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Il Cercatore di Piste
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E-book549 pagine8 ore

Il Cercatore di Piste

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Info su questo ebook

1758. La giovane Mabel Dunham, accompagnata dallo zio e da una guida indiana, attraversa la regione dei Grandi Laghi per ricongiungersi con suo padre, sergente in una guarnigione vicina all'Ontario. Durante la traversata incontra Natty Bumppo – il Cercatore di Piste – che la condurrà in salvo dalle aggressioni dei pericolosi Irochesi e si innamorerà di lei.
Inizia così uno dei più avvincenti romanzi del ciclo di "Calza di Cuoio" Natty Bumppo, che qui ritroviamo a quasi quarant'anni, circa un anno dopo gli eventi narrati ne "L'Ultimo dei Mohicani".
LinguaItaliano
Data di uscita20 mar 2019
ISBN9788899403713
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    Anteprima del libro

    Il Cercatore di Piste - J. Fenimore Cooper

    Prefazione

    La trama di questa storia si è suggerita da sola all’autore molti anni fa, anche se i dettagli sono interamente di recente invenzione. L’idea di associare marinai e selvaggi in incidenti che dovrebbero essere caratteristici dei Grandi Laghi venne riportata all’editore, e quest’ultimo ottenne dall’autore una specie di impegno a completarla nel futuro, impegno che è ora assolto, sia pure tardi e in modo imperfetto.

    Il lettore potrà riconoscere nel protagonista della storia un vecchio amico alle prese con nuove circostanze. Se il fare mostra di questa vecchia conoscenza, nelle circostanze del romanzo in cui appare, non diminuirà il favore del pubblico nei suoi confronti, questo sarà fonte di enorme gratificazione per l’autore, visto il suo interesse per l’individuo in questione che è poco meno che reale. Tuttavia non è facile introdurre lo stesso personaggio in quattro diverse opere, e mantenere le peculiarità che sono indispensabili per l’identità, senza incorrere nel rischio di annoiare il lettore; e questo esperimento è stato rimandato così tanto proprio per i dubbi riguardo il suo successo che per qualsiasi altra causa. Questa, come in tutte le imprese, dovrà essere la fine che coronerà il lavoro.

    I personaggi indiani sono così pochi che mi sono sforzato di non soffermarmici troppo; la loro alleanza con i marinai, temo, potrà essere vista più come una novità che altro.

    Il neofita potrà ritenere un anacronismo le navi nell’Ontario alla metà del diciottesimo secolo; ma in questi particolari eventi è importante prendere una licenza poetica. Anche se le navi nominate in queste pagine potrebbero non essere mai esistite su quelle acque o in qualsiasi altro posto, altre molto simili a loro hanno navigato quel mare interno, anche in periodi molto precedenti quelli appena menzionati, da giustificare la loro presenza in un’opera di narrativa. Generalmente ci si dimentica, nonostante debba essere ricordato, che ci sono dei punti isolati lungo la linea dei grandi laghi che sono stati colonizzati nella stessa epoca dei primi insediamenti americani. e che furono civilizzati quando la maggior parte dei vecchi Stati Uniti era ancora allo stato selvaggio.

    L’Ontario ai giorni nostri è stato lo scenario di importanti evoluzioni navali. Le flotte sono state portate in quelle acque che, mezzo secolo fa, erano deserte; e non è lontano il giorno in cui l’interezza di quei vasti laghi diventerà parte dell’impero, e gravida di tutti gli interessi della società umana. Una rapida occhiata, sia pur in un’opera di finzione, a cosa è stata fino a pochi anni fa quella vasta regione, può essere d’aiuto per conoscere e apprezzare i magnifici mezzi con cui la Provvidenza sta spianando la strada per il progresso della civilizzazione in tutto il continente americano.

    I.

    Il senso del sublime, che è insito nella vastità spaziale, è compreso da chiunque. Ognuno di noi, nel contemplare le profondità dello spazio senza limiti, si sente invaso dai pensieri più complessi, più alti, più puri che immaginazione di poeta possa inventare. Raramente il novizio osserva con indifferenza la distesa dell’oceano, e anche nell’oscurità della notte la mente trova un paragone a tanta grandezza attraverso immagini che non hanno alcun rapporto con il mondo sensibile. È in questo stato d’animo, assai affine all’ammirazione e a un reverente timore – l’una e l’altro creature del sublime – che i vari personaggi con i quali ha inizio l’azione di questo racconto stavano contemplando lo spettacolo che si offriva ai loro occhi. Erano quattro in tutto – due uomini e due donne – ed erano saliti su una catasta di tronchi che una tempesta aveva sradicato, per meglio osservare il paesaggio circostante. Ancor oggi queste località si chiamano nella regione di cui parliamo corridoi del vento. Infatti, lasciando penetrare la luce del cielo negli oscuri e umidi recessi boschivi essi formano quasi altrettante oasi nella solenne oscurità delle foreste vergini americane. Il corridoio del vento di cui scriviamo si apriva sul ciglio di un’altura digradante e, per quanto di proporzioni modeste, offriva un’ampia vista a coloro che ne occupassero il margine superiore, fortuna che toccava di rado ai viaggiatori dei boschi. Non è stata ancora accertata la natura della forza che tanto spesso crea luoghi abbandonati come questo testé descritto: alcuni ritengono sia dovuta ai turbini che provocano sugli oceani le trombe marine, mentre altri l’ascrivono a passaggi violenti e improvvisi di correnti elettriche, ma gli effetti di essa nei boschi sono noti a tutti. Sul margine superiore della radura questa influenza invisibile aveva ammucchiato un tronco sull’altro in modo da consentire non solo ai due uomini della comitiva di salire su un’elevazione distante tre metri circa dal livello del suolo, ma anche di persuadere le loro più timide compagne a seguirli, sia pure con aiuti e incoraggiamenti. Gli immensi tronchi che la violenza degli uragani aveva spezzati e divelti giacevano alla rinfusa gli uni sugli altri come tanti spaventapasseri, e i loro rami, dai quali emanava ancora una fragranza di foglie in disfacimento, erano intrecciati in modo da consentire alle mani un certo appoggio. Un albero era stato completamente sradicato e la sua estremità inferiore, tuttora ricoperta di terra, era stata scagliata verso l’alto in modo da offrire una specie di piattaforma ai nostri quattro eroi, non appena ebbero raggiunto la distanza voluta dal suolo.

