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Il Tramonto Della Luna - Volume Quinto - L'ira del Creatore
Il Tramonto Della Luna - Volume Quinto - L'ira del Creatore
Il Tramonto Della Luna - Volume Quinto - L'ira del Creatore
E-book311 pagine3 ore

Il Tramonto Della Luna - Volume Quinto - L'ira del Creatore

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Info su questo ebook

Il Quinto Volume de “Il Tramonto della Luna”

Chi è in realtà il Generale Unificato? Quali verità si nascondono dietro il suo potere?
Il trionfo del Nemico ha lasciato dietro di sé un’interminabile scia di domande che rischiano di non trovare mai risposta.
Intanto il fiume di sangue continua a scorrere: l’ordine repubblicano di Arondrall è annientato, i regni del Norrendal assoggettati e i pochi sopravvissuti che osano ancora opporsi sono stati dichiarati fuorilegge.
Nonostante tutto questo, dalle remote isole del sud Airalos Salindar è deciso a tentare un’ultima disperata azione per smascherare le manovre del Signore del Norrendal. Tutto però potrebbe rivelarsi inutile, poiché dinanzi a poteri superiori, nessun uomo può nulla.

“Ogni cosa ebbe inizio con le Forze Primigenie. Esse erano in eterna lotta tra loro per la conquista del Tutto e del Cosmo. Colei che avesse vinto, avrebbe modellato il Vero a propria immagine e a proprio volere.”

L’ultimo avvincente capitolo della Saga “Il Tramonto della Luna”
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2017
ISBN9788826003474
Il Tramonto Della Luna - Volume Quinto - L'ira del Creatore

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    Anteprima del libro

    Il Tramonto Della Luna - Volume Quinto - L'ira del Creatore - Andrea Micalone

    personaggi.

    Prologo

    Le strade di Killingar al mattino: gremite, ma non rumorose.

    Poi si udì uno scalpitare di zoccoli e la folla dovette allargarsi.

    Un cavaliere incitava con foga il proprio animale e gridava di fargli largo. La cavalcatura schiumante, lanciata in un folle galoppo, nitriva. Gli elfi per via si fecero da parte, spaventati, e inveirono rabbiosi contro quell’inutile umano.

    L’uomo però non poteva rallentare. Era quasi arrivato.

    Raggiungere infine il cancello che chiudeva la strada e scendere al suolo furono un solo gesto per lui.

    Il viaggiatore subito corse dentro la recinzione, verso la Casa di Cura di Killingar, enorme e imperiosa. Come tutte le costruzioni elfiche, anche questa era sormontata da un appuntito tetto in corteccia di cipresso, sostenuto da assi di legno dipinte nel caratteristico rosso cinabro. Ovunque si ergevano guglie e spuntoni, dorati o bianchi, rifiniti in minutissimi dettagli.

    Entrò nell’atrio di ingresso e si trovò intorno una decina di guardie armate. Queste, alla vista del visitatore inatteso, gli si fecero incontro sospettose.

    «Dov’è Saren?» Urlò l’uomo.

    Il soldato maggiore di grado assunse un’aria palesemente disgustata. «Calmatevi e parlate piano, umano. Siamo in un luogo di cura, pertanto non vi è concesso…»

    «Maledizione! Dov’è Saren?» L’uomo strinse i pugni e si rivolse a un’altra guardia, una qualsiasi.

    Il militare che aveva già parlato si fece rosso in viso. «Vi prego di non urlare, altrimenti saremo costretti a cacciarvi. Volete spiegarmi con calma di cosa avete bisogno?»

    Dal corridoio che si apriva sul fondo giunse allora un nano trafelato. Costui indossava la classica tunica bianca da guaritore. Arrivò con le palpebre strette, visibilmente infastidito da tutto quel chiasso. «Si può sapere cosa sta succedendo?»

    Non appena si fece largo nel salone, i suoi occhi però brillarono di sorpresa. «Ellendar!» Corse estasiato verso l’uomo.

    Quest’ultimo spalancò i propri occhi liquidi. «Ulion! Grazie alla volontà naturale!»

    Le guardie si fecero da parte, mentre il nano e l’uomo si abbracciavano.

    «Ulion, ho fatto di tutto per giungere in tempo. Qual è la situazione?»

    Il sorriso del nano perse vigore e le sue pupille si abbassarono sul pavimento. «Non posso mentirti, amico.»

    Ellendar sbarrò gli occhi. «Cosa?»

