il padre infatti lo aveva inviato a questo colloquio avvertendolo che poteva essere molto positivo e fortunato per Camillo stesso, ma che ci poteva anche essere il rischio che fosse negativo e quindi molto sfortunato per tutta la famiglia. Ma Camillo, avvezzo a pensare in metri quadri, metri lineari, punti e frazioni non era propenso a farsi invischiare in beghe politiche ed era sufficientemente sveglio d’ingegno e peraltro abituato ai potenti da sapersi districare con pacata indifferenza. Pio IX aveva capito l’uomo, lo voleva al suo servizio, ma si era accorto che se voleva proprio lui non doveva agire con spregiudicata prepotenza né con sottigliezze da pretonzolo. Se voleva un buon tecnico come quello doveva, per forza, comportarsi senza sopraffazione. Tolse la mano dalla fronte, guardò il giovane e proseguì con una certa solennità: «Vedete, egregio professore, se è importante che l’abbazia apra le sue porte al mondo esterno per poter provvedere a se stessa, è importante anche che le apra al cuore dei suoi fedeli. In altre parole, la chiesa dell’abbazia deve essere aperta a quei poveri infelici che cercano il conforto di Nostro Signore. E può essere che i frati abbiano dimenticato questo lato del loro dovere, certamente perché afflitti dalla loro misera vita». Il Papa si fermò e guardò di nuovo con quei suoi occhi affossati nelle palpebre e un po’ acquosi, ma attenti, il giovane.

    Camillo curvò la testa in un inchino e rispose, asciutto: «Santità, ho capito perfettamente il problema e le ragioni di vostra Santità e sono a disposizione per andare a vedere sul posto che cosa si può fare».

    Il geologo aveva rialzato la testa e mostrava il volto sereno e disteso di chi sta pensando al suo lavoro con grande concentrazione: «Si può vedere se i luoghi consentono il progresso di una ferrovia e se la stazione può essere supportata da piccoli paesi vicini. Se non sbaglio, Priverno è uno di questi e potrebbe fare al caso».

    «Bene» disse Sua Santità, «occupatevene nel modo migliore e con alacrità. Abbiamo bisogno di una risposta al più presto». Il Papa si appoggiò allo schienale e tirò un sospiro di sollievo, poi il suo volto si distese in un dolce sorriso lievemente insinuante: «Siete veramente un bravo giovane come mi diceva vostro padre» la voce cambiò di nuovo e divenne pastosa e dolce insieme «e siete anche prestante…» Il Papa, che aveva lasciato abbandonato sul tavolo l’avambraccio destro, aprì la mano a palmo in su in un gesto invitante, quasi volesse attirarlo a sé. Camillo lo guardò dritto in faccia, si fece pallido, si tirò indietro, eretto contro lo schienale della sedia, sui braccioli della quale serrò le mani, le labbra tirate sui denti in un sorriso duro e silenzioso. Tutto l’atteggiamento esprimeva un secco rifiuto.

    «Sono lieto dell’approvazione della vostra Santità e mi auguro di poter eseguire il lavoro secondo i vostri ordini. Cercherò di essere di ritorno, se vostra Santità è d’accordo, in una settimana, al massimo dieci giorni. Partirò domani mattina».

    Il Papa abbandonò la mano sul tavolo, il suo sorriso scomparve e fece un gesto di approvazione con la testa. La seconda trappola era scattata a vuoto e il Papa era soddisfatto: «Vi ordiniamo allora di partire e vi attendiamo al massimo entro dieci giorni. Portateci buone risposte e che Dio vi accompagni». Scosse un campanello d’argento, poi fece un gesto di congedo con la mano e con la testa al giovane che si era alzato e che inchinandosi profondamente retrocedeva verso la porta. Questa si aperse, lasciando passare il fluttuar di tonache e le giravolte del Segretario Privatissimo, il quale, afferrato il giovane geologo per un braccio, lo tirò decisamente indietro fuori della porta, che richiuse delicatamente dietro di loro.

    Camillo De Serrante andò quindi al palazzotto di suo padre e ottenne subito di parlare con lui per chiedergli il permesso di poter usare una delle carrozze paterne e di farsi accompagnare dagli uomini di scorta, da un cocchiere e da un cameriere personale. Tale richiesta aveva un grave difetto per il conte De Serrante: tutti quegli uomini e il mezzo di trasporto erano suoi e al suo soldo, e francamente lui aveva forti esitazioni a darli al figlio. Queste forti esitazioni erano legate prima di tutto al fatto che il nobile De Serrante, sperperatore assiduo, era molto tirchio con gli altri, anche con i figli, e poiché era lui che doveva pagare il tutto, era restio a concederlo per un lungo periodo.

    «Ma Sua Santità ve lo ha dato il denaro?»

    Camillo rispose con voce malsicura: «Ma… veramente, no… veramente… non gliel’ho chiesto».

    «Ma che balordo che siete» disse il conte stizzito, «sapete perfettamente che Sua Santità o vi paga prima o non vi paga mai!»

