Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il Club dei Fanti di Cuori. Parte seconda: Ricambole vol. IV
Il Club dei Fanti di Cuori. Parte seconda: Ricambole vol. IV
Il Club dei Fanti di Cuori. Parte seconda: Ricambole vol. IV
E-book385 pagine4 ore

Il Club dei Fanti di Cuori. Parte seconda: Ricambole vol. IV

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Il piano diabolico di Andrea sembra dare i suoi frutti: Léon e Fernand sono nella ragnatela della bella Turquoise, il conte Armand è sempre più convinto del pentimento del fratellastro, e la marchesa Van Hop sta per cedere alle lusinghe di Cherubin.
Ma sulla sua strada, il genio del male trova la rediviva Baccarat che, decisa a riconquistare Armand, getta alle spine gli abiti della dama di carità e sembra riprendere la sua vecchia vita da cortigiana.
LinguaItaliano
Data di uscita14 dic 2018
ISBN9788899403652
Il Club dei Fanti di Cuori. Parte seconda: Ricambole vol. IV

Correlato a Il Club dei Fanti di Cuori. Parte seconda

Titoli di questa serie (64)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa di azione e avventura per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il Club dei Fanti di Cuori. Parte seconda

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il Club dei Fanti di Cuori. Parte seconda - Pierre Alexis Ponson Du Terrail

    Riassunto degli episodi precedenti

    Il visconte Andrea, profondamente pentito dei crimini compiuti sotto le spoglie del perfido sir Williams, viene perdonato e accolto generosamente nella casa del fratellastro Armand de Kergaz, sposo felice della buona e bella Jeanne de Balder.

    Armand de Kergaz, che ha messo la sua immensa fortuna al servizio del bene, viene a sapere dell’esistenza di un’associazione che ha lo scopo di esercitare una vasta rete di ricatti ai danni di famiglie benestanti servendosi di documenti e lettere compromettenti.

    In realtà capo di quest’associazione misteriosa, chiamata Club dei Fanti di Cuori, altri non è che Andrea, che sotto il nome e il travestimento dell’inglese sir Arthur Collins dirige una banda di furfanti: fra questi Rocambole, già braccio destro di sir Williams, che ha assunto il nome e l’irreprensibile condotta del visconte de Cambolh, e il bellissimo Chérubin, che col nome di Oscar de Verny si introduce abilmente nell’alta società. Quest’ultimo fa la conoscenza della bella e virtuosa marchesa Van Hop, del cui marito è follemente innamorata l’indiana Dai-Natha, pronta a tutto pur di conquistare l’oggetto del suo amore.

    Un’amica della marchesa, la signora Malassis, mira a sposare l’anziano e ricco duca de Chàteau-Mailly, ostacolata dal nipote di quest’ultimo che si oppone al matrimonio temendo di perdere l’eredità del duca.

    Andrea scopre una bellissima fanciulla, la peccatrice Turquoise, e le assegna l’infame compito di sedurre l’onesto Léon Rolland, sposo di Cerise, e Fernand Rocher, sposo di Hermine. Turquoise si rivela abilissima e riesce in breve tempo a far innamorare perdutamente di sé i due giovani che sono decisi ad abbandonare per lei le spose e i figlioletti.

    Baccarat, la cortigiana pentita sorella di Cerise, sospetta di Andrea ed è fermamente decisa a ingaggiare una lotta senza quartiere contro il genio del male…

    I.

    Il lettore ricorderà che Fernand Rocher, a Étampes, era salito nella carrozza da viaggio di Turquoise, e che costei aveva detto al cocchiere: «Torniamo a Parigi».

    Due giorni dopo, un mattino, ritroviamo lo sposo infedele a colloquio con la bionda dagli occhi azzurri nella palazzina di rue Moncey. La pendola stava suonando le undici.