    Il lettore non deve immaginarsi nella descrizione dell’aspetto personale del gruppo di cui si tratta di ritrovare esposte le ricercatezze proprie della gente di qualità. Erano tutti viandanti di una regione desolata, e, anche se non lo fossero stati, le loro precedenti abitudini e la loro attuale posizione sociale non li avrebbero certo abituati a eccessive raffinatezze. Del resto due membri della comitiva – un uomo e una donna – erano indiani autoctoni della ben nota tribù dei Tuscarora, mentre i loro compagni erano un uomo, il quale recava impresse sulla persona le caratteristiche di chi ha trascorso quasi tutta la vita in mare e doveva essere poco più di un comune marinaio, e una donna, appartenente suppergiù alla medesima classe del marinaio, per quanto la sua giovinezza, il suo aspetto e un portamento modesto ma ardito al tempo stesso indicavano in lei intelligenza e raffinatezza, doti che tanto contribuiscono ad accrescere il fascino della bellezza femminile. In quel momento i suoi grandi occhi azzurri rispecchiavano il senso di sublimità grandiosa suscitato in lei dal panorama, e il suo grazioso viso splendeva dell’espressione pensosa che tutte le emozioni profonde, anche se provocate dalla gioia più pura e più lieta, sempre dipingono sul volto delle creature intelligenti e meditative.

    E in verità la scena era di natura tale da impressionare profondamente l’immaginazione di chi la contemplava. Verso occidente, dove erano rivolti gli sguardi della comitiva, l’occhio spaziava su un oceano di foglie, su un mareggiare di vegetazione lussureggiante in cui si sbizzarriva tutta l’inesauribile gamma di colori propria del 42° grado di latitudine. L’olmo, con la sua fragile graziosa cima, le più ricche varietà di acero, quasi tutte le nobili querce della foresta americana e i tigli dalle larghe foglie mescolavano gli uni con gli altri i loro rami più eccelsi, formando così un tetto di fronde apparentemente sterminato che si perdeva lontano, verso il sole calante, sino a confinare con l’orizzonte e a fondersi con le nubi come si fondono alla base della volta celeste, le onde e il firmamento. Di quando in quando, o per il ghiribizzo delle tempeste o per un capriccio della natura, un tenue varco tra questi giganti della foresta consentiva a un alberello più piccolo di lottare verso la luce e di innalzare la sua modesta chioma quasi a livello con la circostante superficie di verzura. A questa classe di privilegiati appartenevano la betulla – albero di una certa importanza in regioni meno favorite – il pioppo tremulo, parecchi generosi nocciuoli e vari altri arbusti che rassomigliavano a gente bassa e volgare trascinata dalla forza delle circostanze alla presenza dei grandi della terra. Di quando in quando si levava pure al di sopra di ogni cosa, come un monumento solenne innalzato dall’arte su una distesa di foglie, il diritto snello tronco di un pino.

    Era da questa visione sconfinata, da questa pressoché ininterrotta superficie verde che si sprigionava il senso augusto di grandiosità di cui abbiamo parlato. La bellezza era suggerita dalla delicata sfumatura dei colori, posti in ancora maggior risalto dal gioco delle luci e delle ombre, mentre la pace solenne del tutto induceva a un sentimento non disgiunto da un vago e reverenziale timore.

    «Zio», disse la fanciulla stupita e felice insieme, rivolgendosi al suo compagno, al cui braccio si appoggiava appena, e più che appoggiarvisi sfiorava, per aiutarsi nel passo che aveva lieve ma fermo, «questo assomiglia allo spettacolo dell’oceano che tanto ti piace!».

    «Ecco che cosa fa l’ignoranza e la fantasia di una ragazza, Calamita», ché questo era il nomignolo affettuoso che il marinaio usava spesso nel rivolgersi alla nipote, in allusione al suo fascino personale: «soltanto una ragazzina penserebbe a paragonare questa manciata di foglie a un aspetto dell’Atlantico vero e proprio. Anche se tu prendessi le cime di tutti questi alberi e le appuntassi sulla giacchetta di Nettuno gli farebbero l’effetto né più né meno di un mazzolino».

    «Quello che tu dici è più immaginoso che esatto, io credo, zio. Guarda laggiù: saranno miglia e miglia eppure non si scorgono che foglie! Che cosa si vedrebbe di più se si contemplasse l’oceano?».

    «Di più!», ribatté lo zio scrollando con gesto impaziente il gomito che la fanciulla gli stringeva, poiché aveva le braccia incrociate e le mani conficcate entro i risvolti di una giacca di panno rosso, tagliata secondo la foggia dell’epoca; «di più, Calamita? Di meno, vuoi dire? Dove sono i marosi, l’acqua azzurra, i cavalloni, i frangenti, le balene, le trombe marine, il movimento incessante dell’oceano, in questo pezzettino di foresta, bambina?».

    «E dove sono, sull’oceano, zio, le cime degli alberi, questo silenzio solenne, queste foglie fragranti, questo verde meraviglioso?».

    «Non parlare, Calamita; se tu t’intendessi di certe cose, sapresti che l’acqua verde è per un marinaio peggio di una mela acerba, è veleno, addirittura! Del resto gli piacciono ancora meno le ragazzine acerbe e sciocche, per giunta!».

    «Ma gli alberi verdi sono un’altra cosa… Ascolta! Senti che rumore fa il vento tra le foglie!».

