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Solo tu nell'universo
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E-book363 pagine4 ore

Solo tu nell'universo

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Info su questo ebook

Scarlett è la tipica ragazza che non beve mai per poter guidare a fine serata. Quella che ha sempre tutto perfettamente organizzato fin nei minimi dettagli. Quella che tiene indietro i capelli alle ragazze quando hanno esagerato con i cocktail... Lei e le sue amiche frequentano il Jock Row, il posto più esclusivo di tutto il campus universitario, famoso perché è lì che si concentrano gli atleti del college a fine giornata. E Scarlett è, dal canto suo, una campionessa mondiale nel tenere le amiche fuori dai guai e i ragazzi a distanza di sicurezza. Ma il suo primato non tarda a causarle dei problemi: la fama di guastafeste le chiude ben presto in faccia le porte del Jock Row. “Rowdy” Wade è la punta di diamante della squadra di baseball dell’università, nonché lo sfigato a cui è toccato l’ingrato compito di tenere Miss Perfezione fuori dalla porta del locale, per evitare che rovini altre feste con le sue stupide regole. Peccato che Scarlett non abbia nessuna intenzione di essere lasciata fuori.

Un’autrice bestseller di USA Today

È un atleta. Un campione.
Ma è lei a dettare le regole del gioco.

«Sterling e Scarlett sono così dolci che ti fanno venire voglia di tenerli sempre con te. Consigliato.»

«Uno dei libri più belli che abbia letto ultimamente. Una storia che conquista.»

«Il talento di questa autrice è unico. Fa sognare.»

Sara Ney
è un'autrice bestseller di USA Today e i suoi romanzi New Adult l'hanno fatta amare dalle lettrici. Le sue più grandi passioni sono: il frappuccino, l'architettura storica e il sarcasmo intelligente. Vive in un mondo colorato, pieno di libri, arte e passeggiate nei mercatini delle pulci.
LinguaItaliano
Data di uscita23 apr 2019
ISBN9788822733993
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    American English please.







Anteprima del libro

Solo tu nell'universo - Sara Ney

Il primo venerdì

Il giorno in cui ci siamo incontrati

Scarlett

«Senza offesa, Scarlett, ma se non ti sentivi bene quando ti ho proposto di venire con noi stasera, me l’avresti dovuto dire. Adesso mi sento in colpa».

Tessa, una ragazza che abitava nella stanza accanto alla mia durante il primo e il secondo anno di college e con la quale siamo rimaste amiche, scuote i capelli perfettamente in piega mentre guarda il mio maglione morbido, quello che indosso sempre quando ho il raffreddore o sono malata, perché è comodo, extra-large e rassicurante. È più adatto a un falò o a una serata in casa che a una festa al college e, quando Tessa mi guarda con compassione, gli angoli della bocca piegati verso il basso e lo sguardo scettico, mi sforzo di farle un piccolo sorriso.

«Credimi, sono rimasta a casa negli ultimi fine settimana… stasera avevo bisogno di uscire».

Due, per la precisione, buttata sul divano davanti alla tv a fare zapping, assumendo dosi massicce di tè e di minestrina in brodo.

«Sei sicura? Perché se non lo sei…».

«Sto bene, è per questo che ho messo questo maglione. Mi terrà bella calda stasera, così non prenderò freddo».

L’ultima cosa che voglio è che cambi i suoi piani per colpa mia.

«Ma quel maglione…». Tessa si mordicchia il labbro inferiore, mangiandosi un po’ di rossetto. «Fa così caldo a quelle feste… magari ti potresti togliere almeno la sciarpa… e il giaccone».

Tocco la lunga sciarpa grigia lavorata a trecce avvolta intorno al mio collo, respiro nella lana merinos: è l’unica cosa che mi tenga caldo il collo e faccia in modo che non mi torni la tosse.

«La mia sciarpa? Cos’ha che non va?»

«Non ha niente che non va, ma stiamo andando alla casa del baseball… sai, sulla Jock Row».

Quando dice Jock Row, la sua voce cambia, si riempie di una strana nostalgia e di una leggerezza spensierata, come se stessimo andando in qualche posto magico. Non è così.

