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Oltre ogni apparenza
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Oltre ogni apparenza
E-book589 pagine11 ore

Oltre ogni apparenza

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Info su questo ebook

É la storia di un medio manager di banca addetto all'area finanziamenti che, in una fumosa e nervosa riunione d'affari, decide di opporsi all'ennesima truffa orchestrata ai danni dei clienti. Dopo anni di rospi ingoiati, Emilio, il protagonista, che vede nella sua funzione un qualcosa che stride con la sua coscienza, si oppone al diktat del suo direttore e viene fortemente demansionato, tornando allo sportello. Tutti lo isolano, dai suoi collaboratori

a sua moglie, che lo bolla come idealista e ingenuo. Così, all'apice della mortificazione, decide di abbandonare tutto e tutti e di darsi alla vita da strada.

Dopo 12 anni di questa vita, in cui i suoi compagni saranno altri 4 barboni, la mensa il suo approvvigionamento alimentare e il dormitorio il luogo del riposo notturno, un giorno, mentre consuma un pasto frugale sotto i portici di una piazza, viene malmenato da 3 balordi. Intervengono due ragazzi e un uomo a salvarlo e, dopo esser rimasto solo con uno dei giovani, avviene il secondo evento che sconvolgerà nuovamente la sua esistenza; il giovane si sofferma, lo guarda e riconosce nell'uomo lacero e sanguinante che ha di fronte, da una inconfondibile cicatrice sulla tempia, suo padre.

Questo è l'incipit del libro, cui seguiranno continui eventi che porteranno le vite del protagonista, Emilio, e di suo figlio, verso una spasmodica e reciproca ricerca, poiché al primo incontro, quello sovracitato, Emilio si sottrae, di fronte al primo muro di apparenza: il suo aspetto, che davanti al figlio lo mortifica a tal punto da fuggire per la vergogna. Ma un legame di sangue non conosce muri, ostacoli, e se vi si frappongono li abbatte. Il figlio cercherà disperatamente il padre, vestendo persino i panni del barbone per ritrovarlo...

Una storia intensa, uno spaccato sociale attuale, dove l'atto di ribellione etico di un uomo è pagato con l'assoluta emarginazione e dove l'uomo stesso può essere salvato solo da chi veramente lo ama: un figlio.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2016
ISBN9788822877321
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    Anteprima del libro

    Oltre ogni apparenza - Giuseppe Pellegrino

    BIVIO

    Oltre ogni apparenza

    1 – EMILIO

    Era un pomeriggio freddo e nebbioso. Di tanto in tanto soffiava qualche gelida folata di vento, che alzava per qualche istante la nebbia ma, subito dopo, essa ripiombava cupa, fastidiosa e più opprimente che mai. Quel freddo, umido e pungente, penetrava nelle ossa già doloranti di Emilio, provocandogli fitte dolorose o spasmi improvvisi, ma aveva imparato a conviverci, immerso in un mondo in cui, la fisicità, non aveva più alcuna importanza. Da qualche giorno, però, ci si era messa anche la febbre, che in maniera intermittente scaldava e raffreddava il suo corpo. Alternava così ai colpi di calore improvvisi attacchi di freddo, che gli provocavano tremori in tutto il corpo e, tutto infagottato nei suoi stracci, camminava ramingo e senza meta, guardando la gente, le vetrine o parlando da solo. Di tanto in tanto si fermava a sgranocchiare qualcosa o a sorseggiare un po' di grappa, riscaldando lo stomaco, freddo e contratto come tutto il resto del corpo; poi proseguiva nuovamente, quasi fosse destinato al moto perpetuo.

    Era ancora un uomo piuttosto giovane, aveva 53 anni, ma sembrava avesse attirato su di sé tutti i guai del mondo. Rughe e piaghe ricoprivano gran parte del suo corpo e, a vederlo, sembrava avesse quindici anni in più. In quei giorni, per giunta, quella febbre che andava e veniva l’aveva ulteriormente debilitato, costringendolo a frequenti soste in cui, in mancanza di una panchina, si abbandonava per terra, appoggiando la schiena alla parete di qualche edificio o a qualche cancellata, incurante del passaggio delle persone e dei loro sguardi cinici o sprezzanti. In quei momenti, il ricordo di quel che era stato e la consapevolezza di quel che era diventato, in uno stridente contrasto, lo incupivano, fino a fargli perdere la coscienza e a farlo rimanere lì, in quello stato, per ore. Non erano i rumori a svegliarlo, ma i morsi della fame. Si alzava compiendo gesti quasi automatici, strofinandosi la faccia con le mani e grattandosi la barba lunga e incolta, ma in quel tardo pomeriggio, tormentato com’era dai capogiri e dai fantasmi della mente appena scacciati, fece una gran fatica a rialzarsi. Con un ultimo ed estremo sforzo riuscì ad afferrare i suoi stracci, poi, dopo aver appoggiato la schiena alla parete di un edificio e aver atteso che quel precario equilibrio cedesse il posto ad un’apparente normalità, si rimise in marcia.

    Erano ormai dodici anni che faceva quella vita. Per sopravvivere si era tenacemente impegnato a rimuovere i ricordi di quella precedente, quasi a voler cicatrizzare dolorose e sanguinanti ferite dell’anima, ma talvolta, per strane alchimie, quei ricordi gli salivano improvvisi alla mente, per il solo fatto di aver visto o sentito qualcosa che li associava ad essi. Allora il suo corpo vibrava, la sua mano cercava la bottiglia della grappa, che sorseggiava nervosamente, poi una sigaretta, che aspirava senza quasi mai staccarla dalle labbra, scosso da una feroce lotta fra la ragione e l’inconscio, una lotta che lo scuoteva dalle fondamenta, come un edificio di fronte ad una serie di forti scosse telluriche. In quei momenti, era preda di crisi che si acuivano o si placavano a seconda che prevalesse l’inconscio o la ragione. Se era l’inconscio a prevalere, all’apice della crisi, si metteva a urlare frasi sconnesse, a bestemmiare o a inveire con le mani levate al cielo, quasi cercasse in qualcosa di sovrannaturale le cause del suo misero e ingrato destino.

    Proseguì il suo cammino ma, in quel tardo pomeriggio, non aveva neanche la forza di pensare. Guardava dinanzi a sé, come un atleta sfinito guardi l’agognato traguardo, mentre il buio, sceso quasi improvviso, misto alla fitta nebbia, davano alla città un aspetto quasi spettrale. Camminava e nel contempo sentiva il suo stomaco ululare, con dei forti boati che accompagnavano quel passo che si faceva via via più affrettato. Se avesse potuto, sarebbe entrato in una delle tante trattorie o pizzerie che incrociava, ma la sua meta, la sua solita meta, era una povera quanto provvidenziale mensa, la mensa dei poveri, dove insieme a lui confluivano i rappresentanti di un’umanità dimenticata, che nessuno voleva salvare ma che non voleva neanche essere salvata. Emilio era uno di quelli; un uomo che si ostinava a vivere in uno stato di abbandono senza che nulla intervenisse a modificarlo, quasi come se, in quello stato, trovasse un minimo motivo per esistere. Questa era la sua seconda vita. Una vita da emarginato, da barbone; una vita in cui l’amore, l’amicizia, i soldi, le conoscenze e la stessa salute, non avevano più alcun valore: tutto era ormai alle sue spalle, insieme alla sua prima vita.