    «Dovresti sentire il respiro del maestrale, figliola, per capire che cosa vuol dire il vento. Come vuoi parlarmi di tempeste e di uragani, di alisei e di levanti e di altri simili manifestazioni naturali in questo pezzettino di foresta? E che pesci credi che nuotino sotto questa calma e piatta superficie?».

    «Che anche qui ci siano state tempeste è chiaramente dimostrato da questi segni, e sotto queste foglie se non pesci ci sono certamente animali».

    «Questo non lo so», replicò lo zio con l’assolutismo proprio dei marinai. «Ad Albany ci hanno raccontato tante storie a proposito delle numerosissime bestie selvatiche in cui ci saremmo certamente imbattuti; però finora non abbiamo visto nulla che possa spaventare sia pure una foca. Non credo che qualcuno di questi tuoi bestidi di terraferma si possa paragonare a un pescecane dei mari australi».

    «Guarda!», esclamò la nipote, la quale era assai più presa dalla sublimità e bellezza del bosco sconfinato che non dalle confutazioni dello zio; «laggiù, sopra le cime degli alberi, c’è un ricciolo di fumo. Credi che esca da una casa?».

    «Eh, sì; quel fumo ha un aspetto umano che vale mille alberi», replicò il vecchio lupo di mare. «Bisogna che lo indichi a Punta di Freccia che magari non lo ha notato. C’è sempre da sperare che dove si vede del fumo ci sia anche una cambusa».

    Così dicendo cavò una mano dal panciotto e toccò leggermente la spalla dell’indiano, indicandogli una sottile striscia di vapore che usciva lentamente fuor dell’intrico delle foglie, alla distanza di un miglio circa, diffondendosi in filamenti umidi pressoché invisibili nell’atmosfera vibrante. Il Tuscarora era di quei guerrieri dal nobile aspetto che un secolo fa s’incontravano assai più spesso di oggi tra gli aborigeni del continente americano; pur avendo bazzicato abbastanza con i coloni tanto da impratichirsi delle loro usanze e persino del loro linguaggio, egli non aveva perduto nulla o quasi della selvaggia grandezza e della dignitosa semplicità proprie dei capi indiani. I rapporti tra costui e il vecchio marinaio erano cordiali ma riservati, poiché l’indigeno era sempre stato troppo abituato a trattare con gli ufficiali dei vari avamposti militari da lui frequentati, per non capire che il suo compagno attuale era semplicemente un subalterno. E infatti il Tuscarora si era talmente imposto con la sua riservatezza e la sua superiorità discreta che Charles Cap – tale era il nome del marinaio – non si era mai arrischiato a osare la benché minima familiarità nemmeno nei suoi momenti più baldanzosi o più faceti, ancorché la loro convivenza durasse ormai da oltre una settimana. La vista di quel ricciolo di fumo aveva però colpito il marinaio come l’apparizione improvvisa di una vela sul mare e perciò aveva osato per la prima volta, da quando lo aveva conosciuto, usare una certa familiarità con il guerriero, come abbiamo più sopra descritto.

    Il pronto sguardo del Tuscarora notò immediatamente il fumo e per un lungo minuto l’uomo rimase leggermente ritto sulla punta dei piedi, con le narici dilatate, simile a un cervo che annusi nell’aria un odore infido, e le pupille intente come un segugio bene addestrato, pronto a scattare al primo colpo di fucile del padrone. Dopodiché ricadde sui talloni ed emise una esclamazione sommessa, con quel tono di voce morbido che forma un contrasto tanto singolare con gli accenti solitamente assai più aspri che caratterizzano le voci indiane, normalmente: per il resto lo si sarebbe detto di pietra. Il suo volto era impassibile e i suoi neri e mobilissimi occhi d’aquila che abbracciavano il panorama di foglie, come per coglierne con un solo sguardo ogni particolare, erano la sola cosa viva in quella faccia immota. Certo zio e nipote sapevano perfettamente che il lungo viaggio da essi intrapreso per superare una vasta zona di territorio selvaggio non poteva essere disgiunto da pericoli; tuttavia né l’uno né l’altra potevano decidere a priori se quel segno di una presenza umana nelle vicinanze fosse foriero di bene o di male.

    «Devono esserci da queste parti degli Oneida o dei Tuscarora, Punta di Freccia», disse Cap chiamando l’indiano con il suo soprannome convenzionale anglosassone; «non ci conviene unirci a loro e procacciarci una comoda cuccetta per la notte nella loro capanna?».

    «Non capanna», rispose Punta di Freccia senza batter ciglio; «troppi alberi».

    «Eppure devono essere indiani… probabilmente saranno dei tuoi vecchi commilitoni, padron Punta di Freccia».

    «Non Tuscarora… non Oneida… non Mohawk… fuoco viso-pallido».

    «Che il diavolo se lo porti!… Parola d’onore, Calamita, questo supera la filosofia di un marinaio: noi vecchi lupi di mare sappiamo distinguere la cuccia di un pivello tonto dall’amaca di un anziano in gamba, ma non credo che nemmeno il più esperto ammiraglio della flotta di Sua Maestà saprebbe distinguere il fumo di un re da quello di un carbonaio».

    Il pensiero che accanto a loro, in quell’oceano di verzura, vi fossero esseri umani, aveva reso più vivo il florido incarnato e acceso di una luce più intensa lo sguardo della bella creatura che gli stava al fianco; ma subito la fanciulla si volse a lui con un’espressione sorpresa e disse esitando, poiché entrambi avevano più volte ammirato la saggezza o per meglio dire l’istinto del Tuscarora:

    «Il fuoco di un viso pallido! Ma, zio, è impossibile che sappia questo!».

    «Dieci giorni fa, bambina mia, avrei giurato anch’io la stessa cosa, ma adesso non so più se sarei altrettanto sicuro. Posso permettermi di domandarti, Punta di Freccia, perché ritieni che quel fumo sia il fumo di un viso-pallido e non quello di un pellirossa?».