    «Parla piano.»

    «Come sta Saren?»

    Ulion tornò a guardarlo e scosse la testa. «Non bene, amico. Non bene.»

    «Ma si riprenderà? Avevi detto…»

    «Avevo detto che avremmo valutato con attenzione le condizioni dell’elfa. Non potevo garantirti nulla.»

    Ellendar si passò le dita tra i ricci capelli castani. Nonostante i suoi cinquant’anni portati egregiamente, si sentì improvvisamente vecchio, come se l’età gli fosse esplosa dentro alle parole del nano. «Ulion, cosa stai cercando di dirmi?»

    Le sopracciglia del guaritore si alzarono verso il centro, come a formare un tetto. «Ellendar, devo essere sincero. Saren presenta gravi sintomi. Ha un’infezione polmonare avanzata a cui nessun guaritore può porre rimedio.»

    «Ma lei…»

    «Ellendar, tua moglie sta morendo.»

    L’uomo rimase con le labbra socchiuse: si sforzò di trovare un senso a quelle parole, ma senza risultati. Le lacrime gli offuscarono la vista.

    Il nano continuò:

    «Saren è una guaritrice come me e non è sciocca: ha già compreso la situazione. Temo che morirà entro una settimana.»

    «Una settimana?»

    «Forse di più, ma non posso garantirlo. Non resta che affidarsi al volere della Madre Montagna, di Bahalembor… o di chi preferisci.»

    Ellendar si volse di spalle scuotendo la testa. «Proprio ora… Proprio ora che…»

    «Ellendar, vuoi vederla?»

    Entrarono in una piccola stanza adibita a dormitorio. Il nano Ulion rimase sull’ingresso con gli occhi bassi, mentre Ellendar si fece avanti sino al capezzale.

    Sul letto era distesa un’elfa che rivelava una sconfinata bellezza passata, ma che ora si mostrava pallida e indebolita, come un candido fiore avvizzito alla luce solare. Oltre il letto, dal lato opposto rispetto all’ingresso, due bambini se ne stavano seduti su degli sgabelli. Entrambi mezz’elfi, guardavano con tristezza la propria madre. A sinistra c’era una bambina di dodici anni, i capelli biondi come l’elfa morente e gli occhi azzurri colmi di dolore; a destra invece stava seduto un bimbetto di appena due anni che faceva oscillare i piedini con una certa preoccupazione. I suoi occhi scuri e profondi erano identici a quelli di suo padre, identici a quelli di Ellendar.

    L’elfa sul letto, appena vide lo stregone, cercò di alzarsi sui gomiti, ma non riuscì nell’intento.

    Ellendar scattò in avanti. «Ferma, Saren, non stancarti.»

    «Amore, sei arrivato…» Ella gli sorrise.

    «Sì, sono corso qui.» Cercò di rallegrarsi anche lui. «Ti porto notizie fantastiche.»

    «Che bello…» Si rivolse ai piccoli. «Bambini, salutate vostro padre.»

    Il maschio alzò la manina in un piccolo cenno, mentre la ragazzina abbassò gli occhi, stringendo le labbra con fastidio evidente.

    La madre la richiamò:

    «Elyante, non fare la sciocca. Saluta tuo padre come ha fatto tuo fratello Prolkorin.»

    La piccola mezz’elfa alzò per un attimo la testa e fece un cenno, quindi tornò a guardarsi i piedi.

    Saren spostò gli stanchi occhi sul marito. «Perdonali. È tanto che non ti vedono.»

    Ellendar scosse il capo. «Non badare a queste sciocchezze. Ci sono meravigliose novità!»

    L’elfa inarcò un sorriso pesante come un cielo carico di nubi. «Quali novità?»

    «Entrerò definitivamente nella Congrega e nel Consiglio Repubblicano di Arondrall.»

    «Amore… che notizia meravigliosa…»

    «Ho aspettato questo momento da una vita, Saren. Tra due settimane verrà dato l’annuncio ufficiale ad Arondrall. Possiamo andare tutti insieme alla capitale degli uomini, così potrete esserci anche voi.»

    L’elfa assentì. «I bambini saranno felici di venire con te.»

    La ragazzina scattò inviperita. «Mamma!»

    Ellendar alzò le mani. «Non soltanto loro! Anche tu, Saren! Anche tu dovrai venire!»

    «Io non posso, amore…»

    «Ti trasporteremo con una carovana sicura. Non ti stancherai. E poi ti porterò alle Case di Cura di Arondrall. Lì riceverai le migliori cure possibili.»