    Tutto accadde un brutto giorno di dodici anni prima, in una fumosa e nervosa riu- nione d’affari, all’interno di una grande sala della banca presso cui lavorava. Si occupava di finanziamenti ad alto livello, era responsabile di un bel gruppo e, al di sopra di lui, c’erano ben poche persone, direttore della banca compreso. In quella riunione si doveva discutere di un nuovo finanziamento con emissione di obbligazioni e, a lui, era parso subito tutto marcio e fittizio, uno di quei castelli di cartapesta che, con la sua ormai decennale esperienza nel settore, non aveva avuto difficoltà a intravedere. Quell’ affare, insomma, era una truffa, una di quelle truffe che avrebbe avuto come vittime gente ignara e onesta. Emilio, ormai, non riusciva più chiudere gli occhi di fronte alla realtà, diventata ormai un susseguirsi di chiaro-scuri, di penombre che, nell’ultimo anno, da quando era stato promosso a manager e responsabile del gruppo finanziamenti, l’avevano disilluso e angosciato. Quella riunione gli tornava spesso alla mente e, nelle sue improvvise e violenti farneticazioni, ne ripeteva l’esatto svolgimento, interpretando la parte del direttore, del codazzo dei suoi servitori e la sua, l’unica controcorrente e destinata alla sconfitta.

    – Dobbiamo assolutamente portare a segno questo affare! – tuonava il direttore – Perché se non lo facciamo noi lo farà qualcun altro! Quindi, signori, vi voglio tutti molto concentrati e pronti nell’acquisire il maggior numero di clienti. Parlo, ovvia- mente, anche e soprattutto a nome del nostro direttore generale, che mi ha dato pieno mandato per questo delicato lavoro.

    A questo discorso, che Emilio ricordava parola per parola, seguì un silenzio carico di sguardi ammiccanti e intensi, tesi al comune convincimento dell’opera. Nessuno osava opporsi alle parole del direttore; l’aprir bocca e proferire parole di dissenso avrebbe significato un sicuro trasferimento e la fine di quelle piccole e oscure carriere. Emilio ricordava ognuno di quei volti; da quelli più giovani, ingenuamente entusiasti nell’intra- prendere quella nuova avventura a quelli più scafati, che annuendo e accennando un istrionico sorriso verso il loro capo se ne accattivavano simpatie e attenzioni. Ricordava soprattutto le parole del direttore. Come dimenticare quell’apoteosi della demagogia, quelle frottole raccontate ben sapendo quali disastrose conseguenze avrebbero avuto sugli ignari futuri clienti?

    Fu l’atmosfera quasi irreale a colpirlo, prima ancora dell’insensatezza di quell’af- fare. Quelle persone, con a capo un loro alto responsabile, stavano avallando una truffa legalizzata e nessuno aveva intenzione di sollevare la benché minima obiezione o, in alternativa, avere il benché minimo ripensamento interiore. I loro volti e i loro sguardi, erano il segno di un consenso assoluto e acritico su quanto si stava per compiere, in un impasto di ignoranza, assenza di scrupoli e mancanza assoluta di etica professionale che ne esaltava ancor di più gli obiettivi.

    A quel punto Emilio prese la parola. Il suo cuore era in tumulto. Sapeva che le sue parole avrebbero potuto cambiargli la vita, ma non riuscì proprio a mettere a tacere la coscienza.

    – Direttore – disse, e qui il suo farneticare, nel ricordo vivido e indelebile, diventava veemente e convulso – ma queste obbligazioni non hanno copertura! Si… insomma… io ho letto tutto il dossier e non c’è la giusta copertura per portare avanti questo affare! Rischiamo d’infognarci in qualcosa da cui non riusciremmo ad uscire.

    – Ma che dici Emilio! – proruppe il direttore – Ma… Valente! Cosa stai dicendo?! Spero che tu stia scherzando!

    – Direttore… non sto scherzando e me ne guarderei bene dal farlo. – rispose Emilio e, nel frattempo, i sorrisini e i mugugni cominciarono a farsi insistenti – Ho studiato le carte e, analizzandole a fondo e non superficialmente, si arriva a questa conclusione.

    Il direttore non riusciva a capacitarsi come ci potesse essere, in quel branco di persone ammaestrate, una voce fuori dal coro e, soprattutto, come questa voce potesse venire da Emilio, uno dei massimi responsabili di quel gruppo, una persona che aveva sempre avallato le scelte superiori nell’insindacabile liturgia gerarchica. Ed era questo a inquietarlo, ma, dopo un primo momento di stupore misto a rabbia repressa si riprese, e non tardò a bacchettarlo.

    – Emilio Valente… con te parliamo dopo! – disse quasi ringhiando il direttore – Ma… se non sei d’accordo, fatti pure da parte! Qualcuno che ti rimpiazza lo troveremo.

    A quelle ultime parole del direttore, non potevano non far da corollario i sorrisini e lo scherno strisciante dei presenti, condite da frasi di sottofondo: Che fesso… ma che cazzo gli frega di farsi tutti ‘sti problemi?, oppure, E’ arrivato Robin Hood! E’ stato proprio lui ad insegnarci ‘ste cose e adesso fa lo scrupoloso… . Non c’era un minimo accenno di consenso alle sue critiche, anzi, per i suoi colleghi Emilio aveva stupida- mente firmato la fine della sua carriera e, forse, della sua attività nell’area finanziamenti. Il direttore, dopo un ultimo rinnovato appello per la riuscita dell’impresa, accompagnato dal solito acquiescente assenso dei suoi sottoposti (da egli furbescamente definiti collaboratori), pose fine a quella specie di riunione e si alzò, seguito immediatamente da un codazzo di fedeli servitori. Una volta fuori, e dopo aver impartito alcuni ordini secchi e perentori ai suoi uomini di fiducia, il direttore chiamò Emilio da parte. Quel momento, e quelle laconiche e sferzanti parole, le aveva ben impresse nella mente, perché furono più dolorose di una punizione corporale. Aveva osato opporsi al diktat superiore, criticandolo apertamente e per di più in una riunione plenaria, per questo doveva essere severamente punito.

    – Emilio... – disse il direttore – tu sei stato il più valente e fidato collaboratore che ho avuto in questi anni. Non mi aspettavo questa tua sciagurata uscita! Da oggi tornerai allo sportello… con i finanziamenti hai chiuso!

    – Ma direttore!… Non ho detto falsità! Lo sa anche lei che questo affare è senza coperture!