    Turquoise era sdraiata all’orientale, con un cuscino sotto la testa, su un tappeto presso il divano sul quale Fernand se ne stava gravemente coricato. La donna sorrideva senza pronunciare parola, e sembrava contemplasse Fernand in un’estasi muta e con un misto di compiacimento e di entusiasmo.

    A un tratto si alzò, appoggiandosi col gomito al cuscino, e fissò su Fernand quello sguardo azzurro che tanto profondamente lo turbava.

    «Mio caro Fernand», disse, «sono già quarantott’ore che viviamo come fanciulli, senza darci la pena di discutere sulla vita e di approfondirla…».

    «La vita», rispose Fernand, «è la felicità. E io sono felice… A che scopo discutere e approfondire, allora? Niente resiste all’analisi».

    «Il fatto è», riprese Turquoise con fare triste e severo, «che la felicità, nel bel mezzo di una città come Parigi, bisogna regolarizzarla perché duri».

    Fernand la guardò: sembrava non avesse capito il significato della parola regolarizzare.

    «Ascoltami», riprese lei, «le persone più invidiate sono indubbiamente le persone felici. Chi è felice deve aspettarsi che la sua felicità diventi oggetto di discussione per i gelosi, gli oziosi e i malevoli».

    «Quello che dite è vero», mormorò Fernand, colpito dalla giustezza del ragionamento.

    «Dunque, mio caro Fernand, la cosa più saggia in un caso del genere è aspettarsi di tutto, prevedere tutto e predisporre una buona difesa, cioè prendere le precauzioni necessarie per salvaguardare quella felicità tanto invidiata».

    «Nel mio caso è inutile, io vi amo…».

    «Bah!» esclamò lei sorridendo, «oggi non è domani… Oggi, amico mio, voi provate l’orgoglio del trionfo, avete ai piedi una povera donna che vi ama, che avete costretta a sacrificare tutto, a rinunciare a tutto, che qualche giorno fa non aveva un cuore e adesso ha preso ad amarvi perdutamente, appassionatamente non vedendo altri che voi nell’intero universo…».

    Fernand prese la mano di Turquoise e se la portò alle labbra.

    «Oggi», riprese lei, «siete tutto fuoco e fiamme, vi battereste con don Chisciotte in persona e all’occorrenza gli fareste proclamare la mia superiorità fisica e morale sulla sua Dulcinea del Toboso».

    E Turquoise fece un sorriso incantevole, finemente canzonatorio e affettuosamente indulgente.

    «Ma domani», riprese, «oh! Domani…».

    «Domani sarà come oggi», cercò di interrompere Fernand.

    «Sst!» fece lei, battendo il piede sul pavimento. «Domani, signor Rocher, ritroverete per un caso… il caso s’impiccia di ogni cosa, soprattutto delle faccende che riguardano gli innamorati… ritroverete i vostri amici, le vostre conoscenze, tutta gente che non capirà o non vorrà che siate felice…».

    «Ah, ma non ho nessuna intenzione di dar loro ascolto…».

    «Gli uni diranno: ha una moglie legittima, bella, adorata… e che lo adora…».

    A queste parole di Turquoise, Fernand trasalì; e la giovane, che in quel momento stava giocando una partita decisiva, fissò su di lui il suo sguardo fascinatore.

    «Sì, signore», riprese lei stringendo fra le sue la mano di Fernand, «voi avete una moglie… Ahimè, è triste doverlo dire, eppure a questo mondo finisce tutto, mio amato Fernand, soprattutto l’amore. A meno che», soggiunse prendendosi la testa fra le mani, «a meno che una povera donna come me si metta ad amare sul serio, come vi amo io!» E gli occhi di Turquoise penetrarono sino in fondo all’animo di Fernand, che il suo sguardo sapeva far impazzire.