Jock Row: il quartiere residenziale fuori dal campus in cui alloggiano e danno le feste gli studenti atleti. Come il quartiere delle confraternite, la Greek Row, si estende su un intero isolato della città e ogni sport ha il suo specifico palazzo o casa. Loro studiano insieme, giocano insieme, vivono insieme. Diavolo, mangiano perfino insieme in una mensa speciale di cui ho solo sentito parlare, con cibo da atleti super speciale e salutare.

Che figata per loro.

Ricordo di averla ascoltata mentre ne parlava nel dormitorio quando eravamo matricole; blaterava per ore sul fatto che avrebbe voluto uscire con un atleta, mi spiegava quali pensava fossero carini e li trollava su internet. Si prendeva delle cotte tremende, si chiedeva come sarebbe stato uscire con uno di loro, ma non aveva mai avuto il coraggio di andare a una delle loro feste.

Be’, adesso lo abbiamo eccome.

A Tessa mentre ne parla brillano ancora gli occhi allo stesso modo. In un certo senso non la biasimo, perché i ragazzi della Jock Row… non sono ragazzi, appartengono a una specie di studenti completamente diversa.

Non possono essere paragonati ai tipi con cui ero abituata a flirtare a casa: i ragazzi allampanati e infantili con cui sono cresciuta, che sono andati al college ma non sono ancora davvero cresciuti… non hanno niente a che fare con i ragazzi della Jock Row.

Né fisicamente.

Né mentalmente.

Loro sono uomini, con delle responsabilità e dei doveri. Lavorano sodo e se la godono alla grande.

Più grandi.

Più muscolosi.

In condizioni fisiche perfette, probabilmente più in forma di quanto saranno mai nel resto della vita.

Spavaldi.

Veloci.

Li ho visti in azione sul campo di baseball; so che è una bella squadra e, maledizione, sono anche belli.

Hanno un buon odore.

Come faccio a saperlo? Mi sono avvicinata a uno di loro una volta, mentre mi aggiravo in cerca di qualcosa da bere nella casa del football. Un tipo grande e robusto mi è passato davanti nella fila per il barilotto, sporgendosi per afferrare il rubinetto della birra con le sue dita possenti, e accidentalmente io gli ho dato un’annusata… un’annusata lunga e profonda, una di quelle che finiscono con quell’aaahh interno che viene solo quando gustiamo una cosa davvero deliziosa.

Ovviamente, essendo una femmina a sangue caldo, nel frattempo ho dato un’occhiata al suo torace, agli avambracci muscolosi e al collo taurino, come avrebbe fatto qualsiasi donna in quella stanza dotata di un paio di occhi funzionanti.

Qualsiasi donna, come Tessa e la sua compagna di stanza, Cameron, che è ancora in bagno ad agghindarsi.

So bene cosa vogliono queste due: sperano di affondare i loro artigli rosa shocking in qualche ignaro atleta. Sono più grandi, più sagge e più sicure di sé. Indossano anche meno vestiti.

Stasera Tessa continua a blaterare sul ricevitore della squadra di baseball. Si è imbattuta in lui nel campus all’inizio della settimana e da allora lo sta stalkerando sui social. Ha scoperto che se riuscisse a calcolare proprio bene i tempi, lui potrebbe uscire dal dipartimento di scienze nel momento esatto in cui lei esce da quello di studi internazionali.

Non posso darle torto: ho posato gli occhi su quel ragazzo anch’io qualche volta e non la biasimo se fa la gatta morta con lui. È moro, malinconico, estremamente bello e per giunta ispanico.

Muy caliente.

«Ti prego, fidati di me», sta dicendo Tessa. «Non studio infermieristica, ma questo lo so: se vieni alla festa vestita così ti verrà un colpo e non ci sarà nessuno che ti possa rianimare».

«Non pensi che ci sarà qualche studente di medicina?»

«Pfui, probabilmente in questo momento sono a studiare».

«Grazie a Dio: per salvare la vita alla gente devono aver passato un po’ di tempo sui libri».

«Dico sul serio, Scarlett. Morirai nel vero senso della parola se vieni vestita così. E poi…».