    Il nano Ulion, rimasto sino ad allora sulla soglia, si fece al fianco dell’uomo. «Ellendar, perdonami se ti interrompo, ma…»

    L’Arcimago lo guardò con disgusto. «Cosa vuoi tu?»

    «Ellendar, ti ho già detto che tua moglie… Saren non può muoversi.»

    «La porteremo in tutta sicurezza! Io devo tornare! Saren, ragiona.»

    L’elfa tossì in una smorfia di dolore, poi disse:

    «No, amore. Ti prego, non insistere. Ulion ha ragione. Porta i bambini con te, staranno molto meglio ad Arondrall. Io non ce la faccio. Ci vedremo dopo.»

    Il piccolo Prolkorin allora si tuffò in avanti, piagnucolante, per abbracciare la madre. Elyante invece rimase immobile, guardandola con gli occhi socchiusi, ma le sussurrò:

    «Noi rimarremo qui, mamma. Neanche Prolkorin vuole partire con… quest’uomo.»

    Ellendar strinse i pugni. «I bambini hanno ragione, Saren. O partiamo tutti, o nessuno.»

    La malata, avvinta dalle braccia del piccolo, strinse le labbra per trattenere il pianto. Tornò a guardare il marito:

    «No, amore. Non possiamo partire tutti.»

    L’uomo si sedette sulla sponda del letto. «Saren, ascoltami. Io non potrò mancare alla cerimonia che si terrà ad Arondrall tra due settimane. Sono arrivato qui di corsa per organizzare la nostra partenza. Dobbiamo andare oggi stesso, altrimenti non arriveremo in tempo. Capisci che…»

    La moglie lo interruppe. «Capisco benissimo. So che non potrai mancare a un evento così importante.» I singhiozzi soffocati di Prolkorin riempivano i silenzi. «Tu devi andare. Parti e, se ci riesci, convinci i bambini a venire con te. Ci rincontreremo dopo la cerimonia, amore.»

    Il nano Ulion si rifece avanti per protestare, ma stavolta si fermò con la bocca aperta. Tutti lo guardarono. Egli richiuse le labbra e si tirò di nuovo indietro.

    Ellendar tornò con le pupille sull’elfa. «I bambini non mi seguiranno senza di te.»

    Saren sospirò, poi tossì con forza, tenendosi il petto.

    Neanche Prolkorin adesso piangeva più. Nessuno parlava, mentre l’elfa continuava a tossire.

    Dopo un silenzio lungo come un’intera vita, Ellendar si rialzò in piedi.

    «Se non puoi seguirmi, Saren, io sono costretto a partire da solo.»

    «Vai, amore. Non preoccuparti di me.»

    «Ci rivedremo?»

    «Certo, amore. Quando tornerai, mi troverai sempre qui.» Sorrise.

    L’uomo annuì e si chinò per baciarle la fronte. «Allora vado, amore. Ci vediamo presto.»

    Ella assentì.

    L’Arcimago andò verso la porta, seguito da Ulion.

    Sulla soglia però si fermò e si volse di nuovo verso la moglie. Quella gli sorrideva ancora, ma lui non riuscì a ricambiare. Le lacrime gli colmarono le palpebre.

    Dietro Saren, la piccola Elyante lo guardò allora per la prima volta, negli occhi. Lo fissò con tutto il disgusto di cui fu capace.

    Ellendar uscì.

    Una volta nel corridoio, Ulion lo tirò per la veste. «Amico, ma cosa fai?»

    Ellendar non si fermò: continuò a camminare in silenzio.

    «Per la Madre Montagna! Sei sordo, Ellendar?»

    L’Arcimago si volse di scatto e prese il nano per la collottola. «No, non sono sordo! Ti sento benissimo.»

    «Ellendar, se parti non la rivedrai mai. Lo capisci, vecchio idiota? Lei morirà! Non ha due settimane di tempo. Devi rimanere qui, al suo fianco.»

    Lo stregone lo lasciò andare, si lisciò i denti con la lingua, poi assentì. «Ulion, non posso perdere quest’occasione: la aspetto da una vita. Non posso abbandonare il Consiglio Repubblicano per… per questo.»

    «Il Consiglio è più importante della vita di tua moglie?»

    Ellendar digrignò i denti e scosse violentemente il capo, come per scacciare un pensiero fastidioso simile a una mosca. «Tu non hai idea di quanto io l’abbia amata. Non sai quanto mi costi tutto ciò.»