    «Legno bagnato», replicò il guerriero con la calma imperturbabile con la quale un pedagogo spiegherebbe una dimostrazione aritmetica a un allievo tardo di comprendonio. «Molto bagnato… molto fumo; molta acqua… fumo nero».

    «Ma, scusami tanto, padron Punta di Freccia, quel fumo non è nero e non è nemmeno molto. Ai miei occhi appare leggero e fantasioso come il fumo che si leva dalla teiera di un capitano quando per accendere il fuoco non rimangono più che pochi trucioli di pagliolato».

    «Troppa acqua», replicò Punta di Freccia con un lieve cenno del capo. «Tuscarora troppo furbi per fare fuoco con acqua! Visi-pallidi troppo leggere e bruciare tutte cose; molti libri, poco sapere».

    «Be’, quello che dice è ragionevole, in fondo», assentì Cap cui lo studio non piaceva molto: «questo è un sasso in piccionaia contro tutte le tue letture, Calamita, perché il capo, a modo suo, ha molto buon senso per certe cose. Senti un po’, Punta di Freccia, secondo i tuoi calcoli quanto credi che distiamo dallo stagnettino che tu chiami il Grande Lago e verso il quale stiamo puntando la rotta da tanti giorni?».

    Il Tuscarora fissò il marinaio con tranquilla superiorità e rispose:

    «Ontario, come cielo; un sole, e il grande viaggiatore vederlo».

    «Be’, sono stato sì un grande viaggiatore, è vero; ma devo anche ammettere che di tutti i miei viaggi questo è stato il più lungo, il meno profittevole e il più lontano in terraferma. Se questa ciotola d’acqua fresca è così vicina e così grande come tu dici, secondo me un paio d’occhi aguzzi dovrebbero scoprirla, perché a parer mio da questa coffa si dovrebbe vedere tutto quello che c’è da vedere da queste parti nel raggio di trenta miglia».

    «Guarda!», disse Punta di Freccia allungando un braccio dinanzi a sé con gesto tranquillo e aggraziato, «Ontario!».

    «Zio, è logico che tu non l’abbia visto, abituato come sei a gridare Oooh!… Terraaa…! ma non Oooh! Acquaaa…!», esclamò la nipote ridendo come son solite ridere le ragazzine delle loro ingenue spiritosaggini.

    «Come, Calamita? Pensi dunque che non saprei riconoscere il mio elemento naturale, se lo avessi avvistato?».

    «Ma l’Ontario non è il tuo elemento naturale, caro zietto, perché tu provieni dall’acqua salata, mentre questa è dolce».

    «Questa è una differenza che può forse avere importanza per un marinaio giovane, ma non per un vecchio lupo navigato come me. Bambina mia, l’acqua io la saprei riconoscere anche se dovessi vederla in Cina».

    «Ontario!», ripeté con enfasi Punta di Freccia, puntando nuovamente la mano in direzione nord-ovest.

    Cap guardò il Tuscarora, per la prima volta da quando erano insieme, con un’ombra quasi di sprezzo, pur seguendo lo sguardo e il braccio del capo che erano diretti entrambi verso un punto vuoto del cielo, a breve distanza sopra la distesa di foglie.

    «Già, già; è più o meno quello che mi aspettavo quando lasciai la costa in cerca di una pozzanghera di acqua dolce», riprese Cap crollando le spalle come chi è ben sicuro del fatto suo e ritiene che non occorra aggiunger altro. «L’Ontario potrebbe essere lì quanto nella mia tasca. Be’, spero che quando lo avremo raggiunto troveremo spazio abbastanza per mettere a mollo la nostra canoa. Però, Punta di Freccia, se davvero ci sono dei visi-pallidi in questi paraggi ti confesso che mi farebbe piacere di entrare in contatto con loro».

    Il Tuscarora annuì con un tranquillo cenno del capo e tutta la comitiva scese in silenzio dalle radici dell’albero divelto. Giunti che furono a terra Punta di Freccia annunciò la sua intenzione di avvicinarsi al fuoco per scoprire chi lo avesse acceso, consigliando al tempo stesso la moglie e gli altri due di ritornare a una canoa che avevano lasciata nel vicino torrente e lì di aspettarlo.

    «Ma come, capo, questo potrebbe andare in una manovra di scandaglio o in un tratto di mare noto», replicò Cap, «ma in una regione sconosciuta come questa io ritengo poco prudente permettere che il pilota si allontani da solo dalla nave, perciò, col tuo permesso, non ci separeremo».

    «Che cosa volere mio fratello?», domandò con gravità l’indiano, senza tuttavia mostrarsi offeso di fronte a una diffidenza che era più che manifesta.

    «La tua compagnia, padron Punta di Freccia, semplicemente. Verrò con te a parlare a quei forestieri».

    Il Tuscarora annuì di buon grado e ripeté ancora una volta alla sua paziente e sottomessa mogliettina che di rado volgeva su di lui i grandi e sfolgoranti occhi neri e solo per testimoniargli il suo rispetto, il suo timore e il suo amore, di tornare alla barca. Ma a questo punto s’intromise Calamita. Benché avesse molto spirito e un coraggio insolito non era dopotutto che una donna, e il pensiero di restare abbandonata da parte dei suoi due protettori maschi nel mezzo di una solitudine che i suoi sensi intuivano praticamente sterminata, la spaventò talmente che esternò subito il desiderio di seguire lo zio.

    «Mi farà bene un po’ di moto, caro zietto, dopo essere stata seduta tanto tempo nella canoa», soggiunse, mentre il sangue le riaffluiva in un impeto di rossore alle guance che erano impallidite, nonostante i suoi sforzi per restare calma; «e d’altronde possono esserci anche delle donne tra i forestieri».

    «E vieni dunque, bambina; tanto saranno pochi nodi e torneremo certamente un’ora prima del tramonto del sole».

    Ricevuto il consenso dello zio, la fanciulla, il cui vero nome era Mabel Dunham, si preparò a seguire gli altri due, mentre Rugiada di Giugno, così si chiamava la moglie di Punta di Freccia, si diresse passivamente verso la canoa, troppo abituata all’obbedienza più cieca, alla solitudine e all’oscurità della foresta per concepire timore.

