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Arcuentu
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E-book622 pagine9 ore

Arcuentu

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Info su questo ebook

Darathos, l’Oscuro Signore, è tornato alla vita. L’unione druido-spiritica è stata compiuta, l’esistenza del suo unico figlio sacrificata. Il dominio sul Regno Terreno attende il detentore di perfidia, ma il suo volere non è ancora compiuto.

Un oracolo decreta la sua fine per mano di due giovani, Enoch e Levia, provenienti da un piccolo villaggio sottomesso da Belsebo, figlio di Darathos.

Un lungo viaggio attraverso terre selvagge e le Grandi acque salate; un Ramingo Forestiero, la cui vera origine è ancora velata, protegge e accompagna i due prescelti nelle numerose insidie incontrate. Numerose battaglie, creature e artifizi vengono scagliati contro di loro; un viaggio nel temuto, ma allo stesso tempo bramato Regno dell’Oblio li attende. Infine, l’approdo su un’isola, Icnousa, teatro della battaglia finale.
LinguaItaliano
Data di uscita10 gen 2017
ISBN9788869824869
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    Anteprima del libro

    Arcuentu - Lorenzo Vacca

    Lorenzo Vacca

    Arcuentu

    Cavinato Editore International 

    © Copyright 2016 Cavinato Editore International

    ISBN: 978-88-6982-486-9

    I edizione 2016

    Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati. I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi

    © Cavinato Editore International

    Vicolo dell’Inganno, 8 - 25122 Brescia - Italy

    Q +39 030 2053593

    Fax +39 030 2053493

    cavinatoeditore@hotmail.com

    info@cavinatoeditore.com

    www.cavinatoeditore.com

    Indice

    Introduzione

    Prolessi

    Prologo

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    Capitolo VII

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    Capitolo XXII

    Capitolo XXIII

    Capitolo XXIV

    Capitolo XXV

    Capitolo XXVI

    Capitolo XXVII

    Capitolo XXVIII

    Capitolo XXIX

    Capitolo XXX

    Capitolo XXXI

    Capitolo XXXII

    Capitolo XXXIII

    Capitolo XXXIV

    Capitolo XXXV

    Capitolo XXXVI

    Capitolo XXXVII

    Capitolo XXXVIII

    Capitolo XXXIX

    Capitolo XL

    Capitolo XLI

    Capitolo XLII

    Capitolo XLIII

    Capitolo XLIV

    Capitolo XLV

    Capitolo XLVI

    Capitolo XLVII

    Capitolo XLVIII

    Capitolo XLIX

    Capitolo L

    Capitolo LI

    Capitolo LII

    Capitolo LIII

    Capitolo LIV

    Capitolo LV

    Capitolo LVI

    Capitolo LVII

    Epilogo

    Glossario

    Ringraziamenti

    Alla mia Bisnonna

    Introduzione

    La ricerca, l’amore e l’oblio, queste sono le tre chiavi di lettura di Arcuentu.

    La ricerca, intesa come verità, come senso di appartenenza a qualcosa, sia essa radice culturale, religiosa, oppure semplicemente a caratteristiche affini, che facciano trovare noi stessi in sintonia con altre persone. Forse mi ha spinto maggiormente la totalità e al tempo stesso mancanza di radici geografiche da me percepite. Eppure, scavando nel profondo della propria anima, la vera essenza di cui noi tutti siamo costituiti, la nostra vera natura e con essa la nostra patria, che non è quella di origine, ma quella che nel cuore sentiamo appartenerci. L’amore, un sentimento inspiegabile, i cui numerosi intrecci sono tali da far perdere la testa anche all’intellettuale più illuminato; in qualche modo ho voluto trattare questo sentimento, tentando, a modo mio, di decifrarne alcuni aspetti. L’amore che dà gioia, l’amore che fornisce forza e vigore, ma anche quello tormentato, falso o che conduce alla disperazione. Nessun aspetto è oggettivamente negativo in questo mondo, forse scrivere un’opera filosofica su quest’appunto sarebbe stato più saggio, ma, come disse qualcuno prima di me, nessuno marcisce su mattoni di mille pagine scritti in un linguaggio che, alle volte, è sconosciuto all’autore stesso.

    Ogni aspetto ha una chiave positiva ed una negativa di lettura; così come la natura fornisce con generosità la vita e con la morte ne richiede il pegno. L’amore ha in sé gli stessi fondamenti, vissuto nella giusta via conduce ad una felicità superiore, forse degna solo della trascendenza, tuttavia, se vissuto in modo sbagliato, conduce alla disperazione più profonda cui si possa essere sottomessi. A quel punto noi uomini, limitati per natura nel non vedere le nostre colpe, incolpiamo l’amore, la natura, le persone, in casi ancor più scellerati Dio stesso per le nostre manchevolezze; mascherando a noi stessi questo grave errore. Noi siamo la colpa e la risoluzione al tempo stesso, la specie più eccelsa creata da Dio, decaduta a bestia più immonda e crudele. Rigettiamo la guerra, ma dimentichiamo di esser stati noi stessi a crearla; vogliamo l’unione tra i popoli, ma distinguiamo ancora per il colore della pelle o, peggio ancora, per differenze religiose. Non siamo noi tutti figli del medesimo Dio? Quest’aspetto così ovvio sfugge alle menti dei più eccelsi benpensanti.

    La chiave per sfuggire a questo mondo immondo, di cui noi stessi siamo la causa, è l’uomo stesso. Sottolineo, però, che quest’uomo non è quello conosciuto, non è presidente, né capo religioso, nulla di ciò da noi immaginato. Egli è l’uomo primordiale, quello fedele alla propria razza, unito alla sua gente per difendersi l’un l’altro dalle insidie di Madre Natura: le bestie feroci, il freddo notturno, l’umida pioggia e altre avversità.

    Gli eroi di Arcuentu: Enoch, Levia, Fitt, Eastre, Gaicò, Sila, Ror, Deban, Thena, il piccolo Fer, Ghior, Azus e Teotin; non sono Dei, né creature superiori, sono semplicemente uomini, uniti in un’unica missione, sconfiggere il male. Il male, un aspetto che pare quasi estratto da una favola per bambini, solo i loro occhi, non ancora annebbiati dall’egoismo della società umano, sono in grado di vedere il male, averne paura e combatterlo. Loro sono la soluzione all’umanità decaduta, per questo sono tra le prime vittime. Nell’opera ho inserito volutamente un episodio simile per far comprendere questa nascosta verità. Se morisse un bambino dall’altra parte del mondo, non faremmo altro che addossare la colpa a qualcun altro: tirannie, regimi totalitarie, terroristi, trafficanti di esseri umani. Non comprendiamo, però, che la colpa ricade sull’uomo e, in quanto noi stessi uomini, dobbiamo ritenerci responsabili di queste atrocità e combatterle in prima persona.