    – Basta! Hai chiuso!

    Quelle due brevi e inappellabili parole, gli risuonavano impazzite nella mente, concludendo le sue apparenti farneticazioni con la loro ossessiva ripetizione: hai chiuso! hai chiuso! hai chiuso!. E aveva chiuso realmente. L’indomani fu dirottato a lavori d’ufficio e di normale routine bancaria, con una mansione di gran lunga inferiore. Ma non fu questo a farlo fuggire da quel mondo. Fu il voltafaccia dei colleghi, di coloro i quali, fino al giorno prima, avevano mangiato e lavorato fianco a fianco con lui in un’apparente solida amicizia, e quello della moglie, che lo aveva bollato come idealista e ingenuo. Era riuscito, in una sola riunione, a mandare in fumo anni di sacrifici, tutto per una sola osservazione critica.

    Anche quella sera non era riuscito a scacciare i suoi fantasmi. Forse voleva solo conviverci per esorcizzarli o ridimensionarli a sfortunati eventi del passato, ma non vi era mai riuscito, trasformando quella teorica convivenza in una pratica ossessione. Si fermava e proseguiva, parlava e taceva, scuoteva forte la testa e rimaneva a tratti immobile, come a cercare la giusta ispirazione o la necessaria concentrazione, fino a tornare lentamente in sè quando il ricordo sfumava nell'ineluttabile presente. Fra la fitta nebbia e l’oscurità, si stagliava, non lontano, parte del suo ineluttabile presente, assumendo i contorni di un grande fabbricato dal colore scuro e quasi indistinguibile nell’oscurità. Mancava poco alla mensa, qualche centinaio di metri, ma improvvi- samente ebbe quasi un tuffo al cuore. Non aveva mai perso la cognizione del tempo e teneva bene a mente lo scorrere dei giorni; e proprio quel giorno, il figlio compiva ventitre anni. Avrebbe rinunciato anche alla propria dignità pur di rivederlo e riabbracciarlo, ma non ne aveva mai avuto il coraggio. Il suo slancio si fermava di fronte alla vergogna di un uomo nudo e spoglio, senza averi nè speranze, col suo solo smisurato amore per quel figlio a testimonianza di sé: ma a lui non bastava. Era sporco e irriconoscibile, lacero nel corpo e nell’animo, e quel figlio chissà se l’avrebbe accettato, abbracciato e riconosciuto come colui che lo aveva tenuto in braccio e aiutato a crescere fino ai dodici anni. Non aveva mai avuto il coraggio di affrontare quella prova, perchè il rifiuto del figlio sarebbe stato l’unico motivo per porre fine alla sua esistenza. Non erano gli stenti a preoccu- parlo: quelli li affrontava tutti i giorni come normale quotidianità. Ciò che non riusciva a superare era il trauma dell’evidente fallimento di una vita spinto all’esasperazione: e il rifiuto del figlio era per lui un trauma insuperabile.

    Rumori indistinti provenivano da una certa distanza e, pian piano, Emilio cominciò a sentire voci ovattate che si facevano sempre più forti. Sentì di nuovo il sangue pulsare e quegli angosciosi pensieri svanire improvvisamente: era giunto ormai alla sospirata meta.

    2 – VITA DA CANI!

    Arrivò alla mensa e, come temeva, c’era già ressa. Era un edificio piuttosto grande, riattato e ristrutturato non molto tempo prima, ma al suo interno c’erano già i segni dei frequenti litigi fra i derelitti. Qua e là le pareti erano scrostate, le finestre avevano vetri scheggiati o addirittura sostituiti da pellicole temporanee in attesa della sostituzione definitiva e, parecchi tavoli e sedie, portavano chiari i segni di grossolane riparazioni, effettuate talvolta dagli stessi derelitti. Non si poteva imputare una colpa a quei poveracci; spesso la scintilla del litigio era solo il passare avanti nella fila senza rispet- tarne l'ordine e, anche fra loro, vi erano persone focose e incapaci di controllare i propri istinti.

    Emilio si avvicinò alla coda e lì trovò le sue vecchie e inseparabili conoscenze: Nanni, Enzino, Giacomo e Mario. Erano gli unici con cui era riuscito a stringere una solida e fraterna amicizia, del tutto somiglianti a lui nell'aspetto: sporchi, laceri e infagottati, ma ancora pienamente lucidi. Li considerava, ormai, dei parenti acquisiti.

    – Eccolo qua!... – disse Giacomo in tono scherzoso – A quest'ora ero già dentro!

    – Per dieci minuti!... – rispose Emilio.

    – Te possino! – disse Mario col suo proverbiale accento romano – Lo sai che se arrivi tardi te magni 'e sedie, no?!

    – Aho! Ho avuto da fare!

    – Ma che cazzo c'hai avuto mai da fa', Emì!... Dovevi chiude er negozio? – rispose scherzosamente Mario.

    – Dai ragazzi… fatela finita e mettiamoci in coda – disse Giacomo.

    I quattro così si misero in coda, come tutti i giorni, ma qualcosa di diverso dal solito li sorprese.

    – Ma nun sentite voi n'odorino... come de stufato? Li mortacci! Ieri ce semo dovu- ti bevere quer brodino che manco ad Arcatraz 'o danno!

    – Si... – disse Enzino – dev'essere proprio stufato! E se insieme a quello c‘è anche quel piatto di tagliatelle che c'hanno dato l'altra settimana? Eh?

    – Li mortacci ! Me riempio come 'na mangolfiera! E chi me ferma, ragà!

    – Aho ragazzi... io non ce la faccio più! – disse Nanni – quasi quasi...

    – No! – intervenne seccamente Emilio – Non t'è bastata l'altra volta?! A momenti arrivava l'esercito per staccarti quelli di dosso!

    – Aho Nanni! Nun t'azzardà! Sinnò te metto io le mani addosso! Nun me fa perde 'sto ben di Dio.

    – Calma ragazzi, calma!... – disse Giacomo – Dieci minuti e siamo dentro, no?!

    – Se non era per te, Emilio, stavamo già dentro – mugugnò Nanni.

    – E falla finita!... Un'altra volta non mi aspettare.

    – Stateve zitti! Che me fate passà 'a fame!

    – Aho! Ma cos'è… il tuo stomaco? – disse Giacomo rivolto a Mario.

    – Si... sta a brontolà!

    – Brontolà?! Urla!...

    – Oggi me so’ magnato solo un pezzo de pizza e nun vedo l'ora d'entrà!

    – Ci siamo quasi ragazzi... manca poco dai! – disse Enzino.