    «Ma l’amore legittimo, come si dice», riprese Turquoise, «l’amore sancito dalla legge, come farebbe a durare in eterno? Quindi, amico mio, tu hai amato tua moglie, ma è evidente che non l’ami più perché ti sei messo sulle mie tracce, mi hai inseguita e costretta a tornare a Parigi, e alla fine ti sei stabilito qui».

    Fernand ascoltava… Ascoltava quel linguaggio audace e non osava protestare. Turquoise aveva capito che il solo modo per domare, dominare, incatenare quell’uomo abituato a vivere con sua moglie – una donna fine, bella, piena di nobile pudore – era diventare l’antitesi vivente di questa donna. E Turquoise aveva ragione. Tutto il segreto delle debolezze del cuore umano è nei contrasti.

    La cortigiana riprese: «Di conseguenza, puoi essere sicuro di una cosa: che domani tutti quanti saranno pronti a lapidarti. Nessuno, mi capisci?, nessuno riuscirà a comprendere come tu possa trascurare una moglie incantevole sotto tutti i punti di vista per una donna come me».

    E, accarezzando l’amante con lo sguardo e col sorriso, Turquoise proseguì:

    «Perciò, amico mio, ho già tracciato la nostra linea di condotta. Stasera tornerai a casa tua».

    Fernand trasalì e guardò Turquoise con una specie di spavento.

    «Questa sera, ascoltami bene», continuò la donna, «tu inventerai un pretesto per i due giorni di assenza. Lei ti crederà o non ti crederà, poco importa. Tornerai qui ogni giorno… a qualsiasi ora… Non sarai ugualmente signore e padrone, non lo sei già? Ma intanto, mio caro, approfittiamo di quest’ultima giornata di isolamento e di felicità. Il tempo è bello: farò preparare una carrozza. Dopo colazione usciremo e faremo il giro del Bois de Boulogne».

    La cortigiana si alzò, suonò per la cameriera e le ordinò di servire la colazione.

    Ancora per un’ora la scaltra sirena continuò a far la lezione a Fernand, che aveva quasi perso la testa; e alla fine riuscì a fargli accettare una parte vergognosa. L’influenza di quella donna era tale, nel suo sguardo, nel suo sorriso, nell’inflessione della voce, nel fascino di tutta la persona c’era un potere magnetico così trascinante che Fernand piegò il capo e accettò tutto. Hermine era perduta senza scampo, dal momento che suo marito acconsentiva a mentirle.

    All’una del pomeriggio Turquoise e Fernand salirono in carrozza e si diressero verso il Bois de Boulogne. La vettura percorse la rue d’Amsterdam, attraversò la place du Havre e passò davanti alla rue d’Isly. Fernand non poté fare a meno di provare una certa emozione.

    «Povero amico mio», disse Turquoise in tono canzonatorio, «faresti meglio a chiedermi di farti scendere alla porta di casa tua: in capo a dieci minuti mi avresti dimenticata, e io cercherei di stordirmi pensando che sei felice».

    Queste ultime parole furono pronunciate da Turquoise con una voce soffocata, che andò dritto al cuore turbato di Fernand.

    «No, no», mormorò l’uomo con impazienza, «io ti amo…».

    E la vettura passò oltre di buon trotto, risalì l’avenue des Champs-Elysées e raggiunse il Bois de Boulogne portando la vampira e la sua preda. Erano precisamente il luogo e l’ora fissati da sir Williams per l’incontro fra il visconte de Cambolh, a cavallo, e Fernand Rocher nella carrozza di Turquoise: le due, al padiglione di Ermenonville.

    La mattina Turquoise aveva ricevuto un biglietto di sir Williams in cui la si avvertiva che avrebbe potuto riconoscere Rocambole – non l’aveva mai visto – anzitutto dal sauro che cavalcava, e poi dal fiore azzurro che avrebbe portato all’occhiello.

