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Le forme elementari della bellezza
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E-book194 pagine3 ore

Le forme elementari della bellezza

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Info su questo ebook

Martino è un tecnico, componente del Consiglio di fabbrica. Si occupa di disegno industriale in una grande azienda metalmeccanica. Sul lavoro conosce Aurora, una donna eclettica. Con lei condividerà amicizia, giorni lieti e vicende penose. Con il sopraggiungere della crisi e la Cassa integrazione, decide di proseguire gli studi, iscrivendosi all’università. Lì conosce un giovane studente, Andrea e la sorella, Camilla, della quale si innamorerà. Terminato il periodo di Cassa integrazione non sarà più richiamato in fabbrica. Riesce a procurarsi un lavoro in una piccola locanda, non troppo distante dall’ateneo. Con Andrea nasce una forte amicizia, nonostante la differenza di età. Scopre che il suo giovane amico ha anche un fratello, Duccio, che da alcuni anni sta scontando in carcere una pena per fatti di terrorismo. Il racconto che di Duccio farà poi Camilla, sarà l’occasione per Martino di riportare alla memoria fatti e persone che nella sua giovinezza avevano attraversato la drammaticità di quegli eventi. 
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2017
ISBN9788822805065
Le forme elementari della bellezza

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    Anteprima del libro

    Le forme elementari della bellezza - Giovanni Torri

    Brodshij

    CAPITOLO PRIMO

    Il 68 è finito. Viva il 69 ! Fu il primo impatto con l’università. Una scritta goliardica in vernice rossa, stampata sui muri dell’ateneo che qualcuno aveva tentato di cancellare ma che resisteva ancora, con tutta la sua potenza dissacrante di un tempo che, forse per me, non era ancora del tutto dimenticato.

    Era sul finire degli anni ottanta, mi ero iscritto perché avevo molto tempo libero dopo che la fabbrica aveva messo in Cassa integrazione una parte dei dipendenti. Il sindacato si era opposto alle scelte aziendali, forse non con tutto il rigore che la situazione richiedeva. Nonostante ci fossero stati scioperi e manifestazioni, la Direzione aveva tirato dritto, includendo tra i cassaintegrati i dipendenti più impegnati in quella vertenza che si trascinava ormai da qualche settimana.

    Non ero giovanissimo, trentotto anni e, nonostante i miei avessero detto in più occasioni che perdevo solo del tempo - Uno studio inutile, non ti servirà a niente - non li avevo mai ascoltati. Così un bel giorno di settembre ero salito in macchina e, incurante di tutti, mi ero diretto verso quella città, una delle ultime prima del Confine.

    Non l’avevo mai visitata. Un luogo ordinato, riservato e tranquillo. Le persone le vedevo camminare composte, senza fretta, come chi sa dove andare. I negozi del centro, infilati uno di seguito all’altro, privi di sfarzi eccessivi, ostentavano la ricchezza di quelle parti cercando di non esibirla sfacciatamente. La tradizione retica e gotica e i segni di successive culture lì si notavano ovunque: nelle vie, strette tra palazzi austeri e ben conservati e sui muri di alcuni edifici che si affacciavano sulla piazza principale. Certuni ancora ricoperti da affreschi mitologici. Erano i tratti di un sapere non del tutto dimenticato da quelle genti, costretto nella storia oscurantista della Controriforma e gli splendori di una Vienna ancora non troppo lontana.

    Mi ero iscritto. Tesserino di riconoscimento. Numero di matricola. Un grazioso appartamentino appena dentro la città che, volendo, con un po’ di buona volontà, potevo raggiungere anche a piedi, lo avevo trovato con l’aiuto di uno studente. Un bel ragazzotto di quelle parti. Alto, secco, con il capo leggermente inclinato in avanti, come fosse disassato rispetto al profilo del corpo. Aveva due occhi grandi che risaltavano sul viso pallido e i capelli biondi, di quel biondo teutonico che non lasciava dubbi sulle sue origini. Si era avvicinato, mentre attendevo in segreteria, pensando che fossi un docente. Mi aveva colpito subito la sua figura. Vent’anni o poco più. Portava un paio di jeans, troppo corti per la sua statura, che lasciavano scoperte le calze a strisce colorate che spuntavano dalle scarpe di tela bianca candida. Sopra, una camicia chiara, che usciva dai pantaloni, senza collo, velatamente orientale. Aveva un modo di fare che pareva di una persona distratta, come stesse altrove e, il vestire, forse ricercatamente trasandato, rafforzava questa impressione. Però gli occhi erano svelti, lucidi e intelligenti, dietro le lenti dei suoi occhiali tondi, sostenute da una montatura leggera che sembrava non esistesse. Spiccavano dal viso chiaro e pulito. Erano di un colore blu intenso, chimico. Mi ricordavano certi cristalli di rame solfato che il nonno armeggiava, quando si apprestava a preparare la bordolese per le viti. Chinandosi leggermente su di me, aveva chiesto alcune informazioni amministrative. Anche lui iscritto alla stessa facoltà e, mentre mi parlava, notai le mani affusolate e curate che, accompagnando con gesti lenti le sue parole, si prolungavano dalle maniche della camicia, come i jeans, troppo corte per quelle braccia ossute e lunghe.