    L’ultimo aspetto è forse il più bramato: l’Oblio. Cosa intendiamo quando parliamo di relax? Normalmente affermiamo di non voler pensare a nulla, ma ciò che non ci chiediamo è Cos’è il nulla? Paradossalmente è tutto, ma al tempo stesso è niente. Ho immaginato dunque un mondo governato dall’Oblio, in cui nessun altro può vantare diritto, se non l’essenza suprema del nulla. Le essenze che vi risiedono sono tutto e nulla, in grado di mutare forma a loro piacimento, ma senza sapere quale assumono. Un mondo dove nessuno è padrone o schiavo, re o suddito, direttore o dipendente, generale o cadetto; un mondo di pace che ciascuno di noi brama e rigetta al contem-po.

    Volete scoprire la vera natura umana? In Arcuentu sarà rivelata.

    Prolessi

    I due giovani non potevano credere ai loro occhi, la profezia si stava avverando. La leggenda non era il solito falso mito, raccontato dai saggi come monito per le nuove generazioni, ma era una storia vera di cui loro erano i protagonisti, anzi i principali protagonisti: i prescelti.

    Enoch era ancora incredulo, chiuse gli occhi e pensò a tutto il lungo viaggio che avevano compiuto. Le ferite ancora bruciavano nel suo giovane e possente corpo. Erano giunti alla meta, vicini a raggiungere un obbiettivo, che avrebbe reso libere e felici non solo le loro vite, ma anche quelle di migliaia di persone.

    Mancava poco, quasi nulla, la conclusione delle loro peripezie era lì di fronte a loro, tanto vicina da poterla già assaporare.

    Un dilemma, una scelta che avrebbe cambiato i destini di migliaia di persone: quale Kleide utilizza- re?

    Una avrebbe liberato un popolo, un potente popolo, rinchiuso da secoli in un portale per evitare la distruzione ad opera di un druido maligno, il cui solo nome è in grado di far gelare il sangue a ogni essere umano: l’oscuro Darathos. Avrebbe reso gloria ai due giovani; nei libri di storia, nei racconti e nelle leggende si sarebbe narrato per i secoli a venire dei giovani Enoch e Levia, delle loro origi- ni, del loro viaggio, del loro rapporto con un Dio che li aveva aiutati durante tutto il percorso, non privo di insidie.

    Si sarebbe narrato di numerose vicende: la loro straordinaria avventura, l’eroica lotta contro l’oppressione di un tiranno, il coraggio di non voler assoggettare le proprie esistenze al volere di un maligno druido, a costo anche di rischiare le loro stesse vite.

    Il fulcro di tutta quest’avventura, il punto cardine di queste pericolose vicende fu l’amore, che ave-va spinto i due giovani ad allontanarsi dalla propria terra per salvare non solo le loro esistenze, ma anche un’antica popolazione costretta ormai da troppo tempo a un gravoso esilio forzato.

    Tutto ciò dipendeva da due Kleidi; una li avrebbe glorificati, l’altra li avrebbe condannati al falli- mento e avrebbe costretto il popolo Icnousiano a permanere in eterno intrappolato all’interno di un portale, costretto all’esilio forzato.

    Chi dei due giovani si sarebbe fatto carico di una scelta così rischiosa, gravosa, ma allo stesso tempo importante?

    Prologo

    L’individuo giaceva a terra, sdraiato in quello che non si poteva definire un pavimento e nemmeno un terreno. Una distesa di fumo scuro e maleodorante si trovava sotto di lui e lo sorreggeva, evitandogli così la caduta nell’abisso delle anime. L’unico rumore, che riecheg-giava in quel tetro ambiente, era una leggera brezza. Nonostante l’aria non fosse aspra, non lasciava presagire alcunché di buono. Il corpo di quello, che non sembrava un uomo, ma neppure uno spirito, era ancora riverso a terra. Alcune anime si radunarono intorno a lui, incuriosite per quello strano evento; nessun essere simile aveva mai fatto ingresso nel loro mondo. Iniziavano a chiedersi fra loro chi fosse costui e per quale motivo fosse stato mandato lì. Non era uno spirito come loro, poiché senza dubbio non era morto, tuttavia se era giunto in quel luogo, verosimilmente non poteva neanche essere vivo. Le loro parole ruppero il silenzio spettrale, che da sempre regnava sovrano in quegli oscuri paesaggi, ognuno di loro cercava di indovinare chi fosse il nuovo arrivato. Alcuni dicevano fosse uno strego- ne, altri un assassino, altri ancora ipotizzavano fantasie tanto sciocche da non meritare di essere citate. Infine il loro vociare si interruppe bruscamente, il nuovo arrivato si stava risvegliando. Anche se il termine risveglio non è propriamente esatto, in quel mondo nessuno dormiva o riposava, queste sono abitudini degli esseri viventi, non dei morti. I morti non vivono, di conseguenza non devono nemmeno riposare, come può riposare un’essenza che non esiste, quali fatiche potrà mai affrontare dopo il suo trapasso? Aprì gli occhi di scatto e notò subito l’assembramento di spiriti disposto intorno a lui, non tardò a capire il luogo dove si trovava. La prima preoccupazione fu di controllare che tutto fosse andato secondo i suoi piani. Si alzò lentamente in tutta la sua possenza, come se fin da principio volesse incutere timore in coloro che avrebbero dovuto trascorrere l’eternità con lui. Controllò con estrema accuratezza ogni parte del proprio corpo e notò con gran piacere che era riuscito nel suo losco intento. Ogni anima malvagia sa bene che, per quanto possa essere lunga la sua vita, prima o poi dovrà aprire le porte della sua dimora alle Janas e subire senza alcuno sconto la dura sentenza di Maymon. La sua anima maligna era stata condannata dal Dio, egli questo già lo sapeva, ricordava ancora gli ultimi istanti vissuti nel Regno Terreno. Qualsiasi altra creatura, sul letto di morte, avrebbe implorato il perdono degli Dei, supplicando in ogni modo la loro indulgenza, facendo promesse che non avrebbe potuto mantenere, giacché il suo tempo nel mondo era finito. Tutti si sarebbero comportati in tal maniera, nessuno affronta la morte senza redimersi di alcuni gesti scellerati compiuti durante la vita. Nessuno, tranne lui. Sapeva di non essersi comportato rettamente durante tutta la sua esistenza, molta gente era morta a causa sua e aveva subito lutti, umiliazioni, soprusi e malefatte di ogni genere. Questi pensieri non gli attanagliarono affatto la mente durante gli ultimi giorni di vita; l’unico atto mancato della sua vita era un altro, e lui lo sapeva bene. Aveva conquistato popoli, terre e regni, il suo potere oscuro si era espanso ben più a sud delle Alte montagne oscure,più di quanto nessun altra creatura maligna fosse mai riuscita o avesse mai pensato. Una sola parola gli attanagliava la mente morente, un solo popolo era scampato alla furia del maligno. Nessuno sconfisse mai l’Oscuro Signore, questo era impossibile anche per degli Dei; questo popolo, però, era riuscito con uno stratagemma e un aiuto trascendente a non farsi sottomettere. Non poteva morire, abbandonando per sempre il mondo, sapendo che la sua opera non era ancora compiuta del tutto. Un solo desiderio infervora- va la sua mente: vendetta, questo era ciò che bramava. Non doveva e non poteva finire così la sua esistenza, gli Dei si erano intromessi in una faccenda terrena, pur di non farlo trionfare, anche loro dunque avrebbero pagato a caro prezzo quest’affronto.