    Turquoise, lo sappiamo, non aveva mai voluto parlare chiaramente del suo passato con Fernand. Tutto quello che egli era riuscito a sapere era che prima di innamorarsi di lui era stata una cortigiana. Fosse per la noncuranza del ricco che non scende nemmeno in particolari e si limita ad aprire il portafoglio, fosse per la delicatezza estrema dell’amante che teme di umiliare la donna, Fernand non aveva ancora fatto domande.

    Alle due la carrozza azzurro cielo giunse al padiglione di Ermenonville. Nello stesso istante Rocambole, che era già appostato, sbucava dall’avenue e, caracollando elegantemente, si avvicinava alla carrozza. Fernand, che guardava Turquoise, più bella che mai ai suoi occhi, non lo vide.

    Ma improvvisamente la vide trasalire e farsi pallida.

    «Mio Dio! Che avete?» domandò.

    «Niente… Niente…», balbettò Turquoise con voce alterata.

    In quell’istante Fernand alzò gli occhi e vide Rocambole. Il preteso gentiluomo svedese era a due passi dalla vettura e lo salutava, lanciando contemporaneamente uno sguardo di disprezzo in direzione della donna.

    La brusca apparizione sconcertò Fernand, che provò una vaga sensazione di timore.

    Rocambole si avvicinò e la scena della provocazione si svolse tal quale l’aveva prevista e predisposta sir Williams. Turquoise, fingendo una profonda confusione, aveva nascosto il volto fra le mani.

    Pallido, con la bocca contratta, Fernand ascoltò il visconte sino alla fine senza proferire parola.

    «Signor visconte», disse infine, «sappiate che per domani a quest’ora sarete totalmente indennizzato».

    «Oh, signore», disse Rocambole, noncurante, «non volete permettermi di essere generoso con la signora?»

    «Vi sbagliate, signore», rispose alteramente Fernand. «La signora non accetta nulla senza il mio permesso».

    «No!» disse Turquoise lanciando a Rocambole un’occhiata di disprezzo e d’odio, che fece un ottimo effetto su Fernand e la riabilitò completamente ai suoi occhi.

    «Adesso, signore», riprese il visconte, «sarete d’accordo con me che non possiamo non rivederci… Una conoscenza cominciata tanto bene…».

    «Deve avere un seguito, sono del vostro parere», rispose Fernand con voce tremante di collera. «Quindi, signore, sono a vostra completa disposizione; dopo, però, che la signora mi avrà permesso di regolarizzare la sua posizione nei vostri confronti. Domani sarà fatto, e dopodomani potrò mettermi a vostra disposizione».

    «Signore», rispose il visconte, «dinanzi a voi c’è un uomo che è arrivato a Parigi stamattina e contava di ripartire domani sera. Suppongo che la situazione da voi creata mi dia qualche diritto».

    «Ah!» disse Fernand.

    «Quello di battermi al momento scelto da me, per esempio».

    «Il vostro momento sarà il mio».

    «Allora fra otto giorni, a quest’ora – sarò di ritorno la mattina – potrò mandarvi i miei padrini?»

    «Benissimo», disse Fernand, «fra otto giorni».

    Il visconte salutò cortesemente la donna che un momento prima aveva umiliato, spronò il cavallo e si allontanò.

    «A casa!» ordinò Turquoise al cocchiere.

    La vettura girò su se stessa e ripartì di gran trotto, portando un Fernand costernato e pazzo di collera, e una Turquoise che teneva ancora la testa affondata nelle mani e sembrava patisse il martirio.

    Per tutto il tragitto dal Bois de Boulogne alle rue Moncey i due amanti, che fino a poco prima si guardavano teneramente, non pronunciarono una sola parola.

    Appena la vettura ebbe varcato la cancellata del giardino, Turquoise scese precipitosamente e andò a rifugiarsi nel boudoir. Fernand la seguì. La giovane si abbandonò sul divano ove, la mattina, si era sdraiato Fernand, e scoppiò in lacrime. Per qualche minuto Fernand, immobile e scuro in volto, l’ascoltò piangere senza dire una parola, senza nemmeno tentare di consolarla; ma alla fine il suo cuore non resistette più a quei singhiozzi. Egli si chinò sulla donna e, prendendole la mano, mormorò:

    «Jenny!»