Lascia in sospeso la frase mentre percorre con i suoi occhi azzurri, del colore delle lenti a contatto brezza dell’oceano, il mio corpo su e giù per la seconda volta. Fa una smorfia quando arriva alla sciarpa.

Non le piace per niente come sono vestita, ma è troppo dolce per dirmelo.

«Non ti piace il mio outfit?»

«Può darsi che fuori si geli, ma non farà così freddo dentro… la casa è calda e i ragazzi lo sono ancora di più».

Mi avvolgo un po’ di più nella sciarpa e le do un colpetto affettuoso sul braccio. «Ci andiamo a piedi, si gela e io sono stata malata… Ti voglio bene, Tess, ma non ho intenzione di mettere a rischio la mia salute per una festa».

Mi ero dimenticata quanto potessero essere premurosi i suoi occhi azzurri e sono sorpresa di vederla sbattere le palpebre con tutto quel mascara aggrumato sulle ciglia e piegare la bocca all’ingiù. «Come va il tuo raffreddore?»

«Il peggio è passato». Fingo di avere la tosse. «Possiamo andare? Altrimenti finirò per restare a casa a leggere».

«Non lo fare! Sei diventata proprio un’eremita da quando hai un appartamento tutto tuo».

«Allarme nerd!», scherzo, puntando un dito contro me stessa. «Ho appena comprato un libro nuovo, aspettavo che uscisse da nove mesi, nove! È un’eternità per un romance. Sei fortunata che sia riuscita a trascinarmi giù dal divano», affermo mentre inclino la testa verso il bagno. «Perché Cameron ci sta mettendo così tanto?»

«Le si stava staccando un’extension. Ci ha dovuto mettere dell’altro adesivo».

«Ah». Annuisco con espressione comprensiva, come se questa cosa potesse avere un senso per me.

Per mia fortuna, Cameron sceglie quel momento per ancheggiare lungo il corridoio come se fosse sulla passerella di una sfilata di moda, avvolgendosi intorno alle dita una lunga ciocca di capelli biondo platino, ricci e domati con lo spray. Il resto dei suoi capelli ricade in onde setose e io mi chiedo per un breve istante come riuscirà a fare tutto il tragitto a piedi su quei tacchi dodici.

Occhi scuri, labbra lucide e vestito nero, Cam è pronta per mettersi in marcia verso la Row.

Finalmente.

Si blocca quando mi vede e punta un dito accusatorio verso i miei stivali. Praticamente sibila: «Tu non vieni vestita così. È orribile».

Tessa apre la bocca. «Risparmia il fiato. Se la facciamo cambiare, non uscirà con noi e io non la vedo da un sacco di tempo».

«Oh, sei troppo dolce». Le cingo la vita sottile con un braccio e la stringo in un abbraccio. «Mi siete mancate, mattacchione».

Oh merda.

Avevano ragione: sto soffocando dal caldo, vestirmi così è stata una pessima idea.

Perché non hanno insistito di più per farmi cambiare?

Sto morendo. Mi verrà un colpo di calore.

Fa caldo come negli inferi, il centinaio di corpi che affolla il piccolo spazio crea un maledetto inferno, nonostante le temperature gelide fuori.

Mi tolgo il giaccone. Non ho altra scelta che allentare la sciarpa che mi si è appiccicata al collo sudato, una seconda pelle, bagnata di sudore.

Dando uno strattone a un’estremità con la mano sinistra, la allento, poi la sollevo sopra la testa e mi libero da un giro di mohair dopo l’altro. Infilo a forza il tutto nella borsa, che è più un borsone ingombrante che altro, mentre stringo una tazza rossa nella mano destra.

Bere stasera non sarebbe una grande idea, quindi assumo acqua in abbondanza mascherata da alcol.

E posso solo dire che trovare un liquido che non sia birra in questa casa è stato quasi impossibile, maledizione. Ho dovuto abbandonare Tessa e Cam al loro destino per andare in cucina a frugare nel frigorifero.

Attaccato alla porta c’era un biglietto che diceva Off limits, ma era vecchio e sbiadito e io avevo troppa sete per preoccuparmene.

Dentro c’era una miniera d’oro di acqua, succhi di frutta, bevande energizzanti e anche qualche frullato proteico.