    Respirò l’aria maleodorante di quel luogo in segno di trionfo, gli sguardi degli altri spiriti conferma- vano una volta di più che il suo piano era perfettamente riuscito. Benvenuto nel nostro mondo disse una delle anime, facendosi coraggio. Questo è il Regno dei Morti.

    Una risata sinistra si levò tra i fumi addensati in quel cupo paesaggio; è difficile spiegare con le parole, ma quel luogo già tetro, divenne ancora più oscuro dopo il suo arrivo.

    Alla povera anima, che aveva osato rivolgergli parola, si gelò il sangue che non aveva nelle vene. Chi sei? Chiese impaurito. Perché mai sei stato mandato qui?

    L’Oscuro signore non lo degnò di risposta, voltò la schiena al suo interlocutore, rimasto solo, dopo che tutti gli altri erano fuggiti per paura, e iniziò a camminare per quelle lande oscure e desolate, meditando sui futuri piani e sulle mosse che avrebbe attuato.<> pensò tra sé e sé.

    Egli non era vivo, giacché la sua anima dimorava nel Regno dei Morti, allo stesso tempo, però, non era neanche morto. Il suo corpo non si era separato dall’anima, il risultato di quest’oscuro artifizio era stato trasformarlo in non-essenza. Egli ardiva ritornare alla radice dell’esistenza, come un essere prima di nascere; aveva ultimato la sua trasformazione ap-pena prima di esalare l’ultimo respiro, nemmeno le Janas si accorsero della sua trasforma-zione.

    Si sedette a terra ed incrociò le gambe, così da poter meditare in assoluta concentrazione. Ora doveva solo attendere; il suo ritorno sarebbe stato imminente, come una calamità si sarebbe abbattuto sui suoi nemici, nessun uomo sulla terra avrebbe avuto scampo dalla sua furia. Prima però doveva pensare alla vendetta, chiuse gli occhi, cercando di immaginare quell’isola che aveva maledetto e il popolo che con un inganno era sopravvissuto alla sua devastazione.

    Icnousa, questa fu la prima ed unica parola che pronunciò nel Regno dei Morti. Un sorri-so malefico si dipinse sul suo volto mentre le nebbie gli avvolgevano il corpo.

    Capitolo I

    Porrins

    Una leggera brezza attraversava da millenni quella catena montuosa, un venticello gelido che faceva rabbrividire gli abitanti dei villaggi situati in quelle zone. Il panorama visto dalle cime delle varie montagne, che circondavano la contea, era unico, idilliaco. Se un poeta avesse dovuto imma- ginare un locus amenus, non avrebbe potuto scegliere uno scenario migliore di quello.

    Le foreste erano ricche di vegetazione, ricoperte da macchie disseminate lungo i pendii e le valli su cui dominavano alberi secolari. La zona nord-occidentale era ricca di castagni, abeti e pini; nella parte orientale crescevano invece noci, betulle e larici, e sotto quest’ultime due germogliavano spesso piccoli cespugli di mirtillo o lampone.

    I boschi erano molto importanti per l’economia dei villaggi della contea, infatti, producevano una cospicua quantità di legname, il quale non solo era utile come combustibile per riscaldare le case durante l’inverno, che in quelle zone era assai rigido, ma veniva utilizzato anche come nell’edilizia, i tronchi grezzi, attraverso la sapiente lavorazione degli artigiani, assumevano nuove forme: travi, listelli e perline, indispensabili per la costruzione dei tetti. La falegnameria aveva un altro ruolo importante ed era un’attività molto praticata in tutti i villaggi.

    Inoltre, le selve della contea costituivano un’infinita riserva di cibi molto amati dagli abitanti, quali castagne e noci. Nei periodi di massima raccolta venivano organizzate nei vari villaggi numerose feste e sagre, in cui gli abitanti dei diversi borghi potevano incontrarsi e discutere, o avviare tra loro accordi commerciali. Nella zona nord-occidentale era particolarmente fruttuosa la raccolta di funghi, che venivano essiccati o inscatolati sott’olio, in modo da conservali più a lungo. Nella parte orientale invece era molto sviluppata la raccolta dei mirtilli e dei lamponi con cui venivano prepa- rate prelibate marmellate molto conosciute ed apprezzate, che i mercanti commerciavano anche all’infuori della contea.

    La contea aveva il nome di Lisuring, essa comprendeva, oltre al territorio citato, anche l’altra parte delle montagne, che si estendeva fino alle Grandi acque salate. In quelle terre sorgevano quindici villaggi: cinque erano situati lungo la costa, tra essi il più grande era Persepolis. Oltre ad essere il più vasto era anche il più antico villaggio della contea; prese il nome dal suo stesso fondatore , un personaggio poco noto alla storia, ma discendente di personaggi illustri, di cui molti autori hanno narrato le gesta e le leggende.

    I villaggi costieri minori erano Arbus, Xinus, Ranitma e Hez. In questi paesi la principale attività praticata era la pesca che, dopo i miseri mesi invernali, dava i suoi maggiori frutti in quelli primave-rili ed estivi. Primaria importanza aveva la pesca dei tonni, in quanto principale fonte di guadagno per tutti i pescatori locali.