    Essa sembrò trasalire, si rizzò come se quella voce fosse stata per lei la tromba del giudizio, lo guardò con una strana espressione in volto ed esclamò:

    «Vattene! Vattene! Non voglio più vederti…».

    «Andarmene!» disse lui, col terrore nella voce.

    «Sì, perché per la prima volta nella mia vita mi rendo conto che sono stata un essere indegno e abominevole. Vattene, perché ti amo… e sono indegna del tuo amore… vattene… te ne supplico!»

    Si buttò in ginocchio dinanzi a lui, nell’atteggiamento di un condannato che implora la grazia.

    «Ah!» disse, «vattene, ma non maledirmi… non disprezzarmi, Fernand caro… Sei il solo uomo che io abbia amato… Tu, almeno per pochi giorni, mi hai fatto credere che una donna perduta può riabilitarsi».

    Mentre parlava così, Turquoise era bella da impazzire; il suo sguardo, velato dalle lacrime, nulla aveva perduto del suo fascino; ed essa sapeva che l’uomo che supplicava di andarsene e di dimenticarla sarebbe rimasto e sarebbe caduto ai suoi piedi.

    Fernand restò ancora a lungo silenzioso, immobile; mentre la guardava, sentiva che la fronte gli si imperlava di sudore per l’angoscia. Infine le prese la mano:

    «Jenny», disse, «il giorno in cui hai creduto che l’amore potesse riabilitare avevi ragione…».

    La donna scosse tristemente il capo e continuò a singhiozzare.

    «Avevi ragione», riprese lui, «perché io non voglio saper nulla del passato e voglio pensare soltanto al presente. Jenny, dimentica… come dimentico io stesso… Jenny, io ormai so soltanto una cosa, ed è che ti amo…».

    La prese fra le braccia e se la strinse al cuore. Poi, d’un tratto, Jenny si divincolò… Non piangeva più: era fredda, risoluta, piena di dignità.

    «Amico mio», disse stendendogli la mano, «grazie della vostra generosità! Siete un animo nobile, e questa povera donna perduta non lo dimenticherà mai. Vi amo, Fernand, vi amo come vi amerebbe una donna pura quanto io sono spregevole, ed è perché vi amo che prendo la decisione incrollabile di non rivedervi. Andate, amico mio, tornate a casa vostra, dalla vostra famiglia, accanto a vostra moglie e a vostro figlio… Ahimè, forse vi ho già fatalmente alienato il primo di questi affetti. Addio… dimenticatemi… e non mi disprezzate… Se voi sapeste…».

    «Non voglio sapere niente», rispose Fernand, non meno risoluto, «non voglio sapere niente tranne una cosa, che tu mi ami…».

    «Oh, sì!…». fece lei con voce spezzata, che sembrava salire dalle profondità dell’anima.

    «So che mi ami», continuò Fernand, «e non ti abbandonerò».

    E mentre, la donna, piegando il capo, versava una lacrima ardente sulla sua mano, Fernand proseguì:

    «Domani rimanderai a quell’uomo tutto quello che hai di suo: tutto, capisci?, carrozze, cavalli, gioielli, titoli di rendita… e l’atto di vendita di questa casa, il cui importo gli verrà rimborsato all’istante. Poi, fra otto giorni, io lo ucciderò!» concluse con voce cupa.

    Turquoise rialzò la testa di scatto. Le lacrime non sgorgavano più; una tristezza profonda si era diffusa sul suo volto. Guardò Fernand.

    «Amico mio», disse, «non vedete la conseguenza di ciò che mi proponete?»

    «Quale conseguenza?»

    «Che con voi non farò che cambiar protettore».