Ho sgraffignato due bottigliette di acqua ghiacciata (una per ora e una per dopo), le ho infilate a forza nella borsa, grata per averla portata con me e chiedendomi perché non ci sia dell’acqua al bar improvvisato nel soggiorno.

È furto se il frigorifero era aperto?

Vago da una stanza all’altra in cerca delle due bionde con cui sono venuta: le loro graziose testoline bionde si sono perse nel breve lasso di tempo che mi ci è voluto per trovare due bottiglie d’acqua. Mi agito, mi faccio aria tirando lo scollo del maglione e bevo alcuni sorsi rinfrescanti d’acqua.

Mi faccio vento pigramente, in piedi in un angolo del soggiorno, e faccio del mio meglio per non stramazzare al suolo svenuta. Un’affermazione melodrammatica, perfino per me, ma se riuscirò a non morire per surriscaldamento sarà davvero un miracolo.

Perlustro la stanza con lo sguardo altre tre volte e le localizzo, vicino alle finestre che danno sul davanti della casa. Mi prude terribilmente la parte superiore del busto.

Sono sudata e irritabile e mi chiedo ancora perché diavolo mi sia vestita così.

Faccio scivolare un dito nello scollo lanoso e gli do un altro strattone per dare un po’ di sollievo alla pelle irritata e abbassare la temperatura corporea. Ma non serve a niente: sto bollendo in questo maledetto sacco di patate.

Devo andare sulla veranda, veranda, veranda.

Nessuno sente il mio sospirone al di sopra della musica: come potrebbero? È così alta che le finestre vibrano e il pavimento sembra scosso da un terremoto.

Odiandomi un pochino, raggiungo le ragazze: sono state più fortunate e si stanno divertendo più di me stasera, riunite in un piccolo cerchio a chiacchierare con due giovanotti terribilmente attraenti.

Tessa sta sbattendo le ciglia finte verso il biondo, un ragazzo alto e dinoccolato, la cui carta vincente è un sorriso languido che scocca generosamente verso di lei. Denti perfetti.

Sembra ancora un ragazzino, in un certo qual modo, ma riesco a capire perché sia attratta da lui, anche se il mio tipo è più robusto e rude. Un ragazzo grosso e muscoloso, con una forte personalità mi conquisterebbe in un attimo.

«Ehi, ragazze, pensavo di avervi perse». Sollevo la mia acqua e bevo un lungo sorso rinfrescante. «Mi sono persa qualcosa?»

«Scar, loro sono Derek e Ben», dice Tessa, presentandoci. «Fanno parte entrambi della squadra. Ragazzi, lei è Scarlett».

«Scusate, di quale squadra stiamo parlando?», non riesco a fare a meno di scherzare, proprio non ce la faccio.

«La squadra di baseball», borbotta il ragazzo con i capelli scuri, percorrendo con i suoi occhi castani il mio outfit da capo a piedi. Non si sta divertendo, neanche un po’, e mi guarda come se fossi un’idiota.

Oh. Non si può piacere a tutti, immagino.

«Stavamo per farci un selfie», aggiunge Cameron. «Scar, ci puoi fare una foto?». Mi passa il suo telefono senza tante cerimonie e si ravviva i bei capelli ondulati.

Armeggio con il flash, giro la fotocamera verso di me e tiro fuori la lingua prima di scattare. Mi faccio alcuni selfie prima di ruotare la fotocamera e inquadrare gli altri.

«Potresti smettere di cazzeggiare?», mi incita Tessa a denti stretti, le labbra piegate in un sorriso seducente. «Non posso tenere la faccia così ancora a lungo».

«Quelle le puoi cancellare». Faccio scorrere con il pollice le foto prima di girare di nuovo la fotocamera verso le mie amiche. «Be’, questa no, sono adorabile. Me la potresti inviare?».

Ridacchio.

«Dite Palle!». Scatto altre sei foto prima di sbattere il cellulare nella mano protesa di Cameron. Lei si mette subito a scorrerle, osservandosi attentamente in ognuna, con un gran sorriso incollato sul bel viso. «Allora, a quanto pare avevi ragione sul maglione». Do un colpetto con il fianco a Tessa. «Non so voi, ragazze, ma io sono pronta per andare via».

