Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

La lingua della sirena: Fabule Urbane, stagione I
La lingua della sirena: Fabule Urbane, stagione I
La lingua della sirena: Fabule Urbane, stagione I
E-book734 pagine10 ore

La lingua della sirena: Fabule Urbane, stagione I

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Un’apocalisse mistica non è per forza la fine del mondo. La Frattura ha risvegliato mostri e dei, reso inaffidabile la tecnologia e restituito potere agli incantesimi, ma la vita va avanti. E per Agostino, precario della magia, il problema maggiore resta trovare un lavoro stabile.
La morte di un monacello sembra offrirgli un'opportunità, ma lo catapulterà insieme a Renzo, un infermiere dalla doppia vita, Sami, un attivista per l’integrazione coi non-umani, e Vittoria, una temuta agente speciale, in una rischiosissima indagine.
Tra fate assassine e spettri mascherati, eroi leggendari e criminali appassionati di vichinghi, sirene e donne-drago, dovranno affrontare una lotta impari per proteggere la precaria convivenza tra umani e spiriti e la sopravvivenza stessa della loro città.
LinguaItaliano
Data di uscita23 ott 2017
ISBN9788827505083
La lingua della sirena: Fabule Urbane, stagione I

Correlato a La lingua della sirena

Ebook correlati

Fantasy per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su La lingua della sirena

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    La lingua della sirena - Groviglio Prinz

    Ringraziamenti

    Fabula I

    Agostino

    Le strade non sono più le stesse , dice mia madre ogni volta che la vedo. Non lo sono più da così tanto che mi ci sto abituando.

    Tranne quando non sono letteralmente più le stesse.

    La stradina qui davanti, per esempio, c’è sempre stata? Il vecchio cartello che indica la strada senza uscita è corroso dalla ruggine, il palo un po’ storto, come fosse lì da tempo. Il portone del condominio sulla sinistra avrebbe bisogno di una riverniciata, e nel box di fronte, attraverso la saracinesca semiaperta, riesco a intravedere una gran bella moto, e le gambe di qualcuno che ci sta lavorando su, nonostante probabilmente riesca a farla partire un giorno ogni cinque o sei.

    In questo snervante, lungo crepuscolo che una volta sarebbe stato mattino anche le cose più familiari assumono un aspetto diverso. Però proprio non me la ricordo, quella strada. E il muro che la chiude, là in fondo, è in mattoni rossi. Non c’è nulla, in questo Rione, fatto di mattoni rossi, non c’è mai stato. Almeno di questo sono sicuro. Bianco e grigio, qui, con l’occasionale edificio sbarazzino dalla facciata dipinta di giallo o pesca. Ma, mattoni rossi? Proprio no.

    Sarà caduta qui da qualche altro luogo? Chi ci vive se ne sarà accorto? Mi faccio queste domande mentre attendo il mio turno allo sportello e osservo ozioso sfilare, al di là della porta a vetri, un corteo in onore di qualche spirito o divinità minore in periodo di popolarità. Uomini e donne seminudi, coi volti coperti da maschere di gomma che ricordano antichi elmi, che saltellano senza scarpe sull’asfalto al ritmo di tamburelli suonati da loro stessi e si colpiscono a vicenda con delle pietre, ululando di piacere. Si lasciano dietro una scia di sangue che piccoli uccelli dalle piume marroni e arancioni si affollano a leccare, con lunghe lingue sottili che scivolano fuori dai becchi.

    Questi sono sicuro che non ci fossero, prima della Frattura.

    Chiamano il mio numero. Corro allo sportello e consegno alla donna dall’aria annoiata dall’altra parte del vetro il mio plico, contenente i documenti e il modulo per la candidatura. La ricevuta che mi rilascia è la ventiseiesima, solo di oggi. Il concorso per Operatori Spiritici Municipali è per cinque posti, alcuni dei quali sicuramente già promessi a qualcuno. Sarà difficile anche stavolta.

    Quando esco dall’ufficio la strada senza uscita non è più lì. Al suo posto ora c’è un banalissimo muro grigio, su cui qualcuno ha disegnato con vernice rossa lo schizzo di un corno che sovrasta il numero 47. Mi allontano in fretta, raggiungendo e superando il corteo di prima. Si sono fermati, uno di loro discute con una coppia di poliziotti. Si è tolto la maschera, e tra i suoi capelli ricci sbucano un paio di piccole corna ricurve.

    Le strade non sono più le stesse, no. Ma mi ci sto abituando. Credo.

    Fabula II

    Renzo

    Da qualche notte il mio telefono squilla. Lo fa per due volte, e poi torna in silenzio. Qui, nei dintorni della Frattura, i telefoni funzionano così raramente che ero convinto mi avessero staccato la linea.