    Egli trasalì…

    «Non sarò sempre», proseguì la donna, «quella che si chiama una mantenuta, vale a dire una schiava, un cane, un cavallo di lusso, una cosa, insomma?»

    «Mio Dio! Mio Dio!» mormorò Fernand, folgorato da queste parole. «Ma insomma», soggiunse, «io ti amo: ai miei occhi non sarai mai…».

    «Lo sarò agli occhi di tutti», rispose lei lentamente. «Lo sarò ai miei… ed è abbastanza!»

    Poi, mentre Fernand, annichilito, non trovava una risposta, aggiunse:

    «Io non ho niente… e non posso accettare niente da voi, perché avete una moglie e non potete sposarmi… Addio… addio per sempre!»

    II.

    Turquoise parlava con veemenza e ogni sua parola, abilmente calcolata, penetrava nel cuore di Fernand come una punta di coltello. Profondamente umiliata dall’episodio di poco prima, la donna aveva un certo diritto di tenere quel linguaggio; per lo meno l’ingenuo Fernand lo pensò, e ne rimase folgorato. Ma quando a un uomo accade di innamorarsi di una donna perduta con la violenza con cui il nostro eroe si era innamorato di Turquoise, non gli resta più un briciolo di ragione né di logica.

    Fernand si inginocchiò e si mise a singhiozzare come un fanciullo. Allora Turquoise gli mormorò all’orecchio:

    «Dunque non volete lasciarmi e rinunciare a me?»

    «No, perché per me significherebbe morire».

    «Ebbene…».

    Su questa parola s’interruppe; e questa parola fu per Fernand come uno squarcio di cielo azzurro che appare al naufrago durante una tempesta.

    «Ebbene?…». disse ansiosamente.

    «Ebbene», riprese la donna, «se voi accettate le mie condizioni, tutte le mie condizioni… forse io acconsentirei…».

    «Oh, parlate, parlate! Accetterò qualsiasi cosa!»

    «Amico mio», continuò Turquoise con voce grave e dolce insieme, «prima di gettarmi a corpo morto nel baratro in cui mi vedete sprofondata, ero una donna onesta: appartenevo alla società che oggi mi respinge. A sedici anni sono stata costretta a sposare un vecchio, uno svergognato che ha rovinato la mia gioventù e ha distrutto una per una tutte le mie illusioni. Quest’uomo ha dilapidato pressoché tutta la mia dote. Tuttavia, il giorno che sono fuggita da casa sua, sono riuscita a portarmi via una modesta somma, triste relitto del mio naufragio: diecimila franchi».

    Turquoise pronunciò questa cifra col tono orgoglioso del milionario che calcola il suo patrimonio.

    «Questi diecimila franchi», proseguì, «li possiedo ancora. Mi fruttano cinquecento franchi di rendita. Questo denaro appartiene a me, amico mio, solo a me, e non ha un’origine disonesta; sono quattro anni che lascio accumulare gli interessi, cosicché in realtà possiedo più di dodicimila franchi».

    «Ebbene?» domandò Fernand, che non capiva.

    «Ebbene», rispose lei, «ma è una fortuna!»

    Poi gli prese le mani e il sorriso le tornò sulle labbra. Prese l’espressione animata della ragazzina che racconta ingenuamente le sue prime speranze d’amore.

    «Ma come, non comprendete, amico mio? Allora ascoltatemi bene. A Parigi ci sono molte donne, povere operaie che vivono del loro lavoro, che sarebbero felicissime di avere la metà di quello che possiedo io. Io sono stata educata a Saint-Denis: ho imparato a ricamare, a intessere arazzi. Posso guadagnare tre franchi al giorno, cioè mille franchi all’anno… che, aggiunti alla mia rendita, faranno millecinquecento franchi».

    «Ah», esclamò Fernand, «tu, bambina mia, vorresti vivere con millecinquecento franchi? Oh, no, mai!»