    Dopo aver chiarito il mio ruolo che, come il suo, era di semplice studente da poco immatricolato, aveva chiesto da dove venivo. Mi guardava come chi scruta un oggetto mai visto, mentre lo rigira tra le mani. Risposi che abitavo in una cittadina abbastanza lontana e che ero alla ricerca di una stanza, possibilmente non troppo lontana dall’università. Lui, come non volesse togliere ancora lo sguardo dall’oggetto, continuò a fissarmi e poi disse:

    - Mio zio ha degli alloggi all’entrata della città. La zona si raggiunge facilmente con i mezzi. Stanno in un vecchio stabile. Una decina di anni fa ci ha messo le mani, ma ha fatto solo qualche aggiustamento interno, ricavando degli appartamenti e monolocali. Buona parte sono occupati da famiglie del posto ma, mi pare, che un paio di stanze siano ancora libere. Se vuoi, posso chiedere.

    Parlava, come se ci conoscessimo da molto tempo. Io, sorpreso da quell’inaspettata confidenza, lo osservavo mentre, a tratti, si aggiustava gli occhiali spingendoli in fondo al naso. Lo ringraziai e chiesi se volesse pranzare con me. Era quasi mezzogiorno. Lui, senza scomporre la sua figura, disse che conosceva una buona osteria dove, con poca spesa, servivano piatti locali a volte anche curati.

    - Ci vado spesso la sera con mia sorella. La preferisco al caos delle birrerie intasate di giovani che, a gara, contano le pinte o le ombrete di bianco.

    Aveva un lieve difetto di pronuncia. Un piccolo rotacismo che conferiva una certa signorilità al suo linguaggio. Risolte le questioni con la segreteria dell’ateneo, ci avviammo verso l’osteria. Non era troppo lontana dal centro, anche se per raggiungerla, a passo deciso, impiegammo quasi venti minuti percorrendo corti viali e strade lastricate e superando piazzette affogate tra antichi palazzi che, serrandole, fermavano i raggi del sole.

    Il locale era posto in fondo ad una di quelle vie. Una stradina che si arrestava contro uno stabile. Un’antica dimora di tre piani che, a vederla, pareva proprio un palazzo signorile. Sulla facciata si aprivano grandi finestre incorniciate con marmo rosso, di quello pieno di ammoniti fossili. Il marmo, staccandosi dal color ocra appena accennato delle pareti, conferiva a quelle finestre un’immagine suggestiva e, da lontano, pareva sorridessero allo sguardo di chi le guardava. Nella parte sommitale, appena al di sotto della gronda del tetto, sostenuto da scure travi di legno, c’erano decorazioni. Un ornamento colorato che il tempo aveva segnato con lunghe crepe e isolati scrostamenti.

    Quel posto pareva lontano dalla città circostante. Pochi i rumori. Le voci delle persone, che solo a pochi metri ingombravano ogni passaggio, sembravano ovattate, smussate, addolcite. Distanti.

    La città non l’avevo ancora visitata a fondo. Solo un breve giro per le vie del centro senza un preciso itinerario. La piazza e il duomo dove, quando entrai, in quel silenzio imbrunito dei suoi muri e l’austerità delle navate, mi pareva di udire ancora gli strali dei vescovi cattolici lanciati contro gli eretici d’oltralpe, luterani e calvinisti.

    Il ragazzo, che avevo appena conosciuto e che mi stava accompagnando, si chiamava Andrea. Lungo il tragitto poco dialogo. Lui, con entrambe le mani affondate nelle tasche, camminava al fianco e a tratti volgeva il viso verso di me come volesse chiedere qualcosa.

    L’osteria stava sulla destra del vicolo, quasi sul fondo. L’architettura di quel luogo lasciava intuire che tutto in quella via, in passato, avesse avuto a che fare con il palazzo signorile. Anche il locale scelto da Andrea non si scostava da questa impressione. Si entrava da una porta pesante, di legno grezzo annerito dal tempo che, nella parte superiore, finiva con vecchi vetri, di quelli che deformano le immagini. Quei vetri sembravano quadri trattenuti in una leggera cornice dalla quale si potevano scorgere distintamente i clienti già seduti ai tavoli. Dentro, ci venne incontro un odore di cibo che profumava di erbe aromatiche.