    Il nano sbuffò in un ghigno infastidito. «Temo che neanche tu sappia quanto ti costerà.»

    Capitolo Primo

    Morte sul mare

    Il sole era sorto nei mari del sud.

    Nel rimettere piede sulle scialuppe ancorate ai piedi della scogliera, tutti gli uomini si lasciarono andare a sospiri di sollievo.

    Dopo aver attraversato l’allucinante Altipiano delle Acque Brune, ora finalmente si sentivano al sicuro. Anche la via del ritorno aveva presentato molte difficoltà, prima tra tutte la presenza dei famelici Draugen, ma adesso erano salvi.

    Erano sopravvissuti soltanto in sei: Airalos, Warriant e quattro Cavalieri Arancio. Uno dei kendoriani versava però in condizioni critiche: un tremendo squarcio gli si apriva sul fianco e aveva assunto un colorito pallido, quasi verdognolo.

    Ripresero entrambe le scialuppe e si avviarono in direzione della galea distante un centinaio di metri. Airalos aiutò ai remi, mentre Ser Warriant si prodigava nel curare il ferito. Tra loro non c’era più nessuno dotato di magie curative, perciò occorreva provvedere alla buona, con gli scarsi materiali a disposizione.

    Airalos, impegnato ai remi assieme a un altro Cavaliere, guardava intanto verso la galea poco lontana. Ancora un piccolo sforzo, poi avrebbero potuto riposare. Ciò però non riusciva a rassicurarlo: più si andavano avvicinando all’imbarcazione, maggiore era il senso di preoccupazione che lo invadeva.

    Si voltò verso Warriant e disse:

    «C’è molto silenzio.»

    L’uomo non alzò la testa dal ferito. «Aspetta. Devo finire di medicarlo.»

    Airalos smise di remare e fece cenno anche all’altro cavaliere di fare altrettanto. La seconda scialuppa si fermò alla stessa maniera. A quel punto l’ex Generale si alzò in piedi e scrutò attentamente la barca sulla quale dovevano risalire.

    «Non c’è nessun uomo di vedetta, Ser Warriant. È strano» disse.

    Stavolta anche il Cavaliere Arancio alzò la testa. Studiò la galea, quindi socchiuse le palpebre. Ci furono alcuni attimi di silenzio, poi la indicò. «Avete ragione, Ser Salindar. Guardate la fiancata, proprio all’altezza del parapetto: ci sono delle frecce conficcate.»

    Airalos digrignò i denti. «Cosa facciamo?»

    Warriant si alzò in piedi e urlò rivolto alla nave:

    «Voi! Di bordo! Fatevi vedere, se ci siete!»

    Nulla.

    Gli rispose solo la risacca che si infrangeva sugli scogli poco distanti. C’era una nebbia fitta che non permetteva di guardare a gran distanza, ma che non era paragonabile alla mostruosa bruma dell’Altipiano.

    Warriant riprovò:

    «Di bordo! Uomini! Ci siete?»

    Airalos sussurrò:

    «Non risponde nessuno. Dovremo salire da soli.» Cominciò a canalizzare il fuoco nelle mani, pronto a qualsiasi evenienza.

    Ser Warriant alzò una mano. «Aspettate. Non agiamo in modo avventato. Potrebbe essere una trappola.»

    «Non possiamo tornare nel Kendor con le scialuppe, Warriant. Dobbiamo per forza risalire sulla galea.»

    «Lo so, ma dobbiamo fare attenzione.»

    In quell’attimo si udì un grido. Alto e disperato, parve un guaito animale.

    Tutti sobbalzarono per lo spavento, quindi tesero le orecchie per comprendere cosa fosse. Per lunghi attimi attesero, ma seguì il silenzio.

    Warriant gridò ancora:

    «C’è qualcuno?»

    Finalmente ottenne risposta. Una voce femminile, arrochita dalla disperazione, chiamò:

    «Aiuto!»

    Airalos ripiombò ai remi. «È Samarha!»

    Salirono con estrema fatica, poiché dall’alto nessuno poté aiutarli. Dovettero cavarsela da soli con le corde.

    Una volta a bordo si aprì ai loro occhi un panorama desolante.

    Tutti i Cavalieri Arancio erano stati crivellati di frecce. Il corpo di Telerion Faldar giaceva invece decapitato, immerso in un lago di sangue. Poco discosta, stretta tra due Cavalieri morti, c’era Samarha Prine piangente che tendeva disperata la mano destra per farsi vedere.