    I tre rimasti nel corridoio del vento s’inoltrarono ben presto nel suo intricato labirinto e raggiunsero il margine dei boschi. A Punta di Freccia bastarono poche occhiate, ma il vecchio Cap volle assolutamente stabilire il punto esatto donde proveniva il fumo mediante una bussola tascabile, prima di addentrarsi tra le ombre degli alberi.

    «Questo dirigersi a naso, Calamita, potrà bastare benissimo a un indiano, ma il tuo purosangue conosce i pregi dell’ago», disse Cap tenendo dietro pesantemente alle orme leggere del Tuscarora. «L’America non sarebbe mai stata scoperta, te lo garantisco io, se Colombo si fosse fidato soltanto del suo fiuto. Amico Punta di Freccia, hai mai veduto un aggeggio come questo?».

    L’indiano si volse, gettò un’occhiata indifferente alla bussola che Cap teneva in modo da seguirne la giusta direzione e rispose con tono grave: «Occhio di viso pallido. Il Tuscarora vedere dentro sua testa. Acqua Salata», poiché così l’indiano aveva soprannominato il suo compagno, «tutto occhi adesso; niente lingua».

    «Vuole avvertirci, zio, che ora dobbiamo stare zitti; probabilmente non si fida delle persone che stiamo per incontrare».

    «Già, dev’essere un modo indiano per dire di stare in guardia. Hai notato che ha ispezionato l’innesco della sua carabina e forse converrà che anch’io dia un’occhiata alle mie pistole».

    Senza tradire la benché minima preoccupazione per questi preparativi ai quali si era abituata nel lungo viaggio attraverso la foresta, Mabel tenne dietro all’indiano con un passo altrettanto elastico. Per il primo mezzo miglio non usarono altre cautele all’infuori di un rigido silenzio, ma ora che si stavano avvicinando al punto in cui sapevano essere acceso il fuoco s’imponeva una circospezione assai maggiore.

    Come sempre la foresta aveva poco di che impedire la vista, al disotto dei rami, fuorché gli alti diritti tronchi degli alberi. Tutto ciò che apparteneva al mondo vegetale aveva lottato disperatamente per raggiungere la luce, e sotto il baldacchino di foglie i viaggiatori avevano l’impressione di camminare attraverso un’immensa grotta naturale sostenuta da migliaia di rustiche colonne, le quali però spesso servivano a nascondere l’avventuriero, il cacciatore o il nemico; e a mano a mano che Punta di Freccia si avvicinava celermente al luogo in cui i suoi sensi infallibili ed esercitati gli dicevano trovarsi gli stranieri, il suo passo si faceva sempre più lieve, il suo sguardo più vigile e tutta la sua persona più guardinga e come raccolta in se stessa.

    «Guarda, Acqua Salata», disse a un tratto con esultanza indicando attraverso un breve varco tra gli alberi, «fuoco di viso-pallido!».

    «Per Giove, ha ragione!», borbottò Cap; «sono proprio bianchi e stanno mangiando il rancio calmi e pacifici come se si trovassero nella camerata di un treponti».

    «Punta di Freccia ha ragione soltanto a metà», mormorò Mabel; «perché di bianchi ce n’è uno solo; gli altri due sono indiani».

    «Visi-pallidi», insistette il Tuscarora alzando due dita; «uomo rosso», e mostrò un dito solo.

    «Be’», concluse Cap, «è difficile dire chi ha ragione e chi torto. Uno è completamente bianco ed è anche un gran bel ragazzo, dall’aria molto rispettabile, per giunta; il secondo è un pellirossa garantito e sputato: basta guardarlo in faccia e vedere tutta la pittura che ha indosso, ma il terzo è mezzo e mezzo, non essendo né brigantino né goletta».

    «Visi-pallidi», ripeté Punta di Freccia alzando nuovamente due dita; «uomo rosso», e per la seconda volta mostrò un dito solo.

    «Deve aver ragione, zio, perché mi sembra che la sua vista sia infallibile. Adesso però urge sapere se sono amici o nemici. Potrebbero essere francesi».

    «Basterà una voce per chiarire la situazione», disse Cap. «Tu mettiti dietro a quest’albero, Calamita, perché non vorrei che si ficcassero in testa di sparare una bordata senza preavviso, e io saprò subito che bandiera battono».

    Aveva portato le due mani alla bocca a mo’ d’imbuto e si preparava a cacciare l’urlaccio promesso, quando un rapido movimento di Punta di Freccia lo trattenne.

    «Uomo rosso, Mohicano», disse il Tuscarora, «buono; visi-pallidi, americani».

    «Questa è una gran bella notizia», mormorò Mabel cui non era garbata affatto la prospettiva di una mischia mortale in quelle remote solitudini. «Avviciniamoci subito, zio caro, e dichiariamoci amici».

    «Bene», disse il Tuscarora; «uomo rosso freddo e sapere; viso-pallido fretta e sparare. Lasciare andare la squaw».

    «Cosa!», disse Cap stupefatto, «mandare avanti la piccola Calamita in avanscoperta e rimanere qui in attesa due babbei come te e me, per vedere come la tratteranno? Se dovessi far questo io…».

    «Ma ha ragione, zio», lo interruppe la generosa ragazza, «e io non ho paura. Nessun cristiano, vedendo avvicinarsi una donna sola, le sparerebbe contro, e la mia presenza sarà una promessa di pace. Lasciami andare avanti, come dice Punta di Freccia, e vedrai che tutto andrà bene. Ancora non ci hanno visto, e gli stranieri rimarranno semplicemente sorpresi, senza spaventarsi».

    «Bene», disse Punta di Freccia che non nascondeva la sua ammirazione nei riguardi del coraggio di Mabel.

    «È un’azione indegna di un marinaio», insistette Cap; «ma dal momento che siamo nei boschi nessuno ne saprà nulla. Se tu credi, Mabel…».