Mi guardano tutti.

«Ho caldo e mi prude dappertutto, ma grazie a Dio non ho un eritema, ah ah». Rido solo io.

Ben, il ragazzo che sfoggia un sorriso che non arriva agli occhi e un cappellino da baseball che gli vorrei far cadere dalla testa, punta un dito verso di me. «Dici sul serio?»

«Non hai idea di quanto sia calda questa maglia, amico». Faccio il muso lungo, enfatizzando le mie sofferenze. Alzo le mani, fingendo di arrendermi. «Siamo qui da un po’ e non mi dispiacerebbe se ce ne andassimo. Dico solo questo».

«Ma ti senti male davvero?». Tessa si avvicina per toccarmi la fronte. «Sei calda, ma potrebbe essere solo per la temperatura che c’è qui dentro».

«Ragazze, siamo venute insieme e ce ne andremo insieme».

«Tessa non se ne può andare prima di avermi aiutato con il mio piccolo problema», dice Ben, guardandole nella sua scollatura.

«Piccolo problema?». Abbasso gli occhi senza tante cerimonie sulla patta dei suoi jeans.

«Il mio telefono». Tiene sollevato il telefono nero davanti a sé come se glielo stesse offrendo. Tessa posa gli occhi azzurri sullo schermo illuminato e si mordicchia il labbro inferiore. «Ha un problema».

«Cosa c’è che non va?», chiede lei, inclinando la testa.

«Continuo a cercare, ma non riesco a trovare il numero che mi interessa». Tiene il telefono sul palmo della mano grande e fa scorrere il pollice su e giù sullo schermo. Credo che stia cercando di essere sexy. O qualcosa del genere.

«Quale numero?», tuba Tessa.

«Sai… il numero che mi manca».

«È sparito?»

«No, baby, sto cercando di mettercelo». Fa scorre il pollice sulla superficie piatta, accarezzandola languidamente.

«Ma è…».

Oddio, non li sopporto più.

«Ho capito. Ho capito». Faccio un passo avanti per porre fine al giochetto che sta cercando con tutto se stesso di partorire, tirando per le lunghe la sua battuta per rimorchiare in un modo terribilmente lento. «Il suo telefono ha un problema, Tess, perché non c’è il tuo numero».

«Eh?». Tessa aggrotta la fronte, confusa, mentre il ragazzo mi guarda dall’alto in basso, con le labbra tirate.

Io faccio la faccia di una scolaretta che si è lasciata scappare la risposta in classe senza alzare la mano e le mie guance diventano ancora più bollenti.

Mi schiarisco la gola, troppo imbarazzata per guardare Ben.

«Tessa, è… sai… una battuta per rimorchiare. Funziona così». Abbasso il tono della voce e faccio la mia migliore imitazione di un uomo. «Il mio telefono ha qualcosa che non va… perché non c’è il tuo numero». Scuoto la testa avanti e indietro, mentre pronuncio la frase idiota. «Capito? L’ho letto su internet, forse su BuzzFeed. C’era un lungo elenco delle frasi per rimorchiare più stupide del mondo, e quella era in cima alla lista».

Quando alzo di nuovo lo sguardo, incontro due occhi torvi.

«Non ti arrabbiare». Rido imbarazzata, mentre tiro lo scollo del maglione. «Trova delle battute migliori. Quelle sono orribili». La mia risatina ammiccante non viene apprezzata. «Oh, andiamo, sto cercando di aiutarti! Era un consiglio da esperta».

Il ragazzo apre la bocca. «Non ti rendi conto di essere una dannata guastafeste? Cosa diavolo hai addosso?».

Il suo tono non è più amichevole, non è più seducente. Non è più interessato a fare gioco di squadra; senza volere l’ho fatto incazzare rubandogli la scena.

Tessa, sia benedetta la sua bontà, rompe la tensione con una risata allegra e dà al piccolo Benny dei buffetti affettuosi sulla guancia. Sposta la sua attenzione.