    Venne finalmente il turno di Emilio e dei suoi compagni di entrare e servirsi. Tutto era ben esposto dietro il bancone self-service e c’era proprio lo stufato, che rese felici come bambini quei quattro uomini intirizziti dal freddo e ormai con la bava alla bocca. Non c’era per loro piacere più grande che quello di mangiare un pasto caldo e fumante, ma questo piacere diventava vero e proprio godimento quando, unitamente a ciò, quel pasto conteneva la loro pietanza preferita. I loro occhi brillavano, e quel desiderio raggiungeva il culmine parossistico nel sedersi ai tavoli e consumare quello che loro ritenevano un vero e proprio ben di Dio. Quella sera, tra l’altro, lo stufato era riuscito veramente bene e, nella mensa, scese un silenzio rotto solo dal tintinnio delle posate e dal rumore dei piatti posati sui vassoi o sui tavoli; per il resto, era solo un coro di ganasce e di bocche che divoravano avidamente il pasto, senza pause, accompagnando quella splendida cena con abbondanti libagioni. Tutti ripulirono i piatti con pezzi abbondanti di pane, senza lasciarvi nulla di residuo, a dimostrazione del fatto che, quella cena, era stata oltremodo gradita.

    Al termine del pasto, posarono i vassoi negli appositi spazi adibiti a raccolta, ritrovandosi poi all’uscita per la solita chiacchieratina, prima di seguire la strada del dormitorio o di qualche altro posto di fortuna dove passare la notte.

    – Allora Emilio… – disse Giacomo – ce l’hai lasciato il piatto... o ti sei mangiato anche quello?

    – Se non era di porcellana…

    – Era ora che ci davano qualcosa di decente! Invece della solita schifezza – disse Enzino.

    – Aho!… A pischelli! Mo’ nun ve credete che domani ve’ danno ‘e stesse cose! Mo’ oggi nun so che cazzo è… se è Natale o qualche festa santa o ‘er giubbileo… ma nun me ricordo ‘na magnata così manco er giorno che è venuto l’assessò!

    – Chi è che c’ha ‘na sigaretta? – chiese Enzino.

    – Toh Enzì… – disse Mario – li mortacci… me costi più te in sigarette che ‘sta vita in salute!

    – Eh si… forse perché non ti ricordi di quelle che ti ho dato io!

    – Ma quanno! Ma quann’ è che è successo, che me ‘o so perso!

    – E smettetela voi due!... – disse Giacomo – Mi sembrate due suocere!

    – A Giacomì! Davanti a ‘na balla così nun posso fa’ finta de’ niente!

    – E vabbè! – disse Enzino – Comunque siamo alla pari! Tante me ne hai date e tante te ne ho date!

    – Ma li mortacci tua!... Me sembri Esquilino! –

    – Esqui che?

    – Mo’ pure sordo sei… Esquilino! Quell’amico mio che è morto de’ rogna e de’ sifilide! Era buono e caro ma tu je davi ‘na cosa e quanno je la chiedevi te stava coglionà!

    – A coglionà?

    – Si! Faceva orecchio da mercante e faccia de’ bronzo! Pace all’anima sua.

    – Vabbè ragazzi! Facciamola finita e fumiamoci ‘sta sigaretta.

    Discutevano animatamente ma poi tutto finiva lì, e tornavano uniti senza che vi fosse mai uno strascico o un risentimento. Avevano un metro di giudizio tutto loro, che non era quello del buon senso lasciato alle loro spalle, ma della loro personale e autonoma visione dell’esistenza. Ed era proprio questo ad unirli; quel loro spirito anarchico e indipendente di concepire la vita, quel loro pagare di persona per le proprie scelte, e quella vita dura e difficile pareva un prezzo fin troppo salato. Ma non importava. Nulla li avrebbe convinti a tornare alla vita precedente.

    – Beh… Io ve’ saluto. – disse improvvisamente Mario – Si è fatti tardi…

    – Ma… dormi sempre con quella donna? – chiese Emilio.

    – Si… ce’ semo accampati lì e stamo bene insieme… ar dormitorio nun ce voglio più venì… si… puzzo e nun me' lavo pure io, ma me’ so rotto li cojoni de’ vedè certa umanità… chi strilla, chi piagne, chi ride, chi sta male, chi vomita, chi scoreggia, chi nun se lava manco se ‘o torturi! Dopo quindic’anni nun ce la faccio più!

    – E perché non viene pure lei in mensa? – chiese Enzino.

    – Nun ce vole venì… che ne so pecchè.

    – Ma tu gliel’hai chiesto? – chiese Giacomo.

    – Si… ma lei nun ce vole venì. E io nun voglio insiste… così, ognuno se fa la sua vita e poi ce ritroviamo la sera.

    – Ragazzi… – disse Emilio – s’è fatto tardi e fa freddo. Torniamo al dormitorio prima che ci chiudono fuori.

    – Si… c’hai ragione Emì – disse Giacomo.

    – Boh, io ve saluto… se vedemo domani.

    – Ciao Mario! A domani – dissero gli altri quasi in coro.

    Dopo aver salutato i compagni, Mario si avviò verso la sua suite, come la chiamava lui, inghiottito dal buio della notte che incombeva già da qualche ora, mentre il gruppetto formato da Emilio, Vincenzo, Giacomo e Nanni, si avviò celermente verso il dormitorio municipale.

    Il freddo era pungente. Si alzarono tutti quanti il bavero del cappotto e si avvolsero attorno una coperta che ognuno di loro portava sempre con sè, coprendosi la testa con berretti rimediati in qualche modo. Così imbacuccati, proseguirono a passo spedito verso la meta, malgrado i loro acciacchi e le ossa scricchiolanti. Nessuno di loro poteva dire di stare minimamente bene, ma ognuno di loro aveva imparato a fregarsene degli acciacchi, considerati un accidente con cui convivere normalmente, senza patemi d’animo né traumi esistenziali.

    Finalmente arrivarono al dormitorio: ma era tardi. Erano quasi le undici e trovarono la porta puntualmente chiusa.

    – Porca puttana! – disse Vincenzo – E adesso?!

    – Calmi… – disse Emilio – andiamo dal custode, lì… in quella porticina più in là.

    – Andiamo a suonare allora... che aspettiamo? – rispose Vincenzo.

    – Aspetta – disse Emilio – vado solo io… se ci vede in tre, ci manda tutti a quel paese.

    – Ha ragione… – disse Giacomo – da quella sera che è stato malmenato… –

    – Come?! – chiese Vincenzo.

    – Si… erano in tre. Rientrati come noi tardi, ma ubriachi. Lui non voleva aprire e quelli hanno spaccato la porticina, l’hanno preso e gli hanno fatto pelo e contropelo.

    – Ecco! – sentenziò Emilio – Fate andare solo me, anche perché lo conosco il custo- de.

    Si avviò verso la porticina, confuso e agitato, vista l’ora tarda e si avvicinò al campanello, suonando con un tocco leggero e attendendo una risposta via citofono. L’attesa fu lunga e spasmodica; il povero cuore di Emilio era in tumulto, sia per la vergogna per ciò che si accingeva a chiedere che per il modo in cui era imbacuccato. Dal citofono non arrivò nessuna risposta e, proprio mentre stava per dare un secondo e meno leggero tocco al campanello, sentì, improvvisamente, la porticina aprirsi. Fece la sua comparsa il custode, tutto imbacuccato anch’egli, con un’aria torva e accigliata, che si rivolse ad Emilio in maniera burbera e scontrosa.