    «Zio, non preoccuparti per me; del resto tu mi sei vicino, nel caso io abbia bisogno della tua protezione».

    «Bene, prendi però almeno una di queste pistole…».

    «No, preferisco affidarmi esclusivamente alla mia giovane età e alla debolezza del mio sesso», disse sorridendo la ragazza mentre un lieve rossore le imporporava le guance. «Tra gente cristiana la migliore salvaguardia di una donna è il suo bisogno di protezione. Del resto io non m’intendo di armi e desidero continuar a vivere in questa ignoranza».

    Cap si rassegnò, e dopo aver ricevuto dal Tuscarora alcuni saggi consigli di cautela Mabel raccolse tutto il suo coraggio e avanzò sola verso il gruppetto riunito intorno al fuoco. Benché il suo cuore battesse veloce aveva il passo fermo e i movimenti disinvolti. Sulla foresta regnava un silenzio di morte, perché i tre verso i quali si stava avvicinando erano troppo intenti a saziare il loro appetito per distogliere sia pure per un attimo lo sguardo dal cibo. Giunta però a circa cento passi dal fuoco Mabel calpestò inavvertitamente un ramoscello secco e quel lieve rumore bastò per far balzare in piedi, rapidi come il pensiero, il Mohicano e il suo compagno le cui caratteristiche somatiche erano state l’oggetto della discussione dianzi riportata. Entrambi lanciarono un’occhiata alle carabine che avevano appoggiate contro un albero, ma subito ristettero immobili, non appena i loro occhi si posarono sulla figura della fanciulla. L’indiano mormorò al compagno poche parole, quindi si rimise a sedere e riprese il pasto interrotto, calmo e tranquillo come se nulla fosse accaduto. Il bianco invece lasciò il fuoco e mosse incontro a Mabel.

    La fanciulla comprese, nel vederlo avvicinarsi, che si trattava effettivamente di un uomo della sua razza, anche se il suo vestire era un miscuglio talmente curioso di vesti indiane ed europee che occorreva osservarlo da vicino per riconoscerlo come uomo bianco. Era di mezza età, ma nel suo viso aperto, che per il resto non poteva considerarsi bello, vi era tanta onestà e una così totale mancanza di astuzia che Calamita comprese immediatamente di non correre alcun pericolo. Tuttavia si fermò.

    «Non abbiate timore, figliola», disse il cacciatore, ché tale almeno appariva dalla foggia del vestire; «vi siete imbattuta in uomini cristiani che sanno come trattare con cortesia chiunque abbia l’animo incline alla pace e alla giustizia. Io sono ben conosciuto da queste parti, e può darsi che qualcuno dei miei appellativi sia giunto anche alle vostre orecchie. Dai francesi e dai pellirosse che abitano sulla riva opposta dei Grandi Laghi sono chiamato La Longue Carabine; dai Mohicani, una tribù giusta e leale, o meglio da quel poco che resta di loro, Occhio di Falco; mentre le truppe e le guardie forestali da questa parte dell’acqua mi chiamano Cercatore di Piste, poiché tutti sanno che non ho mai smarrito il sentiero di guerra quando da un capo di questo c’era un Mingo e dall’altro un amico che aveva bisogno di me».

    Queste parole non furono proferite in tono borioso, ma con l’onesta sicurezza di chi ben sa di non avere alcun motivo di arrossire delle proprie imprese, qualunque sia la fama che altri possano aver creato intorno al suo nome. L’effetto su Mabel fu istantaneo. Non appena intese l’ultimo appellativo congiunse insieme le mani con gesto di meraviglia e ripeté: «Cercatore di Piste!»

    «Così mi chiamano, figliola, e quanti signoroni si sono acquistati un titolo che non meritavano neppure per la metà di quello per cui mi sono meritato io il mio; ancorché, se devo proprio dire la verità, io vado piuttosto orgoglioso di cercare la mia strada dove non c’è nessuna pista anziché là dove il tracciato è sicuro. Ma le truppe regolari non vanno tanto per il sottile e non sanno quasi mai la diversità che passa tra una pista e un sentiero, benché nel primo caso sia soprattutto una questione di occhio mentre per il secondo si tratta più che altro di fiuto».

    «Ma allora voi siete l’amico che mio padre ci aveva promesso di mandarci incontro!».

    «Se voi siete la figlia del sergente Dunham, nemmeno il grande profeta dei Delaware ha mai pronunciato una verità più vera».

    «Io sono Mabel, e laggiù, dietro quegli alberi ci sono mio zio Cap e un Tuscarora detto Punta di Freccia. Non speravamo d’incontrarvi se non dopo aver raggiunto o quasi le rive del lago».

    «Avrei preferito che vi avesse fatto da guida un indiano più onesto», disse il Cercatore di Piste, «perché a me non piacciono i Tuscarora! Si sono allontanati troppo dalle tombe dei loro padri per ricordare il Grande Spirito; e Punta di Freccia è un capo ambizioso. Rugiada di Giugno è con lui?».

    «Sì, ed è una creatura tanto dolce e mite».

    «Altroché, e sincera per giunta; il che nessuno che lo conosca potrà dire mai di Punta di Freccia. Be’, bisogna accettare il fardello che la Provvidenza ci assegna lungo la pista dell’esistenza. Del resto avreste potuto trovare guide anche peggiori di lui, benché abbia troppo sangue mingo, per uno come me che vive esclusivamente con i Delaware».

    «Forse è una fortuna che vi abbiamo incontrato», disse Mabel.

    «Comunque non è una disgrazia, perché avevo promesso al sergente che avrei accompagnato la sua figliola sana e salva alla guarnigione anche a costo di rimetterci la pelle. Pensavamo d’incontrarvi prima che giungeste alle rapide, dove abbiamo lasciato la nostra canoa; intanto, abbiamo ragionato, non sarà male se ci sposteremo in su di qualche miglio in modo da essere di aiuto in caso di bisogno. Credo che abbiamo fatto bene perché non so se Punta di Freccia sia capace di destreggiarsi nella corrente».