«Vuoi il mio numero?». Sembra decisamente eccitata. «Perché non me l’hai semplicemente chiesto, sciocchino?». Gli prende il telefono di mano e aggiunge il suo numero ai contatti, mentre lui mi lancia un’altra occhiata diffidente.

Mi guarda dall’alto in basso, con superiorità.

Stringo più forte la tazza: non avevo intenzione di offendere o far arrabbiare nessuno. Voglio solo stare bene e ridere un po’, dopo essere stata malata così a lungo. È un crimine?

Lui mi guarda come se indubbiamente lo fosse.

«Sai cosa potresti fare, Stacey?». Derek storpia intenzionalmente il mio nome. Capisco dal suo sguardo d’acciaio che sta cercando di sminuirmi, il cazzone. «Correre a prenderti un’altra birra». Si è messo sulla punta dei piedi e finge di guardare nella mia tazza rossa. «Sembra che sia mezza vuota».

Ben annuisce e beve dalla sua tazza. «Ci dispiacerebbe se i nostri ospiti avessero sete, specialmente quelli che hanno più bisogno di alcol».

«Non state cercando di sbarazzarvi di me, vero?». La mia risata è nervosa.

«Noi?». Riesce a sembrare offeso. «No, cara, io vivo qui. È mio dovere assicurarmi che tutti si divertano e tu non sembri affatto divertente. Ah. Ah».

Colgo la sua frecciata. Cerco di impedire che mi faccia male.

«Sto bene così, ma grazie per l’offerta». Faccio ruotare il contenuto della mia tazza e ci guardo dentro con un occhio chiuso. «E poi questa non è birra. È acqua con un po’ di limone ed è ancora abbastanza fredda».

«Acqua?».

Arriccio il naso. «Sì, non sono una che beve molto e sono stata malata, perciò ubriacarmi sarebbe un’idea brillante?». Alzo un po’ il mento. «Non credo proprio».

Derek contorce il viso in una smorfia. «Dove hai trovato dell’acqua qui in giro?»

«Ehm, in cucina?»

«In cucina dove?».

È una domanda a trabocchetto? «Ehm… in frigo?».

Si acciglia. «Teniamo il frigo chiuso a chiave quando diamo le feste».

Sollevo le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli. «Davvero?»

«Già. Così nessuno può prendere la nostra roba». Come hai appena fatto tu. «Non hai visto il grosso cartello che dice Off limits?».

Ho le guance in fiamme. Non esiste che mi stia accusando di aver rubato qualcosa dalla casa, e poi è solo una bottiglietta d’acqua. Certo, c’era un lucchetto, e anche la scritta, ma comunque il frigo era aperto.

Merda.

«Mi dispiace», dico sinceramente. «Non avevo capito che avrebbe dovuto restare chiuso a chiave. Si è aperto subito». Ho dovuto solo armeggiare alcuni secondi con la maniglia et voilà: tutte le bevande a mia disposizione!

Mi guarda dall’alto in basso per la seconda volta nella serata e mi giudica in silenzio. «Magari invece di sorseggiare l’acqua che hai rubato, dovresti bere una birra… o cinque, visto che…».

«Sembri così nervosa», finisce Ben.

«Grazie, sto bene così», ribadisco. Tiro il maglione, lo allontano dalla pelle irritata: ho bisogno di spazio per respirare. La stanza sembra diventare più calda ogni secondo che passa, o sono io? Normalmente ragazzi come questi non mi preoccuperebbero, riesco a sopportare benissimo di sentirmi un po’ a disagio, ma questo associato al fatto che ho troppo caldo e al calore che emanano questi ragazzi…

Ammetto di essere più che un po’ a disagio, e non solo per il maglione.

Ma poi Cameron salta su e viene involontariamente in mio aiuto, appoggiando una mano sul suo bicipite muscoloso, messo in risalto da una maglietta nera a maniche corte. Cambia argomento. «Prima, quando tu stavi prendendo l’acqua, Derek ci stava raccontando che la squadra di baseball ha vinto la College World Series l’anno scorso. È il campionato di baseball, ma per i college».

Sollevo le sopracciglia e trattengo uno sguardo incredulo. «Sì, so cos’è la CWS, Cameron, e l’Iowa non l’ha vinta».