    Lungo la catena montuosa e nelle valli montane si ergevano i restanti dieci villaggi. Beoduc era situato al confine occidentale, oltrepassandolo si sarebbe entrati nella contea di Oige; invece il vil-laggio di Agdil era posizionato lungo il confine orientale con la contea di Saret. Il più importante villaggio montano era Arbor, più che villaggio sarebbe corretto definirla città, in quanto contava circa ventimila abitanti. Arbor era una roccaforte inespugnabile, con mura alte oltre venti metri e difeso da un esercito regolare composto da milleduecento soldati e trecento guardie reali. Il cen-tro economico della contea aveva sede proprio all’interno della città, in essa, infatti, circolavano sia le merci che dai villaggi montani erano destinati a quelli costieri, sia quelle che, invece, percor-revano il tragitto opposto.

    Il suo sovrano era il più potente tra i re della contea, infatti, nonostante tutti i villaggi si governas-sero autonomamente, come delle sorta di città-stato, ognuno di essi doveva rispondere economicamente ad Arbor. I prezzi delle merci erano decisi proprio all’interno della città fortifica-ta e nessun altro villaggio poteva discordare i prezzari imposti. Il sovrano di Arbor era una persona molto rispettata negli altri villaggi, non solo per la sua potenza sia economica che militare, ma an- che per la sua saggezza. Infatti, più volte scese in campo in prima persona per sedare discordie e litigi nati tra villaggi della contea di Lisuring e delle contee circostanti. Il suo nome faceva compren-dere appieno la sua magnificenza, egli era re Fedor I.

    La contea racchiudeva altri piccoli villaggi, senza dubbio molto meno importanti rispetto ad Arbor. Nessuno di essi raggiungeva i mille abitanti.

    Uno di essi, però, aveva qualcosa di speciale. Un giorno ebbe inizio una storia, un’avventura mito- logica, una leggenda reale, che avrebbe portato due giovani abitanti del villaggio a compiere un viaggio lungo, speciale e magico, al limite tra realtà e mito.

    Tutto ciò in un villaggio composto da poche anime, seicentocinquantasette abitanti per l’esattezza, composto da piccole casette edificate su un solo piano, molto simili tra di loro. Il villaggio distava poche miglia da Arbor e al suo interno scorreva il fiume Martha, la cui forte corrente permetteva alle ruote dei cinque mulini presenti nel villaggio di lavorare incessantemente. Una volta fiorente e ricco, era da tempo caduto in miseria a causa di una presenza oscura, che distorceva la mente del sovrano e lo sottometteva, non consentendogli di agire seguendo la propria volontà.

    Tale villaggio fin dall’antichità portava il nome di Porrins.

    Capitolo II

    Epoca dell’oro e decadimento

    Un’unica e grossa via principale divideva il villaggio, dalla quale si diramavano lateralmente piccoli carruggi, dove erano disposte le varie abitazioni. Le case erano piccole in dimensione, non più di cinquanta metri quadri, tutte costruite su un solo piano. Le pareti esterne, ormai rovinate dagli agenti atmosferici e dall’incuria, erano invase dalla muffa, dovuta all’abbondante umidità presente nella valle. Alcuni di questi edifici erano fatiscenti, l’intonaco si staccava dalle pareti, in alcuni erano visibili addirittura i mattoni perimetrali. La maggior parte delle finestre aveva i vetri rotti e venivano riparate con mezzi di fortuna quali vecchie tele e lenzuola. I tetti fortunatamente erano una delle poche parti ancora preservate dalla restante fatiscenza. Ognuno di essi aveva una piccola canna fumaria, che permetteva di espellere il fumo creato dal fuoco dei modesti caminetti. Questi camini, ormai vecchi e intasati da cenere e fuliggine, non riuscivano a scaricare tutto il fumo all’e- sterno dell’abitazione, infatti, non era raro vedere grosse nuvole di fumo fuoriuscire dalle finestre o dalla porta d’ingresso delle case. Questo problema causò alcune morti per asfissia nell’ultimo anno.

    Solo due costruzioni ricordavano l’antica ricchezza del villaggio ed entrambe si trovavano nel cen-tro del paese, una vicina all’altra. L’obelisco di Horus e il palazzo reale.

    L’obelisco era stato per molti anni il simbolo stesso della ricchezza del paese. Esso proveniva dalle contee dell’estremo sud ed era stato costruito in onore del dio Hor, figlio di Osir, una delle più alte divinità venerate dai popoli di quelle terre. Fu comprato due secoli prima da re Lomclera e fu in-nalzato nella piazza centrale del villaggio. Al vertice era scolpito un falco, che raffigurava appunto il Dio stesso. Il volto era rivolto verso il balcone del palazzo reale, dal quale il sovrano si affacciava in poche circostanze, la più importante avveniva quando il sovrano mostrava al popolo di Porrins il suo primogenito, e quindi futuro re, subito dopo la nascita. Questa credenza aveva un profondo significato, il dio Hor avrebbe vegliato fin dalla nascita sugli eredi al trono e di conseguenza sull’in- tera popolazione, dato che il sovrano rappresentava in toto il suo popolo.

    Il palazzo reale era immenso, la sua grandezza era pari ad un terzo del villaggio, mura alte circa una dozzina di metri ne circondavano il perimetro. La forma delle mura era quadrangolare e in o- gnuno dei quattro lati si ergeva una torretta, all'interno della quale si appostavano sempre due soldati di guardia. Al palazzo si accedeva esclusivamente dalla porta principale, situata nel lato sud. Il portone alto quattro metri e largo due, era presidiato notte e giorno da cinque guardie, tre all’esterno e due all’interno del palazzo. Varcato il portone, si entrava in un vasto giardino, forma- to da lunghe aiuole nelle quali erano presenti piante, che arrivavano da ogni parte del mondo: la Scilla proveniente dalla Nuova Terra, l’Ornitogallo proveniente dai territori dei Moriscos, i manda- rini provenienti dagli stati del Sole nascente e molte altre piante di diversa origine. La pianta più preziosa era un vecchio bonsai, che si diceva avesse circa cinquecento anni, sicuramente doveva essere molto antico, era stato acquistato tre secoli prima dal re Niamogico, molto appassionato di flora. Il costo non fu per nulla esiguo, infatti, narrano le storie che il mercante della compagnia o-rientale che vendette la rara piantina al sovrano, avesse incassato una somma di denaro pari al ricavo di un intero raccolto annuale di grano.