    «Ecco mio zio e il Tuscarora! Finalmente ci siamo riuniti».

    Mentre Mabel così diceva Cap e Punta di Freccia, visto che la conversazione si stava svolgendo in tono amichevole, si erano avvicinati, e bastarono poche parole per informarli sulla vera identità degli stranieri. Quindi il gruppetto mosse verso i due rimasti accanto al fuoco.

    II.

    Il Mohicano seguitò a mangiare; l’altro uomo bianco invece si alzò e si tolse cerimoniosamente il berretto all’indirizzo di Mabel Dunham. Era giovane e di aspetto sano e virile, e indossava un vestito che pur essendo meno rigidamente professionale di quello di Cap indicava che anche lo straniero doveva essere un uomo pratico della vita di mare. In quel tempo i marinai costituivano una categoria completamente separata dal resto dell’umanità, e le loro idee, il loro linguaggio, il loro vestire rivelavano immediatamente la loro professione allo stesso modo che le opinioni, la parlata e il costume di un turco lo fanno subito riconoscere per un musulmano. Benché il Cercatore di Piste fosse ancora nel fiore dell’età Mabel lo aveva affrontato con calma sicurezza, forse perché i suoi nervi si erano preparati a un possibile pericolo, ma quando i sui occhi s’incontrarono con quelli del giovane seduto accanto al fuoco, egli li abbassò istintivamente sotto lo sguardo di ammirazione da cui si sentì avvolgere. Entrambi, in verità, provarono immediatamente l’uno per l’altra un vivo interesse reciproco, com’era logico del resto che avvenisse in due esseri giovani e sensibili sotto l’influenza dell’età uguale, della condizione identica, della bellezza pari in entrambi, della novità della loro situazione.

    «Ecco», disse il Cercatore di Piste volgendo verso Mabel la sua onesta faccia illuminata da un bonario sorriso, «questi sono gli amici che vostro padre ha mandato a incontrarvi. Questo è un Delaware famoso, che ai suoi tempi ha avuto grandi onori come pure molti affanni. Ha un nome indiano degno del grande capo che è, ma siccome non è molto facile pronunciarlo noi lo volgiamo in inglese e molto semplicemente lo chiamiamo Grande Serpente. Non crediate però che vogliamo dire con questo che sia infido e traditore al di là di quanto è normale in un pellirossa, ma soltanto che è saggio e che possiede l’astuzia che occorre a un guerriero. Punta di Freccia sa benissimo quel che voglio dire».

    Durante questo discorso del Cercatore di Piste i due indiani si erano fissati reciprocamente con grande attenzione, quindi il Tuscarora aveva mosso un passo innanzi e si era messo a conversare con il Delaware in tono apparentemente amichevole.

    «Mi piace assistere a questo spettacolo», proseguì il Cercatore di Piste; «il saluto di due pellirosse nei boschi, padron Cap, assomiglia all’incontro di due navi amiche che s’incrociano sull’oceano. Ma a parlar di acqua mi viene in mente il mio giovane amico Jasper Western qui presente, il quale può vantarsi di saperla lunga su questo argomento, dato che è sempre vissuto sull’Ontario».

    «Lieto di conoscervi, amico», disse Cap, stringendo cordialmente la mano al giovane marinaio d’acqua dolce, «per quanto credo tu abbia ancora parecchio da imparare, se si pensa alla scuola che hai frequentato. Questa è mia nipote Mabel: io però la chiamo Calamita, per un motivo che lei non sogna nemmeno, per quanto può darsi che tu abbia abbastanza istruzione per indovinarlo, giacché immagino non ignori completamente che cosa sia una bussola!».

    «È un motivo facilissimo a indovinarsi», rispose il giovane, fissando suo malgrado i bruni e vivi occhi sul volto vergognoso della fanciulla; «e sono sicuro che il marinaio che si dirige con la vostra Calamita non potrà mai sbagliare la rotta».

    «Ah, vedo che ti esprimi con una certa proprietà di linguaggio e di termini marinareschi, per quanto temo che l’acqua che tu hai visto sia sempre stata più verde che azzurra!».

    «Non deve far meraviglia se noi ci serviamo di frasi che appartengono al linguaggio della gente di terra, se si consideri che difficilmente perdiamo di vista quest’ultima per più di ventiquattr’ore dì seguito».

    «Peccato, ragazzo mio, un vero peccato! Un marinaio di terra dovrebbe sempre vederne poca. Dunque, padron Western, mi pare che il tuo lago sia tutto circondato di terra, più o meno!».

    «Ma, zio caro, forse che il tuo oceano non è tutto circondato più o meno di terra anche lui?», ribatté pronta Mabel che temeva da parte del vecchio lupo di mare uno sfoggio prematuro di pedanteria e d’intransigenza professionali.

    «No, bambina, è la terra che è tutta più o meno circondata dall’oceano! Questo è quanto io ripeto sempre a chi sta a riva, giovanotto! La gente vive praticamente in mezzo al mare senza saperlo… tollerata da questo, per così dire, essendo l’acqua tanto più potente e abbondante. Ma la prosopopea degli uomini non conosce limiti, perché molti che non hanno mai visto acqua salata s’immaginano di saperne di più di chi per esempio ha circumnavigato il Capo Horn. No, no: questa terra è in fondo un’isola, e la sola cosa che giustamente merita di non essere chiamata tale è l’acqua».

    Il giovane Western nutriva un profondo rispetto per i marinai dell’oceano, sul quale tante volte aveva sognato di navigare, ma sentiva anche un vivo amore per la vasta distesa d’acqua sulla quale aveva trascorso la sua esistenza, e che a parer suo era tutt’altro che scevra di fascino.

    «Quel che dite», rispose modestamente, «può essere vero per quanto riguarda l’Atlantico, ma noi da queste parti, sull’Ontario, abbiamo un grande rispetto per la terra».