    «E sarei anche così felice!… Così felice di avere l’amore del mio Fernand! Ma non capisci dunque», concluse con uno slancio d’entusiasmo, «che allora potrei amarti, amarti liberamente?»

    Fernand tacque e chinò la testa.

    «Amore mio», proseguì Turquoise, «la tua piccola Jenny ha una volontà di ferro. Prendere o lasciare… O ci diciamo addio per sempre e io entro in convento stasera stessa…». Fernand sussultò. «… o voi mi obbedirete, signore, e farete tutto ciò che Jenny vorrà».

    «E sia», mormorò Fernand, vinto.

    «Allora mi obbedirai a cominciare da adesso».

    «Che devo fare?»

    «Tornare a casa tua, in rue d’Isly».

    Il giovane trasalì e pensò a Hermine, che certo lo piangeva già per morto.

    «Poi tornerai qui domattina».

    «Ma…». cercò di obiettare Fernand.

    «Non c’è ma che tenga… lo voglio!» disse Turquoise battendo il piede sul pavimento e aggrottando le sopracciglia.

    E poiché egli insisteva ancora, usò la persuasiva eloquenza femminile in tutta la sua forza di seduzione; e alla fine Fernand acconsentì ad andarsene.

    «Ah. finalmente!» mormorò Turquoise quando l’uomo se ne fu andato. «Decisamente lo tengo in pugno, e domani sarà affaccendato a intaccare il suo patrimonio per me. Oh, gli uomini, che imbecilli!»

    III.

    Il lettore ricorderà che Hermine, vedendo tornare Sarah, la cavalla preferita di Fernand, coperta di sudore, senza il suo cavaliere e condotta da uno sconosciuto, aveva dimenticato ogni ritegno per correre dal conte de Chàteau-Mailly. Non credeva che in lui, non aveva fiducia che in lui.

    Il conte si aspettava questa visita e, nel momento in cui la giovane donna faceva fermare la carrozza davanti al portone, un’altra carrozza ne usciva. In questa carrozza c’era il baronetto inglese, sir Arthur Collins, il quale aveva preannunciato al conte il prossimo arrivo della signora Rocher, perché sapeva già che la giumenta araba era stata riportata in rue d’Isly. Il conte, da seduttore esperto, piazzò le sue batterie in un batter d’occhio. Seppe dare al proprio volto un’impronta di malinconia e di suprema dignità, fece una toletta minuziosa per assumere un aspetto fintamente trascurato, e si insediò nel fumoir, che era la stanza più civettuola dell’appartamento.

    Era qui che aspettava, pieno di fede in quanto gli aveva detto uscendo sir Arthur Collins, quando udì uno squillo di campanello, insieme timido e precipitoso, che a un orecchio attento rivelava l’agitazione nervosa della mano del visitatore. Sentendo quello squillo il conte de Chàteau-Mailly ebbe il presentimento che fosse Hermine. Il cameriere entrò quasi subito nel fumoir.

    «Chi è?» domandò il conte con voce un po’ emozionata.

    «Una signora che aspetta in salotto e desidera vedere il signore».

    «La conosci?»

    «Non lo so».

    «Non lo sai?»

    «No», disse il cameriere, «ha sul volto un velo fittissimo».

    «Falla entrare qui», disse il conte.

    La donna velata entrò.

    Il conte seppe comportarsi in modo molto abile: parve non indovinare chi fosse la donna, e il suo volto manifestò la più viva sorpresa, senza tuttavia perdere la sua espressione di profonda malinconia.

    Ma Hermine alzò il velo appena il cameriere si ritirò. Allora il conte de Chàteau-Mailly emise un grido.

    «Voi qui, signora! Voi qui!» mormorò poi, fingendosi stupito.

    Hermine, orribilmente pallida, restò immobile.