    «Mi era sembrato… dato l’onore che mi veniva fatto… di esser mio dovere attendere il pagamento a cose fatte».

    Il conte era sempre più stizzito e finalmente, dando sfogo alla sua rabbia nel rivolgersi col tu a suo figlio, esclamò: «Ma cosa ti credi? Che Pio IX sia Maria Teresa D’Austria? Quel cane di un marchigiano i soldi non te li darà mai e tanto meno te li darà se il parere che gli riporti non è di suo gradimento! Vedrai, vedrai, gran coglione che sei!»

    Camillo arrossì di rabbia e di umiliazione e rispose con voce dura e severa: «Signor padre, io vado per un’opera di studio e di intelligenza e non a sperperare denaro come fa quel mio fratello che milita in un esercito straniero. A lui voi il denaro lo date senza discutere, e adesso, coglione o non coglione, lo date anche a me, oppure scriverò una breve missiva al Papa spiegandogli che non posso andare a compiere il mio dovere poiché mio padre non mi fornisce adeguati mezzi!» La voce di Camillo non si era elevata, ma era ferma, fredda e minacciosa: lui conosceva suo padre e sapeva che di fronte alla sua fermezza e alla sua cultura il carattere iracondo dell’uomo si sfasciava vigliaccamente.

    Infatti il conte, furibondo, si sentì bloccato dalla minaccia, non ebbe più il coraggio di opporsi al figlio ma, sfogandosi nell’alzare la voce, serrò i pugni e tuonò: «Vai, vai, canaglia di un intellettuale, piglia quello che ti serve, però rimanda tutto entro quattro giorni e di corsa, oppure ti mando dietro i miei soldati». Sputava dal furore e Camillo, parzialmente soddisfatto per aver ottenuto quello che voleva e per aver riportato una vittoria sprezzante sul padre, girò sui tacchi e se ne andò. Scese rapidamente nelle stalle e diede gli ordini per essere pronto a partire il mattino dopo.

    La mattina di quattro giorni dopo Camillo seguiva a dorso di un bel cavallo un polveroso e sassoso sentiero attraverso la campagna laziale, in quel punto sollevata su una collinetta, e asciutta e secca. I suoi abiti erano lussuosi ma campagnoli, lucenti stivali gialli, calzoni di fustagno e una bella giacca di velluto marrone alla cacciatora, fornita di una quantità di tasche e tasconi e abbottonata da bottoni di cuoio. Un cappello di paglia a tesa larga, con una piuma, lo difendeva dalla calura estiva. Era seguito da un contadino che gli faceva da guida, avvolto in panni ruvidi, dal volto rozzo e malaticcio, che gli veniva dietro seduto su un mulo, quanto era stato possibile trovare ora sul luogo dopo aver rimandato al padre il comodo equipaggio. Camillo si fermò e scese a terra mentre il suo compagno lo guardava indolente. Il giovane geologo cominciò a seguire il sentiero e a guardarsi intorno con attenzione mentre con un bastone puntuto rivoltava i sassi che lo circondavano e picchiava sul terreno. Avanzò per qualche minuto e si fermò di botto. Un grosso istrice morto giaceva in mezzo al sentiero, con gli aculei privi di splendore appiattiti sulla povera carcassa, che formiche, scarafaggi e lombrichi stavano divorando. Camillo rimase disgustato da una visione così macabra e col bastone appuntito infilzò la carcassa dell’istrice e la cacciò via dal sentiero. E così fu che l’istrice compì finalmente e velocemente il suo travagliato viaggio, piombando sotto quel folto cespuglio, che aveva affannosamente tentato di raggiungere negli ultimi tratti della sua rischiosa vita. Quel che le sue zampette affaticate non avevano potuto compiere, lo avevano compiuto con rapidità una punta di ferro e un’energia potente al di fuori di lui, quasi un presagio di ferrovia. Il geologo chiamò il suo assistente e si fece portare un lungo bastone centimetrato, lo ficcò nella terra e vi martellò sopra per spingerlo il più profondamente possibile. Però riuscì a conquistare solo una scarsa quantità di centimetri. La terra era dura e solida. Il contadino guardava quell’operazione senza capire: l’aveva veduta ripetere, infatti, numerosissime volte dal geologo. Aveva guardato, non aveva domandato perché né gli erano state date spiegazioni: così il contadino non sapeva e non avrebbe mai saputo quello che avveniva sotto i suoi occhi.

    Il geologo riconsegnò il lungo bastone e il martello al suo accompagnatore e, accennando nella direzione dei monti Lepini, disse: «Andiamo di là»: aveva intravisto l’abbazia in mezzo alla foschia della palude e si avviò in quella direzione.

    2. L’Ispettore Martin Della Sassetta e sua udienza con Pio IX.

    La grande calura di luglio si era protratta a lungo, né i primi temporali di agosto l’avevano mitigata. Il caldo pesava sulla città di Roma esalando suffumigi puteolenti dalle fognature aperte e stremando i cittadini. I romani di tutte le classi sociali non avevano il bernoccolo della pulizia e men che meno dell’igiene. Anche nei grandi palazzi la sporcizia era dovunque e sotto i più nobili panni brulicavano pulci e pidocchi. In quel coacervo di ricchi e poveri le più pulite erano le puttane.