    «Questo perché ve ne state sempre chiusi tra due sponde», replicò Cap ridendo di gusto; «ma vedo laggiù il Cercatore di Piste, o come diavolo lo chiamate, con dei piatti fumanti che ci invita a condividere il suo pasto, e devo ammettere che in mare di cacciagione non se ne piglia. Padron Western, quando si ha la tua età s’impara a essere gentili con le ragazze con la stessa disinvoltura con cui si sa manovrare le drizze del pennone, e se sarai così gentile di occuparti di Calamita mentre io vado a raggiungere la mensa del Cercatore di Piste e dei nostri amici indiani sono sicuro che lei non se lo dimenticherà».

    Padron Cap aveva detto di più di quanto allora egli si sarebbe potuto immaginare. Jasper Western si occupò infatti di Mabel e la fanciulla doveva ricordare per molto tempo le cortesi premure del giovane marinaio durante quel loro primo incontro. Le preparò un ceppo su cui la fece sedere, scelse per lei un bocconcino di cacciagione prelibato, le offrì un sorso dell’acqua pura della sorgente, quindi le si sedette accanto e guadagnò ben presto la sua stima manifestandole con modi gentili e disinvolti al tempo stesso la sua attenzione, omaggio che ogni donna ama sempre ricevere, ma che le è soprattutto gradito se le giunge da un giovane della sua stessa età. Come la maggior parte di coloro che trascorrono l’esistenza lontani dall’altro sesso il giovane Western era serio, sincero, affettuoso nelle sue premure, anche se queste mancavano di una certa raffinatezza convenzionale. Lasciando questi due semplici giovani occupati a meglio conoscersi, più attraverso i loro sentimenti reciproci che non attraverso pensieri espressi, ci rivolgeremo al gruppo in cui lo zio di Mabel era subito diventato l’oggetto dell’attenzione generale.

    La comitiva aveva preso posto intorno a un robusto piatto di bistecche di selvaggina dal quale ognuno si serviva liberamente, e il discorso si era naturalmente foggiato sul temperamento dei vari personaggi che vi prendevano parte. Gli indiani mangiavano in silenzio ma con molto gusto, ché la passione degli americani aborigeni per la cacciagione in genere sembra quasi insaziabile, mentre i due bianchi parlavano con grande animazione, essendo entrambi di umor discorsivo e ostinati nelle loro rispettive opinioni. E siccome il loro dialogo potrà mettere il lettore a conoscenza di alcuni fatti che renderanno il racconto più esplicito e chiaro, preferiamo riportarlo tale e quale.

    «Certo, non si può negare che questa vostra esistenza abbia i suoi lati soddisfacenti, signor Cercatore di Piste», osservò Cap quando l’appetito dei viaggiatori si fu finalmente un poco calmato ed essi incominciarono a scegliere con maggiore discernimento e ricercatezza i bocconi più saporiti. «Essa offre infatti le occasioni e la fortuna di cui noi marinai andiamo in cerca, e se per noi tutto è acqua, per voi tutto è terra».

    «Non è vero; anche noi incontriamo molta acqua nei nostri viaggi e nelle nostre marce», replicò il cacciatore. «Noi uomini di frontiera maneggiamo la pagaia e l’arpione quasi altrettanto spesso del fucile e del coltello da caccia».

    «Ah! Ma sapete maneggiare anche il braccio e la bolina, il timone e lo scandaglio, il cordone del terzaruolo e il ghindazzo? Certo, la pagaia è utile quando si viaggia in canoa, ma a che serve a bordo di una nave?».

    «Io rispetto tutti gli uomini nelle loro rispettive professioni, e sono sicurissimo che gli oggetti di cui parlate abbiano ciascuno il loro scopo. Chi è vissuto come me in mezzo a tante tribù comprende perfettamente le diversità degli usi e dei costumi. La pittura di un Mingo, per esempio, non è la pittura di un Delaware, e chi si aspettasse di vedere un guerriero nelle vesti di una squaw potrebbe restare deluso. Io non sono ancora molto vecchio, però ho sempre vissuto nei boschi e ho una certa conoscenza della natura umana. Del resto non ho mai nutrito molta fiducia nella scienza di quelli che abitano nelle città, perché non ho mai conosciuto un cittadino che sapesse maneggiare come si deve un fucile o individuare una pista».

    «Anch’io ragiono a questo modo, tale e quale, padron Cercatore di Piste. Camminare per le strade, andare in chiesa la domenica e ascoltar sermoni non ha mai fatto un uomo di un essere umano. Mandate un ragazzo sul vasto oceano, se intendete aprirgli gli occhi, e lasciategli conoscere paesi stranieri e quella che io chiamo la faccia della natura, se volete che impari a conoscere il proprio carattere. Prendete per esempio mio cognato, il sergente: a modo suo è buono come un pezzo di pane, ma che cos’è, dopotutto? Nient’altro che un soldato! Un sergente, se volete, ma un soldato sempre. Quando espresse la sua intenzione di sposare Bridget, la mia povera sorella, io come di dovere la avvertii che da un marito come quello non poteva aspettarsi gran che; ma sapete come sono le donne quando si ostinano nelle loro idee. Certo lui adesso si è elevato di grado, e dicono che al forte sia diventato un uomo importante, però la sua povera moglie non è vissuta per vedere tutti questi miglioramenti perché è morta da ormai quattordici anni».

    «La professione di un soldato è onorata, purché egli combatta sempre dalla parte della giustizia», replicò il Cercatore di Piste; «e dal momento che i francesi hanno sempre torto, e la sua sacra Maestà e queste colonie sempre ragione, accetto per sottinteso che il vostro sergente abbia oltre che la coscienza pulita anche un buon carattere. Io non ho mai dormito tanto tranquillamente come quando ho combattuto i Mingo, anche se mi prefiggo sempre come punto d’onore di combattere da uomo bianco, e mai da indiano. Il Serpente, per esempio,

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