    – Che c’è! Che cavolo vuoi a quest’ora?! – disse con tono imperioso.

    – Mi scusi, ma… siamo rientrati adesso e abbiamo trovato la porta d’ingresso chiu- sa… – disse timoroso Emilio.

    – E beh?! Non lo sai che d’inverno chiudiamo alle undici?!

    – Si, lo so… ci scusi. Ma adesso ci apra per favore, fuori fa un freddo cane.

    – Mi dispiace, ma adesso dormite fuori! Così un’altra volta imparate a non rispettare gli orari.

    – Aspetti!… – disse Emilio innervosendosi – Le ho detto e le ripeto che non si ripeterà più! Ma per stavolta ci apra questo cavolo di portone… qui siamo sotto zero! Come possiamo dormire all’aperto?!

    – Potete, potete… tanti di voi lo fanno, perché non lo puoi fare anche tu?

    – Mi ascolti... – incalzò Emilio, controllando a stento l’ira – le do la mia parola che non si ripeterà più! Ma adesso, la prego, apra ‘sta porta… non sto neanche bene stasera e se dormo all’aperto non arrivo a domani.

    – Si… tutti uguali siete! Menefreghisti e irresponsabili… se non stavi bene avevi solo da tornare prima! Comunque… per stavolta vi apro, ma… che sia l’ultima volta!

    – Stia tranquillo, stia tranquillo…

    Il custode andò su nella sua abitazione, prese le chiavi della porta d’ingresso, scese, sempre più accigliato e torvo in viso e, senza degnare di uno sguardo l’infreddolito gruppetto, aprì la porta e sparì nell’oscurità. Emilio e gli altri entrarono silenziosamente nel dormitorio, cercando di non fare il minimo rumore per non svegliare nessuno, ma, visto il ronfare cupo e talora preoccupante di tutti gli ospiti del dormitorio, questo era l’ultimo dei problemi.

    – Bene ragazzi… – disse Emilio a voce bassa – io mi corico e… vi saluto.

    – ‘Notte Emì… – disse Giacomo – a proposito… domattina cosa fai?

    – Non lo so Giacomo… adesso sono stanco.

    – Va bene… allora buonanotte ragazzi – disse Giacomo rivolto verso i compagni.

    – Buonanotte… a domani – rispose Vincenzo, mentre Nanni già ronfava.

    Emilio diede qualche colpetto sul cuscino, si avvolse altri stracci intorno e si coprì, quasi sparendo. Lasciò scoperto solo il naso e la fronte, rannicchiando le gambe verso il corpo e mettendosi su un fianco, una posizione a lui ideale che conciliava la comodità con il tepore.

    Prima di addormentarsi pensò alla serata appena trascorsa con i compagni, culminata con quell’elemosinare la chiave d’ingresso al custode: ci pensava e ripensava, con rabbia ed impotenza insieme. Quando aveva avuto bisogno di qualcosa che andava aldilà dei bisogni primari (che sapeva come soddisfare), si era sempre dovuto sottomettere, annullando se stesso. Era questo che lo faceva star male, ancor più dei dolori fisici: il non avere nessun diritto perché straccione. Neanche davanti ad un umile custode, che, grazie a quella piccola divisa, riusciva a tracciare fra sè e gli altri un netto distacco, pur essendo breve il passo che avrebbe potuto trasformarlo da piccolo despota a povero malcapitato.

    Ma era solo uno dei tanti, piccoli e continui conflitti cui la sua vita da randagio l’aveva costretto, costringendolo ad elemosinare anche il minimo diritto. E così, quasi rassegnato, chiuse gli occhi, addormentandosi.

    3 – SOLIDARIETA’

    Emilio passò una notte agitata. Ebbe anche delle brevi convulsioni perchè la febbre, mai passata del tutto, era ripresa a salire fino a farlo sudare e ansimare. Probabilmente era stato il troppo freddo preso la sera prima, oppure quel suo trascinarsi incurante degli acciacchi; sta di fatto che quella notte fu per lui lunga e sofferta. All’alba era madido di sudore e la febbre aveva preso a tormentarlo, manifestandosi in tutta la sua virulenza, tanto che continuava, quasi in preda a un incubo o a un brutto sogno, a ruotare il capo a destra e a sinistra e, nel contempo, a ripetere ossessivamente frasi incomprensibili e deliranti. A quell’ora tutti dormivano, ma Nanni lo spaventapasseri, soprannominato in tal modo per il suo fisico ossuto e barba e capelli ispidi, aveva il solito bisogno impellente da espletare, manifestatosi quella mattina un pò in anticipo. Andò veloce- mente in bagno a sbrigare l’incombenza e, nel tornare a letto, vide Emilio che ruotava la testa da una parte all’altra e ripeteva a bassa voce frasi sconnesse e deliranti, ormai in preda ad una crisi acuta. Nanni gli si avvicinò, quasi intimorito, provando a chiamarlo e a scuoterlo leggermente, appoggiandogli la mano sulla spalla, ma Emilio non rispon- deva, salvo sussultare un attimo quando Nanni lo scuoteva per poi proseguire quel delirio ormai inarrestabile. Nanni non sapeva più che fare. Non aveva mai visto Emilio in quelle condizioni. Si girò allora intorno a sé e si fermò su Giacomo, che ronfava con la bocca quasi spalancata, reputandolo l’unico in quel momento capace di conservare un pò di calma ed essere di aiuto.

    – Giacomo!… Giacomo svegliati! C’è Emilio che sta male! – disse scuotendolo.

    Giacomo era ancora in preda ad un sonno pesante. Ronfava e sbuffava, lamentandosi per quella mano fastidiosa che sentiva sulla spalla, ma Nanni insistette.

    – Giacomo svegliati! C’è Emilio che ha la febbre alta!

    Giacomo riuscì ad aprire gli occhi e, guardando Nanni in faccia, con la bocca ancora impastata e la parola balbettante, cercò di capire cosa gli stesse dicendo.

    – Ma che cazzo c’è Nanni!... Cosa vuoi a quest’ora?! – disse con voce roca.

    – C’è che Emilio sta malissimo!… Ha la febbre alta e delira.

    – Ma… stai scherzando?! Poche ore fa stava bene! – disse Giacomo, quasi sopraf- fatto dallo stupore.

    – Poche ore fa! Ma adesso ha la febbre alta e delira.

    Giacomo si alzò di scatto e, così com’era, scalzo e avvolto negli stracci, si avvicinò ad Emilio provando a chiamarlo.

    – Emilio! Emilio rispondimi! Sono Giacomo! Emilio!