    Insomma, era risaputo che tutti i re, che si erano susseguiti sul trono di Porrins, non badarono mai a spese per soddisfare le proprie brame, ma ciascuno di essi aveva da sempre avuto molta cura per il villaggio e per i propri sudditi. Si narra infatti che durante la terza dinastia Gunarica si verificò una grave epidemia, causata da una malattia sconosciuta. Dapprima provocava forti fitte allo sto-maco, nausee continue seguite da vomito, in seguito insorgevano grossi bubboni sulla pelle che, se scoppiavano, comportavano la fuoriuscita di sangue. Tale patologia aveva un altissimo tasso di mortalità, circa sette persone su dieci morivano pochi giorni dopo l’insorgenza dei primi sintomi.

    Un giorno entrò nel villaggio un erborista, che affermava di aver trovato l’antidoto di tale malattia e di averla già debellata in altre contee, ma avrebbe offerto le sue cure solo in cambio di un’ingen-te scorta di verdure, grano, carne, pesce, uova e chiaramente denaro. Il re, messo alle strette e caduto anch’egli vittima della malattia, non poté che acconsentire allo scambio dei medicinali in grado di salvare la vita sia a se stesso sia al suo popolo e cedette all’erborista quanto pattuito. La vicenda si concluse per il meglio, infatti, dopo l’assunzione dell’antidoto, nessun abitante di Por-rins morì più e, nel giro di una quindicina di giorni, ogni singolo cittadino fu guarito dalla piaga.

    Il rapporto di amore e fiducia tra sovrano e cittadini era alla base della fiorente economia e della ricchezza del villaggio; ma questo legame inscindibile tra il re e i suoi sudditi, dopo esser stato per-petrato per centinaia di anni, fu distrutto all’improvviso e inaspettatamente. A seguito del tracollo di tale connubio, ebbe inizio il decadimento del villaggio di Porrins.

    Capitolo III

    Ghnosco

    Era passata da poco l’alba di un giorno festivo, la gente non lavorava e trascorreva il tempo riversata nelle vie, per incontrare qualche amico. Gli incontri erano rari, a causa delle lunghe e sfiancanti giornate di lavoro. C’era chi s’intratteneva con il vicino, chi con un amico, altri ancora con i parenti.

    Intorno all’ora della massima ascesa del sole, si sarebbero recati tutti alla piazza centrale, per rendere omaggio a re Arioch. Quel giorno, infatti, era molto importante; erano trascorsi sette anni esatti dal suo insediamento sul trono di Porrins.

    La piazza si trovava nel centro del villaggio, il suo pavimento era formato da pietre lavorate a mano da maestri scalpellini, tutte dello stesso colore ma decorate con sottili sfumature diverse, in modo da abbellire ancor più quell’antica opera architettonica. La piazza aveva una forma ottagonale, ogni angolo era collegato a una delle otto vie maestre della cittadina, che portavano ai mulini ed ai campi, mentre dalla parte centrale si diramava la grande via centrale, nella quale ergevano le modeste dimore degli abitanti.

    I preparativi per la festa erano quasi ultimati, anche se chiamarla festa forse è una litote, un’esagerazione. Nel lato sinistro della piazza era stato posto un piccolo palco in legno, sul quale sarebbe stata rappresentata un’opera teatrale, che raccontasse la storia del villaggio. La posizione in cui era situato il palco non era casuale, infatti, dalla finestra principale del palazzo la visione dell’opera sarebbe stata ottimale per il sovrano e la regina-madre.

    Tutta la popolazione era invitata all’evento, anche se essi non avrebbero goduto molto dello spet-tacolo. Infatti, come era avvenuto negli anni precedenti, re Arioch avrebbe ordinato al popolo di prostrarsi a terra durante tutta la rappresentazione, in modo che nessuno potesse oscurargli mini-mamente la vista .

    Ogni angolo iniziava a gremirsi di gente, due persone erano addette alla catalogazione degli spettatori. Infatti, seppur la popolazione fosse stata solo formalmente invitata dal re ad assistere all’opera, la loro presenza quel giorno era obbligatoria, gli assenti sarebbero stati puniti con la fustigazione pubblica.

    La ressa delle persone aumentava con il trascorrere del tempo e le guardie non potevano control-lare tutto ciò che accadeva nella piazza.

    Un anziano signore riuscì a trovare un’ottima posizione per sedersi e raccontare una storia che narrava ormai da anni, sette per l’esattezza. Egli era un cantore, il suo nome era Ghnosco e aveva osteggiato fin da principio il regno di Arioch, giudicandolo malvagio e non all’altezza del padre. Ghnosco aveva una settantina di anni e questo faceva di lui uno degli uomini più anziani del villag-gio. Durante la sua vita aveva conosciuto altri tre sovrani di Porrins, che si erano susseguiti sul tro-no, ognuno di essi, a suo dire, aveva contribuito alla grandezza del villaggio.

    Lo sguardo dell’anziano cantore era ormai assente, i suoi occhi grigi apparivano ormai smarriti nel- l’immensità del nulla, in quella stessa essenza di nulla in cui era caduto il suo villaggio, la sua pa-tria, la sua Porrins. Ormai quando camminava nelle vie del paese, doveva trascinarsi con un basto- ne, che lo aiutasse a camminare, poiché a causa dell’età e di gravi problemi di deambulazione, dovuti alle numerose percosse perpetrate dalle guardie reali, mostrava difficoltà nel compiere molti movimenti. Indossava vestiti unti e strappati, sicuramente non lavati da moltissimo tempo; i suoi calzari avevano il fondo così consumato da rendere il moto ancora più difficoltoso di quanto non lo fosse già. Insieme con sé aveva sempre la sua cara cetra, compagna fedele di viaggio per tutta la sua vita, era diventata ormai una sorta di seconda moglie. Sottolineo seconda moglie perché Ghnosco fu sposato per molti anni, e oltretutto con una donna di una bellezza unica. Ancora vivo il ricordo dei suoi capelli ricci e biondi, mossi dal vento di primavera, illuminava i suoi pensieri, spesso ottenebrati. Lo sguardo che aveva rapito il suo cuore, gli occhi verde acqua durante le stagioni fredde che, con l’arrivo dell’estate, diventavano azzurri come il cielo e l’acqua del fiume. Quel fiume, Martha, dove molte volte erano andati a nuotare durante i giorni festivi e dove la loro giovinezza sembrava non passare mai. Tali ricordi non erano purtroppo i soli ad essere richiamati dalla sua mente, altri più cupi agitavano il suo spirito. In particolare vi era un pensiero indelebile a tormentarlo, nemmeno la morte di Ghnosco avrebbe potuto cancellarlo.