    Il caldo premeva anche sul grande e fastoso palazzo del Quirinale e faceva imputridire la pelle delle sentinelle sotto i panni pesanti. Alle tre del pomeriggio la città era sonnolenta e annichilita.

    Le sale del Quirinale erano tenute in ombra, ma nel tentativo di allontanare i raggi solari, si chiudevano i pesanti tendaggi cosicché l’aria immobile addensava il calore, rendendo altrettanto difficile che all’esterno, la vita del palazzo. Le mosche ronzavano un po’ dovunque e rompevano il sacrale silenzio, diminuendo di numero man mano che le sale si avvicinavano allo studio papale.

    In questa aria pesta e silente scoccarono i passi secchi e asciutti delle calzature militari dell’uomo che, in divisa da ufficiale della Guardia Palatina, le attraversava con tranquilla sicurezza. L’uomo era sicuramente esperto e consueto del Quirinale poiché nessuno lo accompagnava, né peraltro, dimostrava incertezze sul cammino. Infatti avanzava spedito guardando davanti a sé come chi conosce la strada. L’uomo indossava con disinvoltura la ricca uniforme da ufficiale, calzoni bianchi, stivali neri, giubba blu con alamari dorati e portava sotto il braccio il gran cappello col pennacchio. Malgrado si avviasse a un’udienza papale portava la spada al fianco.

    La divisa era quella di Colonnello della Guardia Palatina, ma era quasi un abuso. Tutti i componenti della Guardia, dal Generale Principe Borghese al più umile dei fanti o degli stallieri lo chiamavano l’ Ispettore del Papa. Il suo nome era Martìn Della Sassetta, pisano di origine, e aveva allora sui quaranta anni.

    Il Papa gli aveva conferito il grado di Colonnello, a dispetto dello stesso Principe Borghese, come copertura ufficiale. Poteva apparire un diplomatico, un bandito, un pezzente o un ricco commerciante o un ufficiale della guardia, ma Martìn Della Sassetta, detto l’Ispettore, era solo ed esclusivamente un astuto agente del Servizio Segreto del Papa. Anzi, il primo, il capo degli agenti del Servizio Segreto del Papa.

    Il Papa aveva conosciuto Martìn Della Sassetta sedici anni prima, all’inizio del 1846. In quell’epoca Sua Santità era ancora il Cardinale Mastai-Ferretti, Vescovo di Imola, e si trovava impegnato a risolvere un’oscura e trista storia di banditaggio interregionale, nel quale erano forse intricati alcuni signorotti della sua diocesi.

    Nel tentativo di risolvere la cosa senza chiasso aveva tenuto un fitto e segreto carteggio con il Granduca di Toscana. Costui gli aveva inviato un giovane magistrato inquirente raccomandandoglielo per la sua capacità e lealtà. Infatti, messa in mano a questo giovane magistrato l’inchiesta, questi, l’Ispettore Martìn Della Sassetta, la aveva risolta brillantemente in pochissimo tempo e senza scandali. Il Cardinal Mastai-Ferretti non si era mai dimenticato del giovane magistrato e, quando era divenuto Papa nel 1846, molto premendogli di rinnovare il suo personale Servizio Segreto, si rammentò di lui.

    All’inizio del 1848 Martìn Della Sassetta, in missione diplomatica, fu inviato dal Granduca di Toscana in aiuto al Pontefice. Leopoldo II riteneva il giovane magistrato troppo prezioso per se stesso per poterlo cedere a chicchessia, ma in tale occasione dovette rassegnarsi poiché il Papa accolto con sollievo l’arrivo del giovane, decise di trattenerlo presso di sé e ne fece l’uomo di sua fiducia.

    Leopoldo II pensò che, anche al servizio di un altro, il giovane sarebbe sempre stato suo amico e quindi concesse che l’Ispettore Della Sassetta si trasferisse al servizio del Pontefice con un appannaggio sicuramente superiore a quello che riceveva dal Granduca e con un lavoro che il giovane e ancora avventuroso Martìn trovava molto congeniale. Il Papa mise, senza tanti discorsi, il giovane magistrato a capo del suo personale Servizio Segreto.

    In pochi anni avendogli affidato più di un’indagine sempre più segreta e incarichi diplomatici, via via più frequenti e importanti ed avendolo usato anche a sua tutela personale, aveva constatato che l’uomo era non solo molto intelligente ed acuto ma anche coraggioso e leale e di una riservatezza assoluta. Si era sempre più fidato e non se ne era mai pentito.

    Martìn Della Sassetta era indipendente, alieno dagli intrighi, solo e, guarda caso, di ottima cultura. Era un uomo di statura appena media, ma di corpo muscoloso, agile ed asciutto, il che gli permetteva di indossare con assoluta eleganza la brutta divisa della Guardia Palatina, che addosso a lui aveva il merito di non apparire nemmeno

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