    Continuò a chiamarlo una decina di volte e a scuotergli leggermente la spalla, ma Emilio continuava imperterrito a delirare. Gli toccò la fronte; scottava ed era completa- mente imperlata di sudore, così come i capelli, intrisi e cascanti a boccoli sugli occhi. Non ci mise molto a capire che la situazione era veramente seria e che non bisognava perdere neanche un minuto.

    – Stai qui! Vado dal custode e faccio chiamare subito un’ambulanza! – disse Giacomo a Nanni.

    Giacomo uscì senza mettersi nulla addosso e corse subito verso la porticina di accesso all’abitazione del custode. Il freddo quasi lo paralizzò ma, pur intirizzito e livido per quel gelo improvviso, trovò la forza di fare quei pochi metri. Giunto alla porticina, suonò ripetutamente il campanello. Era in preda all’angoscia, sia per le condizioni di Emilio, che per il profondo malumore di dover rivedere quell’uomo, scontroso e sprezzante. Dopo pochi ma interminabili secondi, sentì passi pesanti avvicinarsi e l’uomo sbraitare, in preda all’ira per la levataccia insolita.

    Chi è quel figlio di un cane che rompe i coglioni a quest’ora??!, disse ad alta voce. Subito dopo aprì con un gesto stizzito la porta, mostrando il suo bel faccione iracondo e urlando immediatamente con tutta la rabbia che aveva dentro.

    – Ancora voi?! Ma vi devo prendere a calci nel culo? Che vuoi a quest’ora! –

    – Stia calmo e mi ascolti… – disse Giacomo, conservando la calma – Emilio, il mio compagno, sta molto male e delira perché ha la febbre alta… bisogna chiamare subito un’ambulanza, non c’è un minuto da perdere!

    – Come?! É quello straccione che è venuto poche ore fa a chiedermi la chiave d’ingresso?

    – Si! É proprio lui! E la smetta di chiamarci straccioni e chiami subito un’ambu- lanza, prima che perda la pazienza! – rispose Giacomo infuriato.

    – Sta calmo… non è né il primo e né l’ultimo straccione con febbre alta!… E io non voglio né ambulanze e né polizia… aspetta qui, vado a prendere qualcosa di sopra.

    – Ma cos’è un medico lei? Che cavolo ne sa di cosa c’ha il mio compagno?

    – Sta zitto! Il tuo compagno ha preso qualche virus in giro… è inverno e voi girate raccattando tutte le malattie e i microbi che ci sono.

    – Senta… io… io… se Emilio dovesse peggiorare, io…

    – Che fai, eh?! Chiamatela da sola l’ambulanza allora!

    E fece il gesto di chiudere la porta, ma Giacomo la bloccò col piede e con una mano.

    – Va bene… va bene. Vada a prendere qualcosa, l’aspetterò qui… mi faccia entrare però, qui fa un freddo cane.

    – Entra… e aspettami qui.

    Il custode andò su, continuando a sbuffare e a farfugliare parole incomprensibili, contrariato per la levataccia e il freddo pungente. Tornò poco dopo, con qualche scatola di medicinali.

    – Allora… questo è un antibiotico… e quest’altro, invece, serve per far abbassare la febbre. Sono da dare per bocca, prima l’antibiotico e poi l’altro. C’è un cucchiaino dentro tutte e due le scatole, riempilo e poi dallo al tuo amico. Nel frattempo mettigli anche qualche straccio umido sulla fronte, capito?

    – A che serve ‘sto straccio?

    – Serve a fargli scendere la febbre più velocemente.

    – Ma… è sicuro che funzioni? –

    – Ascolta amico… ne ho curati tanti prima di lui... è più di vent’anni che sono qui. Dagli subito le medicine, non aspettare… e mettigli l’impacco sulla fronte.

    – Si si… va bene, ma… se peggiora ritorno!

    – Fa come ti dico, vedrai che non dovrai tornare. E dì al tuo amico di prendere quelle medicine per sette giorni, due volte al giorno, una al mattino e l'altra la sera.

    – Va bene. Grazie… per ora –

    – Spero di non rivederti più per oggi.

    – Lo spero anch’io.

    Giacomo tornò al dormitorio, con il corpo infreddolito a tal punto da camminare in maniera rigida e quasi scomposta e si diresse immediatamente verso la branda di Emilio. Nanni era ancora lì, appiccicato alla branda, e non aveva smesso un attimo di sorve- gliarlo e di sussurrargli parole di conforto.

    – Nanni… ascolta… il custode non ha voluto chiamare l’ambulanza, ma mi ha dato queste – disse Giacomo quasi sussurrando e mostrando i medicinali.

    – Ma Giacomo… questo sta male! E poi… chi cazzo è il custode?! Un medico? Portiamolo noi in ospedale!

    – Ma non vedi come sta?! Dove cazzo lo portiamo conciato così! Morirebbe per strada!

    – Ssst… piano che svegli tutti! – disse Nanni a voce bassa ma ferma – Va bene… diamogli queste cose… ma come lo imbocchiamo?

    – Aprigli la bocca e tienilo fermo… io gli infilo il cucchiaino.

    – Ma se si muove in continuazione, come facciamo a fargli entrare ‘sto liquido in gola?

    – Proviamoci, no?! In questa merda di vita sarà mica la cosa più difficile che ti è capitata!

    – Va bè, va bè… proviamoci… mannaggia a te e a quello stronzo del custode…

    – Piantala e aiutami piuttosto… adesso sembra che si è calmato. Devi aprirgli la boc- ca tenendogli con le mani le guance ferme… appoggia bene le mani sulle guance e stringi, capito?

    – Prepara prima ‘sto cucchiaino Giacomo…

    – Si…

    Giacomo aprì la scatola d’antibiotico e riempì il primo cucchiaino di plastica, poi fe- ce un cenno di assenso a Nanni, che cominciava a sudare e ad ansimare.

    – Dai Nanni… aprigli la bocca, io sono pronto.

    Nanni fermò con il palmo delle mani le guance di Emilio e con il pollice e l’indice di entrambe le mani gli aprì la bocca.

    – Così! Bravo! Ora resisti che gli infilo ‘sto coso in bocca.

    Giacomo fece un movimento rapido della mano e avvicinò il più possibile il cucchiaino alla gola di Emilio, poi lo abbassò con un movimento repentino. Emilio sussultò un attimo e, nello stato di semi incoscienza, contrasse la gola ingurgitandone il liquido. Ripeterono la stessa operazione anche per l’altro medicinale, con molte diffi- coltà, dopo imprecazioni e qualche immancabile bestemmia, ma riuscirono a fargli ingurgitare anche quello. Poi, seguendo il consiglio del custode, gli appoggiarono sulla fronte qualche straccio umido e lo vegliarono a turno, fino all’ora della sveglia.