    Airalos aiutò prima Ser Warriant a portare a bordo il Cavaliere ferito, quindi corse dall’elfa.

    Le tolse di dosso i corpi dei guerrieri defunti, poi la tirò su a sedere. Ella era pallida e coperta di sangue, ma presentava poche ferite, escludendo la mano sinistra. Alla vista di quell’arto mutilato Airalos deglutì: esso era ridotto a un moncherino sanguinolento, curato malamente con l’energia del bene.

    L’uomo cercò di fasciare la mano mozzata con delle bende, quindi andò a prendere dell’acqua per rinfrescare il viso dell’elfa.

    Dopo averla fatta bere a lungo, le domandò:

    «Samarha, cos’è successo? Per il Creatore, qui è una strage!»

    Ella scosse la testa e represse le lacrime. «Sono arrivati all’improvviso: i soldati repubblicani! I Cavalieri Arancio hanno cercato di parlare, ma sono stati massacrati. Per gli Dei, è stato terribile. Sapevano dove eravamo!»

    Gli altri uomini intanto si erano fatti attorno a loro e ascoltavano con vivo sbigottimento le parole di Samarha.

    Airalos le carezzò il viso. «Calmati. Come facevano a saperlo?»

    «Forse c’era un traditore nella nostra galea. Non ne ho idea…» La voce le si ruppe. «Sulla loro nave c’era anche Khedar Galak, il Nero Taumaturgo. È stato terribile. Mi ha fatto esplodere la mano con la sua magia.»

    «Come hai fatto a sopravvivere?»

    «Sono rimasta immobile sotto ai morti. Nessuno ha badato a me. Sono saliti sulla galea e hanno preso Faldar. Lo hanno decapitato… ed io non ho fatto niente.»

    «Non potevi fare nulla per lui.»

    «Io… io non…»

    Warriant sputò schifato sul pavimento di legno e gridò:

    «Questo è un atto di guerra, Salindar! Il regno degli Uomini ha ucciso dei Cavalieri Arancio del Kendor!»

    Airalos strinse le spalle di Samarha. «Tu stai bene? A parte la mano, come ti senti?»

    «Bene, sì. Per fortuna le frecce non mi hanno colpita. Sono stata soltanto fortunata… Soltanto fortunata…» Le lacrime le corsero copiose sulle guance, ma ora la voce sembrava più composta.

    «Il tuo scudiero?»

    «Cosa?»

    «Dov’è il mezzo nano? Hanno ucciso anche lui?»

    Ella si guardò attorno, come cercandolo tra i cadaveri. Non vedendolo, ebbe un moto d’incertezza. «Io… non lo so. Non l’ho più visto.»

    «Sono qui, mia signora.»

    Tutti sussultarono a quella voce improvvisa. Il mezzo nano apparve da dietro un barile. «Io vivo, signora.»

    Il piccoletto aveva un’aria triste e affranta. Si guardò attorno e, vedendo i cadaveri, cominciò a contarli sulla punta delle dita.

    Airalos fece una smorfia, divenne paonazzo e gli balzò incontro. Lo prese per la gola e urlò:

    «Come diamine hai fatto a salvarti?»

    Tutti sussultarono sorpresi a quel grido inatteso. Il piccoletto invece mugolò come un topo.

    «Parla, mezzo nano! Perché sei l’unico incolume su questa maledetta nave?»

    Quello scoppiò a piangere come un bambino e cercò disperatamente di divincolarsi.

    Ser Warriant raggiunse i due e li divise. «Salindar, vi prego di stare calmo. Questo mezzo nano non può aver fatto nulla.»

    Airalos lo indicò con rabbia. «E se fingesse? Cosa ne sappiamo?»

    L’ometto, scivolato intanto sul pavimento di legno, sussultò piagnucolante. «Io no fingo! Io no fingo!»

    «Mi capisci quando vuoi? Allora dimmi: come hai fatto a salvarti?»

    «Io dentro nave nascosto! Nessuno trovato me! Nessuno! Io giura!»

    «Perché non sei corso in aiuto della tua signora quando quelli se ne sono andati?»

    «Io paura! Io tanta paura! Io uscito solo quando sentito voi!»

    Airalos strinse i pugni e si volse di spalle. Tornò a guardare Samarha.