«Sì che l’ha fatto!». Ride. «Derek ha lanciato la palla della vittoria, è davvero fantastico. Scarlett, devi sentire tutta la storia». Ha avvolto tutto il braccio attorno a quello di lui, che stringe incoraggiante. «Raccontale la storia Derek».

Guardo Ben. Lancio un’occhiata a Derek. Poi torno a guardare queste due ragazze sprovvedute e scuoto la testa, sbigottita. Non posso letteralmente più sopportare una tale quantità di stronzate.

«Vi rendete conto che questi due vi stanno… prendendo in giro, vero?». Mi porto la tazza rossa alle labbra e bevo un sorso, poi sistemo il giaccone e la sciarpa che tengo stretti nell’altra mano. «L’università della Southern California, la USC, ha vinto la College World Series l’anno scorso… vincono quasi tutti gli anni». L’acqua è calda adesso, tiepida nella migliore delle ipotesi, mentre mi scende giù per la gola.

«E tu come diavolo faresti a saperlo, Signorina Sotuttoio?», mi sfida Ben.

Signorina Sotuttoio? Wow. Penso che nessuno mi abbia mai chiamata così in tutta la vita.

«Mio padre. Non è un gran tifoso della major league di baseball, ma gli piace guardare le partite dei college, è appassionato». Mi do dei colpetti sul mento con il dito indice. «Ricordo che l’estate scorsa ha guardato le maledette finali tutta la settimana. Abbiamo dovuto guardare tutti quello stupido gioco… senza offesa. La College World Series è a giugno, vero?».

Quando la mia frase si interrompe, Derek fa un cenno brusco con il capo a Ben, poi incrocia le braccia e allarga le gambe in una posizione difensiva.

Solleva le sopracciglia. Fa un cenno con la testa verso la cucina.

«Comunque», continuo a chiacchierare nel tentativo di riscattarmi, blaterando per riempire il silenzio, «ricordo proprio che ero a casa e mio padre guardava le partite. Quando uscivo per andare al lavoro c’erano le tribune sportive e quando tornavo c’erano le partite. La USC ha vinto il torneo, ne sono sicura».

Sia Cameron che Tessa fanno fatica a seguire la conversazione. «Perché ci avete detto di aver vinto?».

Sbuffo, allontano il maglione dalla pelle con uno strattone delicato e lo scuoto alcune volte per far entrare l’aria fresca. «Hanno mentito perché stanno cercando di fare colpo su di voi, Tessa, una cosa ridicola secondo me. Voglio dire, sinceramente ragazzi, voi due siete davvero belli, non avete bisogno di inventarvi le cose». Faccio una risata ma esce fuori un suono strozzato. Ne faccio un’altra, sperando di appianare le cose, che il tono canzonatorio della mia voce li diverta e che abbiano pietà di me.

«Non hai intenzione di restare con noi tutta la sera, vero?», chiede uno dei ragazzi.

«Che altro potrei fare?»

«Posso chiamare uno dei novellini e ti posso far accompagnare a casa da lui, così non devi continuare a stare qui». Ben mette un braccio intorno alle spalle di Tessa. «E poi io voglio conoscere meglio la tua amica, e tu stai rendendo la cosa impossibile». Le solleva il mento con il pollice e la guarda dritto negli occhi. «Ti piacerebbe conoscermi meglio, baby?».

Tessa annuisce intontita. Accidenti a lei!

Ingoio il nodo che ho in gola.

«Ci prenderemo cura noi delle tue amiche». Cerca di allontanarsi con lei, ma lo fermo. «Te ne puoi andare sicura che sono in buone mani, cara».

Non così in fretta, tocco di figo.

«Non ho dubbi su questo». Gli afferro l’avambraccio mentre lui fa un sorriso da predatore a Tessa e porca miseria se è solido. Robusto come un carro armato, il suo avambraccio è un fascio di muscoli sodi. Scuoto la testa. «Siete sicure che sia saggio andare con loro? Voglio dire… sono degli sconosciuti».

«Sconosciuti? Ma quanti anni hai, cinque?». Mi guarda dall’alto in basso. «Cosa c’è in quell’acqua che ti fa essere

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