    4 – BUON SANGUE…

    Dopo qualche ora, Emilio si svegliò con l’aria stralunata di chi ha interrotto un lungo sogno. Accanto a sè, da un lato e l’altro della branda, c’erano Giacomo e Nanni, entrambi appisolati. Li guardò stupito e interdetto, come fossero estranei, come se lui e quei due uomini non avessero nulla a che spartire. Passato qualche minuto d’intonti- mento e di stupore, si buttò giù dalla branda, accusando subito una certa debolezza nelle gambe e dolori a tutte le articolazioni. A questo vi era abituato, però. Ciò a cui non era mai riuscito ad abituarsi, invece, era il rimanere lì, in quel posto, oltre il tempo necessario del riposo notturno, che lo costringeva tutte le mattine a fuggire e a trovare, nella strada, come un senso di liberazione. Mancava poco alla sveglia. Poteva ancora approfittare di quel breve lasso di tempo per raccogliere tutti i suoi stracci e uscir fuori da quel dormitorio ma, mentre stava silenziosamente guadagnando l’uscita, sentì una voce sussurrante provenire alle sue spalle: era Nanni.

    – Emilio… Emilio… dove vai?

    – Come dove vado… fuori da ‘sto posto! Lo sai che quando mi sveglio non ce la faccio a stare più di due minuti qua dentro.

    Nanni, però, ben sapendo quale nottata Emilio avesse passato, si alzò in piedi cer- cando di farlo desistere.

    – Emilio… ma dove cazzo te ne vai?

    – Eh?!

    – Ma dove te ne vai col febbrone che hai avuto stanotte?!

    – Io? Io ho avuto un febbrone? Ma… ma mi stai prendendo per il culo?!

    – Ma non dire scemenze! Stanotte deliravi… io e Giacomo siamo stati vicino a te tut- ta la notte.

    – Ma che stai dicendo Nanni? Io deliravo! Ma… ma io sto bene!

    – Guarda! – disse Nanni mostrando ad Emilio i medicinali – Hai preso questi sta- notte!

    – E… chi ve li ha dati questi medicinali?

    – Il custode…

    – Lui! Proprio lui! Cos’è diventato… il salvatore degli straccioni?

    – Lascia perdere... Giacomo ha dovuto quasi litigare per farlo scendere. Gli ha chie- sto di portarti ad un pronto soccorso ma lui non ne voleva sapere e alla fine gli ha dato queste medicine… ma da come ti sei ripreso sembra che il vecchio c’ha visto bene.

    – Beh… febbre o non febbre ora sto bene, e quindi vado. Sennò qui dentro mi am-

    malo di nuovo!

    – Emilio, aspetta!... Prenditi almeno ‘ste medicine! Il custode ha detto che le devi prendere per cinque giorni, mattino e sera.

    – Dai qua ‘ste medicine… che cazzo servono queste? A rovinarti lo stomaco? Vabbè va… vado.

    – Occhio Emilio…

    – Tranquillo… sta tranquillo. Ci vediamo oggi in mensa.

    – Va bene… ciao Emilio.

    – Ciao Nanni –

    Emilio riprese le sue povere cose e, senza aggiungere altro, s’allontanò. Quando uscì fu quasi sferzato dall’aria fredda di tramontana e, il contrasto con il lieve e avvolgente tepore del dormitorio, lo costrinse a far appello a tutta la sua forza di volontà per non tornare indietro e dare ragione a Nanni. Ci mise parecchi minuti a riadattarsi alla temperatura fredda e impietosa della strada, il tempo necessario per ritrovare il suo solito spirito, fiero e libero, grazie al quale era riuscito a sopravvivere. Col passar dei minuti si rendeva però conto, a malincuore, che Nanni non avesse tutti i torti. Le sue gambe erano ancora malferme, a volte si piegavano e, malgrado la sua forza di volontà, non poteva evitare qualche leggera perdita di equilibrio, che controbilanciava puntando l’altra gam- ba e irrigidendo il busto. Dopo aver percorso qualche centinaio di metri, la stanchezza cominciò a farsi sentire. Con la mente avrebbe voluto proseguire, liberandosi di angosce e paure, ma il corpo si opponeva, rendendo necessaria una sosta. Alla prima panchina che vide, quindi, vi si sedette, quasi accasciandosi e, in quel momento, colpito da umana debolezza e da forte delusione per quella inaspettata precarietà, una lacrima gli attra- versò il viso, giungendo fino alle labbra senza incontrare ostacoli e neanche una mano pronta ad asciugarla. Fu un momento. Emilio fece appello al proprio orgoglio e alla propria forza interiore, due sentimenti cui aveva sempre fatto appello per scacciare la paura quando essa s’insinuava strisciante e, ad essi, vi aggiunse l’amore. Infatti, l’unica cosa che gli dava un pò di conforto in quella mattina tetra e nebbiosa, era il ricordo del figlio. Come poteva essere quel ragazzo adesso? Alto o basso, robusto o magro, fiero e onesto o acquiescente e insensibile… come poteva essere quel ragazzo, quel figliolo che bramava riabbracciare e al cui cospetto non aveva neanche il coraggio di presentarsi? Avrebbe mai potuto comprendere il gesto del padre? Forse…

    Ed era quel forse a spezzargli il cuore. Quel forse, protratto nel tempo, era diventato come un tarlo che lo consumava pian piano e con cui non riusciva più a convivere. Emilio sentiva come una morsa stringergli il cuore e, nel contempo, il desiderio estremo di essere compreso da quel ragazzo che non aveva mai smesso di desiderare. Spesso, però, forza e debolezza convivono. E la forza del ricordo del figlio, dell’unico ricordo della sua vita passata che custodiva gelosamente, conviveva con la debolezza della comprensione, senza che nessuna delle due prevalesse sull’altra annullandola. Emilio era anche questo : un uomo sospeso fra l’essere e il voler essere.

    Tentò di scrollarsi di dosso quella struggente malinconia, alzandosi a fatica e appellandosi a tutta la sua forza di volontà e proseguì il suo cammino, senza meta né scopo. Il vento di tramontana continuava a sferzare l’aria ed Emilio aveva ripreso a sentir freddo. Con un gesto meccanico e veloce, prese dal sacco che portava sempre con sè una coperta ben pesante e se la mise sulle spalle, abbassandosi nel contempo ancor di più il berretto che aveva sul capo. Così, tutto infagottato e irriconoscibile, arrivò nelle vie centrali della città.

    Trascorse qualche ora passeggiando senza meta, colpito dalla frenesia della gente che camminava in modo nervoso e frettoloso. Ormai quella vita randagia, così lontana dalle smanie consumistiche che lui non si poteva concedere, gli aveva fatto quasi perdere la cognizione del tempo, ma la vista della gente e delle vetrine tutte illuminate e addobbate a festa, gli avevano fatto ricordare che era prossimo il Natale. Era una festa che non amava, proprio perché simbolo della riunione familiare, riunione che lui ormai agognava da anni ma che si era ormai rassegnato a considerare una chimera.