    Pochi anni prima, infatti, la moglie si era ammalata, un grave morbo l’aveva colpita e nessuna medicina o antidoto presente nel villaggio era riuscita a curarla. L’economia del villaggio era chiusa, un divieto assoluto vigeva sul commercio con gli stranieri o con i villaggi vicini. Ghnosco provò come ultimo tentativo di fuggire da Porrins, per andare alla ricerca dell’antidoto e poterla guarire, ma le guardie reali riuscirono a fermarlo e fu incarcerato. La sorte non gli permise neanche di rivedere viva la moglie, morì proprio durante la reclusione del marito.

    Egli sospirò, il ricordo della donna amata era sempre più vivo in lui, la amava molto e le mancava così tanto da sperare di morire anch’egli, così da poterla raggiungere e riabbracciare nuovamente.

    Ghnosco riteneva che il sovrano fosse colpevole della morte di sua moglie, a causa della politica di chiusura economica e commerciale perpetrata contro tutti gli altri villaggi.

    Sapeva che fisicamente non avrebbe potuto combattere, troppe guardie erano state arruolate per difendere il re, allora decise di affrontare il re Arioch con le parole e la musica. Era convinto che la forza fisica perisse, ma che la forza delle parole vivesse in eterno. A causa di questo suo ardire era già stato incarcerato e torturato, nonostante tutto proseguiva la sua battaglia senza alcun timore. A coloro che gli consigliavano di abbandonare la sua impari lotta, poiché al solo comando del re sarebbe stato immediatamente giustiziato, egli rispondeva un vero combattente un dì perirà,ma l’anima di un codardo giammai vivrà.

    Si fece coraggio, fece un respiro profondo, poi un altro ed un altro ancora. Schiarì la voce e piano piano, dolcemente, iniziò a sfiorare con le dita la cetra. Dopo aver sentito il dolce suono delle note, quasi fosse inebriato da esse, iniziò il suo racconto. Cittadini, compaesani tutti a me, camminiamo insieme nella via della verità. Racconterò l’epoca d’oro del nostro villaggio e la decadenza attuale. Voglio conquistare la vostra attenzione per far sì che i vostri cuori si destino, affinché il futuro delle nuove generazioni sia più florido del- l’opaco e tetro presente.

    La folla come tutti gli anni si volse verso Ghnosco, ascoltavano con profondo interesse le sue paro- le, non per la storia, che ormai conoscevano a memoria, ma per l’ardore e il coraggio di questo uo-mo, che da solo combatteva il re, per ottenere giustizia per la morte di sua moglie e affinché po-tesse infondere nei cuori degli abitanti di Porrins un barlume di speranza.

    Quasi colto in trans, Ghnosco alzò gli occhi al cielo e implorò l’aiuto degli Dei, affinché il suo racconto fosse veritiero e convincente, tanto da destare gli animi dei suoi compatrioti. O Euterpe, o sacra Hathor protettrice della musica e personificazione del cielo, aiutatemi nel racconto della mia patria, una volta fiorente e audace, oggi decadente. O sacra conoscenza, infondi saggezza nelle menti dei miei compatrioti, in modo che sappiano distinguere il vero dal mendace. E tu Astarte, dalle molteplici simbologie, ravviva la forza, il coraggio e il vigore nelle mie genti, divenute ormai vili e prive di onore, così che combattano con tenacia, affinché vi sia un futuro migliore e più radioso per Porrins e per i suoi figli.

    Dopo aver pronunciato tale frase, iniziò il suo racconto. Il suo sguardo si era mutato, se dapprima era assente, ora era divenuto molto deciso e carico di furore, sicuro di raggiungere il proprio obiet-tivo: smascherare la malignità, che si era insediata sul trono di Porrins. Con voce secca e decisa riprese la narrazione dei fatti . "La storia che vi racconterò non ha alcun spunto mitico o leggendario, con essa sono intenzionato a narrare esclusivamente la realtà dei fatti.

    Quando io nacqui sul trono di Porrins sedeva re Theodor IV, che aveva ereditato il potere da suo padre re Tnalleono. All’inizio del suo regno, Porrins era simile agli altri villaggi della contea, fatta eccezione per Arbor, e nessun cittadino, chiaramente escluso il sovrano, poteva dirsi ricco, ma tutti comunque godevano di numerosi privilegi. Insomma i nostri avi a quel tempo erano benestanti, nessuno possedeva qualcosa in più o in meno degli altri. Re Theodor IV però non si limitò a mantenere il benessere creato dai suoi predecessori. Decise invece di compiere una tanto immane quanto economicamente rischiosa opera pubblica. Rischiosa per il fatto che i soldi investiti in quest’opera provenivano esclusivamente dai fondi privati del sovrano, non fu aggiunta nessuna ulteriore tassazione per far fronte a questa ingente spesa. Appena fuori dal villaggio si estendeva un immenso territorio paludoso, in cui non era assolutamente praticabile l’agricoltura, tantomeno la coltivazione del grano, che era la fonte di sostentamento primaria per il villaggio. Il sovrano ordinò un’opera di bonifica dell’intera palude che, grazie all’aiuto dell’intera popolazione, fu completata in meno di un anno. Terminata la bonifica, i nuovi territori furono spartiti equamen-te ad ogni cittadino. Negli anni successivi, utilizzando intensamente il nuovo territorio agrario, la produzione del grano decuplicò, il villaggio di Porrins divenne il primo produttore di grano di tutta la contea di Lisuring. Questo periodo fu chiamato età del grano ed in breve tempo il villaggio arrivò ad avere il suo massimo splendore. Theodor IV non ebbe mai figli e dopo la sua morte salì al trono suo nipote, figlio della sorella di Theodor, e prese il nome di re Astor II. Quando assunse il potere il villaggio aveva un solo mulino, che doveva sobbarcarsi un’elevata mole di lavoro, dovuta all’aumento della produzione del grano. Questo aspetto spesso obbligava i mugnai a turni di lavoro massacranti, nei quali potevano trascorrere anche tre o addirittura quattro giorni di fila senza dormire. Egli, per risolvere questa grave incombenza, ordinò la costruzione di altri quattro mulini che, usando come forza motrice l’impetuosa corrente del fiume Martha, permisero la lavorazione del grano e la conseguente produzione di farina. Sotto il suo regno il villaggio di Porrins ottenne dal regno di Arbor il monopolio del grano e della farina. Fu il primo ed unico villaggio, all’infuori di Arbor, a cui era concesso stabilire il prezzo di vendita di uno dei suoi beni commerciali. In questo modo Porrins si ritagliò un ruolo di primissimo piano nell’economia della contea. Dopo la scomparsa di re Astor II, salì al trono il sovrano più amato da me e penso anche da tutti i miei concittadini. S’interruppe, il tempo necessario per tirare il fiato. Re Melchise". Dopo aver pronunciato il nome, si bloccò nuovamente, il suo racconto fu interrotto per pochi istanti, i quali però apparvero alla gente come una giusta continuazione della narrazione stessa. Ghnosco era visibilmente emozionato, provava molto affetto ed ammirazione per l’ex sovrano. Un bambino porse al cantore una brocca di vino per far dissetare il poeta, egli la deglutì in un solo sorso; inebriato dal nettare divino e dopo essersi asciugato la bocca delicata-mente con l’avambraccio, riprese il racconto dei fatti.