    Andrea salutò un uomo distinto, con addosso un elegante grembiule. Quel signore gli venne incontro, interrompendo il dialogo con un gruppetto di persone appoggiate al bancone. Gli strinse la mano facendo un leggero inchino, mentre il giovane restava dritto e impassibile, come fosse abituato a quel tipo di smancerie. Era il proprietario del locale. L’oste, facendo strada, ci indicò un luogo appartato della sala, separato dal resto da una griglia di legno intrecciata con un verde rampicante.

    La locanda, nonostante l’orario, era poco affollata. Il gruppetto al bancone attendeva il ritorno dell’oste, quelli già intravisti, seduti ai tavoli, consumavano il pranzo. In fondo alla sala dei giovani discorrevano animatamente, gettando occhiate furtive verso il proprietario che li osservava, come se volesse, con lo sguardo, tenere a bada la loro esuberanza. Seduto davanti a me, Andrea continuava a fissarmi, poi, con un leggero sorriso, chiese:

    - Perché l’università? Non sei giovanissimo. E questa facoltà?

    Risposi che avevo del tempo libero. Gli raccontai qualcosa del lavoro, della Cassa integrazione e che, con i soldi di quell’Istituto, almeno per un po’ avrei potuto sopperire ai costi dello studio e della permanenza in città. Dissi che questo corso di laurea mi aveva sempre interessato, ma che la fabbrica e l’impegno politico non mi avevano mai dato il tempo per pensare ad altro.

    L’oste ci raggiunse per le ordinazioni, guardando solo il mio giovane compagno. Gli chiese come stava la sorella e la famiglia, poi disse, che era sempre onorato della sua presenza. C’era nel suo modo di atteggiarsi qualcosa di reverenziale, come chi ha davanti a sé un personaggio importante. L’amico lo ringraziò, guardandomi fulmineo, quindi ordinammo alcuni piatti locali che Andrea si premurò di suggerire.

    Nella vita la curiosità era sempre stata una forma costitutiva della mia natura. Avevo sempre guardato agli altri, non come individui in sé, ma cercando in loro i tratti che ne definissero la personalità. Così facendo li inserivo in una mia particolare tassonomia e una volta classificati, diventavano uno dei tanti appartenenti a questa o a quella categoria che, in qualche misura, ai miei occhi, rappresentava il loro carattere. Arroganti, saccenti, umili, sottomessi, sbruffoni, colti, stupidi, intelligenti, bigotti, buoni, violenti, ricchi, arricchiti, poveri, impoveriti, servi, padroni, ecc.

    Andrea aveva qualcosa di particolare, di curioso, ma ancora non avevo elementi sufficienti per poterlo inquadrare. Tuttavia quell’inaspettato incontro e quella figura di giovane, composto e aristocratico, avevano già dato forma alle mie fantasie. Non volevo interrogarlo per sapere chi fosse veramente e non lo feci per non sembrare curioso più di quanto quel sedersi, uno di fronte all’altro, potesse giustificare, ma quel ragazzo m’incuriosiva, c’era qualcosa in lui che mi attirava.

    Il cibo fu ottimo. Terminato di pranzare cercai in tutti i modi di saldare il conto, ma Andrea non volle sentire storie e, nonostante la mia insistenza, dovetti desistere. Lui fece un cenno all’oste e uscimmo senza pagare. Un poco impacciato, lo ringraziai.

    Ritornammo sui nostri passi, verso il centro. Andrea camminava senza fretta sempre al mio fianco. Di nuovo mi guardava a tratti e, notai, nel suo sguardo, un velo di tristezza, come certe persone sole i cui occhi restano malinconici anche quando sorridono. Disse che la sera avrebbe parlato con lo zio per quella camera e che mi avrebbe fatto sapere la mattina in università. Prima di raggiungere la piazza del duomo, mi suggerì un alberghetto poco distante e, salutandomi quasi furtivamente, senza affanno, con le mani ancora conficcate nelle tasche dei jeans, prese una strada laterale svoltando subito dietro un angolo.

    Lo zio di Andrea si dimostrò molto disponibile. Più che una stanza era un piccolo appartamento molto accogliente. Me lo aveva affittato a un prezzo ridicolo. Un alloggio abbastanza ampio, con un letto matrimoniale e un soggiorno adibito a cucina con un tavolo, delle sedie e un divano, una grande finestra che dava su una strada poco affollata e un piccolo ripostiglio. I mobili non erano di quelli dozzinali, come ci si poteva aspettare in un appartamento arredato. Avevano un certo gusto e, nei locali, c’era tutto quello che occorreva. L’alloggio stava al secondo piano di un antico palazzo. Uno di quelli con le facciate in pietra ben squadrata. Si poteva raggiungere con l’autobus che si fermava a pochi metri, in una vicina piazzetta.