    «Ah!» riprese il conte slanciandosi verso di lei e prendendole la mano, «scusatemi se vi ricevo così… e in questa stanza», aggiunse con un accento di cortesia che parve naturalissimo alla giovane donna. «Ma ero così lontano dal pensare… dal sospettare…».

    «Signore», disse Hermine, lasciandosi cadere su una sedia, «vengo da voi come da un amico…».

    «Oh, grazie!» mormorò lui, con voce alterata da un’autentica emozione.

    Poi, d’un tratto, sembrò pentirsi di quel moto di gioia.

    «Ma, mio Dio», esclamò, «che cosa è successo?»

    «Se ne è andato…». disse Hermine.

    Queste parole, uscendo dalle sue labbra, suonarono lugubri e accorate come il grido supremo di un cuore che si spezza.

    «È andato via!» esclamò il conte.

    «Sì», ripeté Hermine. «Ieri… alle otto… è tornato da quella donna…».

    Il conte de Chàteau-Mailly, tornato padrone di sé, ritenne opportuno lanciare un grido di sorpresa e d’indignazione, benché sapesse già perfettamente tutto quanto era accaduto, e non mancò di aggiungere:

    «Ma è impossibile! Signora, non può essere… È lei che è partita!»

    Hermine scosse il capo.

    «Le ho imposto di partire», proseguì il conte de Chàteau-Mailly, «e ormai è in viaggio per l’Italia».

    Hermine mandò un grido d’angoscia.

    «Ma… allora», balbettò poi, «Fernand è partito con lei?»

    E vacillante, affranta, prossima a svenire, ebbe tuttavia la forza di riferire al conte de Chàteau-Mailly come Sarah, la giumenta araba, fosse stata riportata al palazzo da Étampes, dove Fernand l’aveva affidata a un fattorino.

    Durante questo racconto il conte, recitando fedelmente la parte assegnatagli da sir Williams, interruppe parecchie volte Hermine con esclamazioni di stupore e di dolore… Poi, a un tratto, si alzò e, come dominato da un’ispirazione inattesa:

    «Signora», disse, «vi ho giurato di esservi amico, di riportarvi vostro marito, e manterrò la promessa… Se è partito, se ha lasciato Parigi con quell’essere abominevole, gli correrò dietro… lo costringerò a tornare…».

    Il conte parlava con calore, con entusiasmo, come un paladino che prenda la sventura sotto la sua protezione. Hermine pendeva dalle sue labbra, e credeva in lui.

    «Ascoltate», riprese il conte, «poiché siete venuta fin qui, poiché avete avuto tanta fiducia nel mio senso dell’onore, nella mia lealtà, da varcare la mia porta, andrete sino in fondo, non è vero?»

    Dicendo queste parole egli fremeva, e Hermine lo guardò con un’espressione di stupore che testimoniava con eloquenza la sua purezza d’animo. Non comprendeva.

    «Voi resterete qui», disse il conte, «resterete qui per un’ora o due, fino a quando ritornerò, non è vero? Bisogna che io sappia la verità subito, e andrò di corsa…».

    La povera donna ebbe una vaga speranza.

    «Resterò», disse docilmente.

    Il conte suonò per il cameriere.

    «Abbassate il velo, signora», disse. «Non si deve sospettare della moglie di Cesare».

    Hermine obbedì. Il cameriere socchiuse la porta.

    «Jean», disse il conte de Chàteau-Mailly, «non sono in casa per nessuno».

    Il cameriere s’inchinò.

    «Fammi preparare immediatamente la carrozza».

    Il cameriere uscì. Il conte andò nello spogliatoio, che era attiguo al fumoir, e si vestì rapidamente.

    Rimasta sola, Hermine aveva affondato il viso fra le mani e si era abbandonata al pianto. Il conte era separato da lei solo da una porta socchiusa e da una tenda abbassata: udì i suoi singhiozzi strazianti e per un istante ne fu realmente commosso.

    Ci fu un momento in

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1