    "Egli non continuò la politica di continuo progresso perpetrata dai suoi predecessori, ma si limitò a mantenere efficiente ciò che era stato costruito durante l’età del grano. Inoltre, non dovendo incorrere in nuove spese dovute ad eventuali futuri progetti, attuò un ingente taglio delle tasse, che calarono fino ad essere inferiori ad 1/10 del fatturato annuale. Il sovrano comprese che l’epo-ca del grano fosse ormai definitivamente passata, non erano possibili ulteriori aumenti della pro-duzione annuale, in quanto tutte le aree potenzialmente coltivabili, presenti nel territorio del vil-laggio, erano interamente coltivate. Il nodo cruciale del suo lungo regno, infatti, fu un’efficiente amministrazione di ciò che i suoi predecessori avevano creato. Durante il suo regno ciascun abi-tante del villaggio possedeva un appezzamento di terreno, in grado di fargli guadagnare all’anno uno stipendio che negli altri villaggi della contea si raggiungeva dopo dieci anni di lavoro. Il popolo amava re Melchise e questo sentimento era contraccambiato dal sovrano. Il giorno in cui si unì in matrimonio con la regina Saira, figlia del re di Arbor con il quale intratteneva molti rapporti economici e politici, decise di invitare tutta la cittadinanza, non solo alla cerimonia, fatto già di per sé inusuale, ma addirittura al banchetto tenuto a coorte alla presenza dei sovrani di tutti gli altri villaggi e dei rappresentati dell’aristocrazia delle contee di Saret e Oige. Il pranzo che fu servito era tutto a base di pesci prelibati e frutti di mare provenienti dai villaggi costieri di Xinus, Arbus, Hez, Ranitma e Persepolis. Nonostante le fastose nozze e il forte sentimento amoroso provato da Mel-chise nei confronti della sua consorte, non vi era cosa o persona che il re amasse più del proprio villaggio. Ogni sera, prima del tramonto, il sovrano si sporgeva dalla finestra del palazzo e ammira-va Porrins, dalle semplici casette all’obelisco di Horus, dalla piazza centrale alle campagne colti-vate, dalla forte corrente del fiume Martha ai cinque mulini, fonti di ricchezza e prosperità. Tutto questo meraviglioso panorama gli riempiva il cuore di gioia e felicità e lo faceva andare a dormire sereno.

    Improvvisamente, un giorno, echeggiò in tutto il villaggio il forte clangore delle trombe, suonate dalle guardie appostate alle quattro torrette di controllo. In un istante tutti gli abitanti furono ra-dunati nella piazza principale, situata sotto le mura del palazzo reale, per udire ciò che il loro re aveva intenzione di dirgli. La folla gremita attese per qualche istante trepidante, la gente si interro-gava su quale fosse l’annuncio così importante che il sovrano avrebbe dovuto fare e se fosse così tanto importante da far destare l’intera popolazione, mediante il suono delle trombe, verso le sei del mattino. L’attesa si prolungò ancora per un certo lasso di tempo, mentre la curiosità della gente accresceva sempre più. Alcuni tra noi iniziavano a formulare qualche ipotesi sull’argomento del discorso reale. C’era chi ipotizzava una dichiarazione di guerra contro gli altri villaggi, ma ciò era poco credibile. Infatti, re Melchise era molto famoso per la sua diplomazia e difficilmente avrebbe attaccato gli altri villaggi della contea, i quali erano i principali acquirenti del grano e della farina prodotta da Porrins. Altri ipotizzavano un aumento delle tasse, ma anche questa ipotesi era poco credibile, da secoli le casse reali erano stracolme di oro, argento e pietre preziose, ricavato dalle varie operazioni commerciali. Nella piazza si era creato un gran vociare, tutti parlavano tra di loro, alcuni urlavano per farsi comprendere, ognuno esternava la propria teoria riguardo al discorso che il re avrebbe tenuto e questo non fece altro che creare ulteriore confusione. Improvvisamente la piazza si ammutolì di colpo, come se tutti quanti simultaneamente avessero visto un fantasma, ma non era la visione di uno spettro ad averli fatti tacere, bensì ciò che accadde nel palazzo. L’enorme finestrone che dava sul balcone si spalancò, per primo uscì un damerino di corte con un foglio in mano e si accingeva a leggerlo. Ricordo ancora quell’istante in cui prese la parola. ‘Abitanti del villaggio di Porrins, ascoltate, il nostro amato re Melchise ha un annuncio importante da fare a tutta la popolazione. Il sovrano si scusa con voi tutti per avervi destato improvvisamente dal vostro sonno e ad un orario non raccomandabile. Vi prego di ascoltare in silenzio ciò che ha da riferirvi. Ora che ho ultimato il mio breve compito, ho l’onore e l’onere di annunciare l’uscita del nostro sovrano, porgete i vostri saluti al nostro amato re Melchise’.

    Detto ciò il damerino si congedò dalla folla e si affacciò dal balcone, apparendo ai nostri occhi, re Melchise. Il suo aspetto era fiero, risoluto e sicuro di quanto volesse annunciarci. Indossava le sue vesti più eleganti, con il mantello rosso porpora apparve ancora più prestante di quanto non fosse già di natura. Il re, infatti, era molto alto di statura, circa un metro e ottantacinque ed aveva un fisico forte e possente, allenato con estenuanti esercizi fisici tutti i giorni. La sua corona, che aveva ereditato dai suoi predecessori, ma che aveva deciso di arricchire con l’aggiunta di alcune gemme preziose, risplendeva alla luce del sole che stava sorgendo da dietro il monte Palares. Si affacciò dal balcone in modo da poter vedere ogni singola persona radunata nella piazza sottostante e, con un cenno della mano destra, al cui dito indice portava l’anello raffigurante lo stemma reale, salutò la gente, accorsa per udire il suo discorso. Attese ancora un piccolo istante, il tempo necessario per far sì che gli ultimi brusii della folla mutassero in assoluto silenzio. Poi, con tono forte e chiaro, iniziò a parlare. Il suo discorso mi colpì a tal punto che, ancora oggi, ricordo ogni frase, ogni punto, ogni virgola; ogni particolare si impresse in modo indissolubile nella mia memoria".