    Con Andrea ormai mi vedevo tutti i giorni. Seguivamo gli stessi corsi ed eravamo diventati amici. A volte tornavamo in quell’osteria, per cena soprattutto. A pranzo avevamo imparato a sbrigarcela con qualcosa di poco impegnativo: panini o una pizza e un’ ombra di bianco della zona. Nonostante l’amicizia avesse attecchito da alcune settimane, Andrea era sempre quello che avevo conosciuto il primo giorno. Essenziale nei discorsi, poco incline a smodatezze e, soprattutto, parlava poco della sua famiglia. Solo una sera, dopo alcuni bicchieri di troppo, mi aveva confidato qualcosa dei suoi.

    Il padre era morto in un incidente stradale quando ancora era piccolo e la mamma aveva tirato su, lui e la sorella, rimboccandosi le maniche, nonostante la famiglia vivesse in un’agiatezza che molti, tra i vicini, invidiavano. Con loro abitavano entrambi i nonni materni, mentre quelli paterni erano da poco deceduti, uno di seguito all’altro, come se si fossero fissati un appuntamento. Avevano un paio di persone a servitù. Una donna per cucinare e tenere in ordine la casa e un giardiniere, al quale era stata affidata anche la manutenzione del palazzo. Il suo raccontare, nonostante il vino avesse allentato i freni, sembrava volesse nascondere qualcosa. Pareva che Andrea si fermasse alla superficie di ogni discorso, come fa la brezza che increspa il pelo del lago, lasciando inalterata e immobile l’acqua sottostante.

    Per il fine settimana ero rientrato a casa dai miei. Non lo facevo spesso, l’università e la città che la ospitava, erano diventate ormai la mia seconda casa. Conoscevo ogni strada, ogni vicolo e i posti più interessanti. I miei, quando ritornavo, mi accoglievano con distrazione. Solo la mamma riusciva a chiedere come andava lo studio, ma il loro giudizio, fin dall’inizio, non era cambiato.

    - Che cosa farai quando finirà il sostegno della Cassa integrazione? E il tuo lavoro? Non penserai di lasciarlo, quando la crisi aziendale sarà rientrata!

    Io li lasciavo parlare e rispondevo vago:

    - Vedremo quello che succederà, per ora va bene così.

    Ma non avevo nessuna intenzione di ritornare in quella fabbrica e già mi stavo dando da fare per trovare un lavoro poco impegnativo, non troppo distante dall’università.

    Da oltre quindici anni ero occupato in un’azienda metalmeccanica, sempre quella. Non una piccola ditta, una Società molto importante che nel dopoguerra e sino alla fine degli anni settanta era stata una delle più rilevanti del Paese, acquisendo grosse commesse in giro per il mondo. Aveva fornito manufatti e prefabbricati di meccanica e carpenteria pesante per grandi opere e, alcune di quelle, le aveva completamente realizzate chiavi in mano, come un lungo ponte in un Paese alle porte dell’Oriente. Ero stato assunto subito dopo essermi diplomato. Svolgevo la mia attività all’interno dell’ufficio tecnico come disegnatore. I primi tempi, con il disegno non ancora assistito dal computer e dai programmi informatizzati, si realizzava tutto al tecnigrafo, su lucido. Quando la progettazione era molto complessa, la tavola, tra linee, curve e le frecce delle quote, pareva quasi un’opera d’arte. Non ero solo. Nell’ufficio c’erano altri due disegnatori. Giovani periti meccanici ai quali avevo cercato di insegnare tutti i segreti del mestiere. Era un lavoro attento, meticoloso, che non lasciava spazio all’immaginazione, ma quell’attività mi piaceva e più di una volta l’ingegnere capo si era complimentato. L’avevo accompagnato, con un mio collega geometra, a fare dei rilievi e alcune misurazioni per una lunga tratta di un oleodotto e con lui avevo preso confidenza.

    In quell’azienda conobbi Aurora. Lavorava in amministrazione. Laurea in economia. Aveva poco meno di trent’anni. Era una bella ragazza, solare e giovanile. Occhi vivaci, vagamente felini. Fronte alta e labbra sottili e un vestire costoso, ricercato e provocante.

    Raggiungeva l’ufficio con un’auto sportiva, sempre con qualche minuto di anticipo nonostante abitasse abbastanza lontano e fosse costretta a percorrere una strada tutta curve e gallerie che, per buona parte dell’anno, erano intasate di auto. In azienda era arrivata

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