    Visto il sostenuto viavai di persone provò a sostare sotto i portici, inginocchiandosi e stendendo la mano aperta per raggranellare qualcosa. Quella sera, però, a differenza di altre sere, non riusciva ad alzare il viso e a guardar la gente. Provava un senso di angoscia in quei sorrisi a lui preclusi, stampati su volti di persone tutte uguali, che consumavano il solito rito natalizio senza che in essi nulla rimanesse, se non l’irrefre- nabile desiderio di condividere un qualcosa di materiale prima che spirituale.

    Quel pomeriggio andò meglio di tante altre volte e riuscì a raggranellare una discreta sommetta, benché fosse stato spesso toccato o spintonato dalla gente, vista la calca dell’ora di punta. Ma era stanco. Stanco di stare inginocchiato e con la mano tesa, offrendo il proprio corpo come segno evidente e inequivocabile del proprio disagio; stanco di indurre pietà e compassione in quella gente che, nel migliore dei casi, acquietava la propria coscienza offrendo stancamente e svogliatamente qualche spiccio- lo e, nel peggiore, ridacchiava o sfotteva il suo mostrarsi povero e bisognoso. Ed era stanco anche dell’indifferenza generale, sia in chi dava qualcosa, mosso da carità, che in chi non dava nulla. Era stanco di quell’assoluta mancanza del benché minimo dialogo, della benché minima parola di conforto, che riduceva il suo elemosinare a puri gesti meccanici: aprire la mano e richiuderla, solo per riporre in tasca qualche moneta. Dopo un’oretta decise di andarsene e, alzandosi a fatica, raccolse i suoi stracci e si avviò verso qualche posto più tranquillo. Mentre si stava avviando, allontanandosi da quella insop- portabile calca, udì il suo nome e una voce a lui familiare chiamarlo.

    – Emilio! Emilio!

    Era Nanni. Emilio si girò e, accennando un sorriso, gli si fece incontro.

    – Nanni!

    – Hai deciso di crepare prima del tempo?! – disse Nanni.

    – Perché?

    – Ma quanto sei scemo!... – disse Nanni sorridendo – Ma ti rendi conto che qualche ora fa deliravi?

    – Deliravi… deliravi… quanto la fai tragica!

    – Vabbè va… andiamo a mangiare adesso, sennò ci tocca fare di nuovo un’ora di coda.

    – Andiamo andiamo.

    Arrivarono alla mensa stanchi e affamati. In lontananza Giacomo scorse Emilio, che gli corse incontro abbracciandolo.

    – Aho! Guardalo qua il moribondo!

    – Tiè! – rispose Emilio, facendo il gesto delle corna.

    – Altro che ospedale… quelli come te, per ricoverarli, li dovrebbero legare!

    – Volete che ce allontanamo e ve lasciamo da soli? – disse Mario sorridendo.

    – Ciao Mario…

    Emilio salutò e abbracciò il suo vecchio amico, che ricambiò calorosamente.

    – Che… ce volevi lascià stanotte?

    – Sta tranquillo Mario… non è ancora la mia ora.

    – Ma ce mancherebbe! Sai quanti gran fiji de' ‘na mignotta dovrebbero crepà prima de’ te! Ce sarà ‘na giustizia a ‘sto monno!

    – Giustizia… ora muoviamoci a fare ‘sta coda che ho lo stomaco che urla!

    – Emì! Pure stasera se magna bbene! Senti che odorino… dimme se… se nun te sà de' fagioli co ‘e cotiche!

    – Andiamo dai! Prima che faccio uno sproposito – aggiunse Nanni.

    – E daje co ‘sto sproposito! Ma sei proprio de’ coccio!

    – Dai Mario... – disse Giacomo scherzando – lo sai com’è, no? Dice dice…

    – E se nun ce fossimo noi, sarebbe o ar gabbio o sur letto de’ n’ospedale!

    – Esagera! Esagera sempre tu – rispose Nanni.

    – ‘Namo va, che è mejo…

    Il freddo aveva ulteriormente acuito la loro fame, rendendo la mensa una meta agognata più di ogni altra cosa e, fortunatamente, quella sera la mensa aprì prima del solito. Emilio e i suoi compagni vi entrarono come un’orda di affamati che non vedono cibo da giorni; si servirono velocemente e si sedettero vicini, stringendosi l’un con l’altro, quasi a scaldarsi reciprocamente, divorando tutto senza neanche un istante di pausa. Ripulirono i piatti con accurata e meticolosa precisione, accompagnando il tutto con abbondanti libagioni e, al termine di quella gradita cena, uscirono dalla mensa per scambiarsi le solite quattro chiacchiere.

    – Ragazzi… stasera rientro prima – disse Emilio – fa freddo e sono stanco.

    – A Emì… – disse Mario – sta scrollatina nun t’è ancora passata, vero?

    – Beh… un’altra scoppola così e mi ricoverano per davvero!… E voi che fate?

    – Noi rimaniamo ancora un po’ Emilio… – disse Giacomo.

    – Va bene… buona notte allora.

    Dopo i saluti, Emilio si avviò frettolosamente verso il dormitorio. Il tragitto era bre- ve, ma il desiderio di stendersi, e quello di un luogo chiuso e riparato da quel freddo sferzante, gli velocizzarono il passo, tanto che, in poco tempo, giunse a destinazione.

    Entrò nel dormitorio quasi furtivamente, avvicinandosi subito alla sua branda e, senza nemmeno togliersi le scarpe, vi si stese, sprofondando subito in un sonno pesante. Fece tutta una tirata e il mattino dopo si svegliò di buon’ora. Aprì gli occhi, guardandosi per qualche istante intorno, ma colse solo lo sfarfallìo di qualche luce esterna o la proiezione strana e tetra di qualche ombra. Fuori era ancora buio, l’inverno era alle porte e la luce del giorno tardava a illuminare la città. Quella mattina, però, aveva un forte e irrinun- ciabile proposito. Passato qualche secondo d’intontimento scese dalla branda, cercando di evitare il benchè minimo rumore; nulla e nessuno doveva distrarlo da ciò che quella mattina aveva in mente di fare: una visita alla tomba dei suoi genitori, morti in quello stesso mese di dodici anni prima.

    Uscì di corsa, tutto imbacuccato, e si fermò solo pochi minuti al bar nei pressi del dormitorio, consumando una frugale e veloce colazione. Il cimitero non era molto distante, una mezz’oretta a piedi e, incurante del freddo di quella mattina decembrina, affrettò il passo ancor più del solito, arrivando al cimitero quasi trafelato. Vi entrò e fece il percorso che ormai faceva ogni anno in quel periodo, ogni anno con una sofferenza sempre maggiore, portando con sè il fardello di essere stato, suo malgrado, la causa scatenante della morte dei suoi genitori. Giunto davanti alle lapidi s’inginocchiò, e la sua mente corse inevitabilmente a molti anni prima.

    – Emilio… perché sei così strano? Qualcosa non va

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