    A quel punto Ghnosco cercò di ingrossare la voce, così da renderla degna e maggiormente simile a quella dell’amato sovrano. Fece un profondo respiro e ripeté parola per parola il discorso che, proprio di fronte a quella piazza gremita, fece re Melchise alcuni decenni prima. Il popolo immobile ascoltava, era sempre una grande emozione, alcuni tra i componenti della folla avevano assistito al discorso del sovrano scomparso e proprio in loro si leggeva negli occhi un filo di emozione. ‘Amatissimi concittadini’.

    Re Melchise si rivolgeva sempre con tale termine agli abitanti del villaggio, mai durante il suo re-gno definì sudditi i suoi compaesani .

    ‘Oggi è un giorno speciale per me, per voi, per il regno e per l’intera contea. Dal giorno in cui succedetti a mio padre, re Astor II, non vi fu nulla che amai più del nostro amato villaggio e più di voi tutti, che vi adoperate incessantemente, affinché prosperi la ricchezza nella nostra terra. All’a- more per Porrins non anteposi mai nemmeno il sincero, puro e vero sentimento che provo per la mia consorte, la regina Saira. Oggi però devo annunciare a voi tutti, con la massima sincerità e dal profondo del mio cuore, che amerò una persona molto più di quanto amo sia il villaggio sia voi, miei cari e fedeli compaesani. Ma non rattristatevi, perché la notizia che ho da darvi è lieta e felice tanto per me quanto per voi’.

    A quel punto il popolo iniziò a non capire e a chiedersi cosa realmente Melchise volesse dir loro attraverso quel discorso. I brusii aumentavano e si accrescevano, ma il sovrano, dopo una breve pausa, aumentò il tono della sua voce. In un istante tutta la piazza tornò silente.

    Anche Ghnosco, quasi fosse la personificazione del suo amato monarca, fece un acuto, come per attirare l’attenzione della folla, che ormai da diverse decine di minuti lo ascoltava in un silenzio reverenziale.

    ‘La persona che da oggi amerò più di ogni cosa al mondo, più di ogni divinità e più della mia stessa vita è mio figlio. Questa mattina, infatti, la mia amata moglie Saira, vostra regina, ha dato alla luce il nostro primogenito, che regnerà dopo di me. Mi sembrava giusto e doveroso informare la mia gente di questo lieto evento’.

    In quell’istante si affacciò al balcone la regina Saira, tenendo tra le braccia un neonato avvolto in fasce. La donna appariva ancora provata dal parto, che doveva essere terminato non più di un’ora prima dell’annuncio, ma il suo sguardo sereno infondeva felicità e gioia in chi la guardasse. Re Melchise prese il piccolo dalle braccia della madre, lo baciò teneramente sulla fronte poi lo sollevò al cielo pronunciando queste parole

    La voce del cantore s’infervorò nuovamente .

    ‘O popolo di Porrins, presento a voi il vostro futuro sovrano, il mio amatissimo figlio, il principe Arioch, che quando mi succederà sarà il continuatore della politica di pace e ricchezza che ho assicurato e assicurerò, durante tutto il mio regno, ad ogni singolo abitante del villaggio’.

    In quell’istante il cielo divenne all’improvviso cupo e un forte temporale iniziò a cadere. All’improvviso dal cielo si abbatté una saetta, che colpì l’obelisco di Hor, distruggendo il volto di falco della divinità. I detriti caddero sulla folla gremita nella piazza sottostante e misero tutti in fuga. In breve tempo si generò un caos insolito per il villaggio, che da sempre era abituato alla tranquillità e all’armonia, un altro avvenimento però fu più negativo. Il volto del Dio era ormai rovinato e, credenze mistiche o meno, da quel giorno non avrebbe più vegliato sui sovrani del vil-laggio. Il re Melchise e la regina Saira con il piccolo in braccio si ripararono immediatamente all’interno del palazzo reale.

    Ghnosco fece ancora un’ultima pausa prima di concludere il racconto.

    Ricordo ancora oggi le parole colme di gioia del sovrano, che annunciavano la nascita del suo primogenito, presentandolo come prosecutore della sua politica di pace, giustizia e diplomazia. Il povero Melchise era purtroppo ignaro di ciò che sarebbe accaduto in seguito.

    Capitolo IV

    Belsebo

    Il racconto di Ghnosco proseguiva senza sosta, il popolo lo ascoltava con estrema attenzione, per un istante il tempo sembrava aver arrestato l’irrefrenabile corsa degli eventi ed essere tornato indietro. Fiorente e ricca era Porrins in quegli anni ormai passati, quasi nulla era rimasto dell’antico splendore. Le varie persone presenti nella folla rivolsero la mente nel passato, a quei dolci ricordi dei tempi che furono. Un’eternità pareva trascorsa dal periodo di quei fasti, ma anche in quest’aspetto il tempo è ingannatore, solo sette anni separavano quegli istanti dal racconto di Ghnosco. Sette insignificanti anni, per sette volte si erano avvicendate le dodici lune, in così poco tempo può cadere in miseria un’intera patria?

    Ghnosco fece un ennesima pausa, la sua voce si era fatta ormai fioca e nel suo viso si potevano riconoscere i marcati segni della stanchezza fisica dovuta allo sforzo e alla sua età. Guardò per un attimo fisso a terra, come se non volesse incrociare lo sguardo di nessuno spettatore. Doveva raccogliere le forze, le sue ultime forze per terminare la narrazione.

    ‘ Lo devo fare’ pensò, ‘ lo devo fare per tutti loro, per i miei concittadini, per il mio villaggio, lo devo fare per lei. O divinità del cielo e della terra solo voi sapete quanto mi manca’.

    I pensieri per la propria moglie erano ricorrenti, ma in questo momento ancor di più. Sentì una dolce sensazione, il vento leggero, che proveniva da dietro la sua schiena, lo accarezzava dolcemente. Pareva quasi come se una mano, una dolce mano femminile, si stesse poggiando sulla sua spalla, quasi volesse fornirgli la forza necessaria per terminare la narrazione. Ghnosco, quasi preso in estasi, pronunciò un nome, un nome che custodiva nella sua memoria ormai da troppi anni, un nome che gli rievocava migliaia di ricordi felici, ma che allo stesso tempo lo rendeva molto triste.

    Aurore

    Si volse indietro, come se cercasse il viso e il

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