    Ella prima abbassò gli occhi, poi, cercando di sorridere, gli disse:

    «Non credo che il mio scudiero sia colpevole di nulla.»

    L’uomo le annuì. «Lo spero.»

    «Adesso cosa faremo?»

    «Salpiamo subito per il Kendor. Dobbiamo organizzarci al più presto. C’è molto da fare, prima della fine di tutto.»

    Capitolo Secondo

    Il Debito di Sangue

    Pinnacoli e crepacci si aprivano ovunque, ma su quell’erta salita i due Troll si sentivano a proprio agio. Uno, con le gambe ciondoloni nel vuoto, se ne stava seduto sull’orlo sinistro della stradicciola, là dove si spalancava un dirupo alto una cinquantina di metri. L’altro invece gironzolava, andando avanti e indietro sul sentiero ripidissimo e canticchiando una canzone stonata.

    Erano alti circa tre metri, non molto per la loro razza, ma non per questo risultavano meno inquietanti. La loro pelle bitorzoluta e verdastra era coperta solo sull’inguine da degli stracci, mentre i petti villosi erano aperti a insetti e mosche cavalline che vi banchettavano alacremente. Un lezzo disgustoso si levava all’intorno.

    «Umano!» Ringhiò all’improvviso il Troll seduto.

    «Cosa?»

    Si alzò in piedi e indicò in basso. «Guarda! Umano!»

    In effetti, a un centinaio di metri da loro, c’era un uomo. Quel tipo però non pareva un viaggiatore sperduto che aveva imboccato la strada sbagliata, quanto piuttosto un soggetto deciso a suicidarsi. Difatti li guardava dritti negli occhi e avanzava verso di loro, lungo l’erto sentiero, ben cosciente di quel che faceva.

    Il Troll che sino a poco prima gironzolava, si sfilò dalla schiena l’ascia e si leccò affamato il lungo naso pendente sul mento. «Umano pazzo. Viene qui.»

    «Yut! Vuole combattere?» Domandò l’altro divertito.

    «Io no credo. Ha spada in fondina. Umano vuole solo morire.»

    I due Troll sghignazzarono e si preparano a gustarsi quel bocconcino prelibato che pareva tanto impaziente di riempire il loro stomaco.

    L’uomo li raggiunse camminando sempre alla stessa velocità: né affrettandosi, né dimostrando il benché minimo segno di paura o incertezza. Era un tipo nerboruto e ben piazzato, dai possenti avambracci. Aveva sulla schiena uno spadone imponente, probabilmente di Madreskall. Per essere un appartenente alla razza umana possedeva una stazza non indifferente, ma al cospetto dei Troll pareva un bambino.

    Quelli, frementi, gli andarono incontro con le asce strette nelle zampacce. Arrivatigli davanti, lo squadrarono con sorrisi carichi di denti aguzzi.

    «Umano! Cosa fai tu qui?» Domandò quello che per primo lo aveva notato.

    Egli rispose con freddezza:

    «Cercavo proprio voi.»

    «Noi? Hai tu deciso di morire?»

    «Nient’affatto. Cercavo il Clan Marugatlan. Devo parlare con il vostro Patriarca.»

    I due Troll si guardarono tra loro, quindi scoppiarono a ridere. Subito dopo quello che aveva parlato, il più grosso, avvicinò il proprio occhio verdognolo al viso dell’uomo. «Sei pazzo? Credi che chiunque parla con Patriarca?»

    «No, non chiunque. Soltanto io.»

    «Tu, umano? E chi sei tu?»

    «Sono Otran Werron, un tempo ero il Barcaiolo di Paummar. Ora molte cose sono cambiate, ma il vostro Patriarca ha ancora un vecchio debito con me.»

    «Un debito?»

    «Sì. Richiedo l’adempimento di un Debito di Sangue.»

    Otran Werron fu condotto nel villaggio del Clan Marugatlan, ai piedi della Bocca del Fuoco.

    Il vulcano attivo della Dorsale Oceanica dominava quel raggruppamento di caverne e capanne in cui sopravviveva una comunità Troll da tempi immemorabili. In passato quel Clan aveva dominato la Dorsale ed era sempre stato in conflitto con la popolazione di Paummar, ma adesso il suo potere era sfiorito e molti dei suoi membri si erano spostati a nord o sul continente. Lì rimanevano pochi Troll: i più anziani e i loro famigliari.

    Il Patriarca, come da tradizione, occupava la caverna più grande e più prossima alla

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