    Ogni volta che succede, la piccola donna in kimono che vive nel mio bagno si affaccia alla porta. Ha la pelle liscia e bianca, e gli occhi e la bocca sono semplici fessure, ma mi sembra comunque che abbia un’espressione preoccupata. Non ha l’aria serena di quando passeggia canticchiando sul bordo del lavandino, la mattina presto, o si bagna i piedi nell’acqua rimasta nel piatto doccia dopo che mi sono lavato.

    Le prime volte ho anche sospettato si trattasse di un sogno, finché la vedova del secondo piano non mi ha aspettato una mattina sulle scale, per lamentarsi di essere spaventata dagli squilli. Dovrebbe vedere quanto spaventano me! avrei voluto risponderle. Invece ho messo su una storia di contatti fallati e di una lamentela già avanzata all’ufficio tecnico del Municipio.

    «E perché non l’hai fatta davvero?» Benny me lo chiede in tono distratto, mentre zucchera il caffellatte. Mi sto già pentendo di avergliene parlato. «Oppure staccare il telefono, o aspettare accanto alla cornetta per rispondere al volo e mandare a fanculo lo stronzo che chiama. Sai, le cose che si fanno normalmente…» Il famiglio appollaiato sulla sua spalla mi guarda con un certo disgusto. Oggi ha preso l’aspetto di una minuscola scimmia cappuccino. Quando è in casa, invece, di solito si mostra come un coniglio d’angora nero.

    «Perché, nei Municipi c’è ancora qualcuno che si occupa dei telefoni? E poi, te lo devo proprio dire? È che mi cago sotto!» Lo dico a bassa voce, per non attirare l’attenzione del tizio dietro il bancone del bar.

    La scimmia si sporge a fissarmi con più attenzione. Benny non ha ancora capito che razza di spirito sia. Chi ha mai sentito parlare di un mutaforma-coniglio? continua a ripetere. La realtà è che come strega fa così schifo che anche il famiglio lo prende per il culo, ma non ho il coraggio di dirglielo. Mi sa che anche quest’anno quelli della Tenebrosa gli negheranno l’abilitazione.

    «Ma per cosa?» mi chiede lui.

    «Chi cazzo fa squillare un telefono che non dovrebbe neanche funzionare solo per fare scherzi notturni? Che succede se alzo la cornetta e dall’altra parte qualcosa mi risponde davvero? E poi…»

    «Poi?»

    «Non sono neanche sicuro che il telefono squillasse proprio così, quando funzionava. Il suono che sento gli somiglia, ma mi sembra più stridulo, più rumoroso.» Sorrido nervoso. «Come se qualcuno stesse provando a imitarlo, ma gli venisse male…»

    Benny per un po’ non dice nulla, lo sguardo perso nella sua tazza. «Vuoi che venga a dare un’occhiata?» mi chiede alla fine, esitante. Per poco non scoppio a ridergli in faccia. Immagino quanto potrebbero essere d’aiuto, lui e il suo coniglio…

    È solo quando torno a casa che mi pento di non aver accettato. Almeno avrebbe potuto farmi compagnia. Più della donnina del bagno, perlomeno.

    Lo sguardo mi cade sul telefono. Un brutto cordless nero appartenuto ai miei, un tempo. Sì, potrei staccarlo. Ma non voglio. Preferisco poter credere in un contatto, o che qualcuno, chissà dove, lo faccia squillare solo per infastidirmi, piuttosto che essere certo che qualcosa, da qualche parte nella mia stessa casa, aspetti la notte per urlare come un telefono rotto…

    Fabula III

    Agostino

    «Signora, mi rendo conto del disagio che vi provoca vederlo girare nudo per casa, davvero, ma no, non c’è nessun metodo di bando o esorcismo che garantisca l’assenza di ripercussioni.» Scorro rapidamente la tabella che ho tra le mani, mentre cerco un modo per tenere viva la conversazione. «In casi come questi non è possibile escludere una maledizione, o un aumento della vulnerabilità mistica della casa…»

    Marta sbircia da sopra la parete divisoria del cubicolo. «Il pacchetto sicurezza! Vai col pacchetto sicurezza!»

    Annuisco. «Comunque sono problemi che si possono compensare facilmente. Abbiamo delle offerte che garantiscono copertura completa per quanto riguarda la sicurezza spiritica e magica della famiglia. Sì… sì, con un piccolo abbonamento mensile che verrà comodamente addebitato…» La donna al telefono urla tanto che sono costretto ad allontanare le cuffie dalle orecchie. Frugo tra le decine di volantini e prospetti ammucchiati sulla scrivania e ne afferro uno. «Ma no, le assicuro che sono davvero convenienti. Per esempio, il pacchetto Abraxas prevede la purificazione dell’abitazione nell’offerta iniziale, e assistenza costante nel tempo per soli…» Riaggancia senza neanche lasciarmi finire. Sbuffo e mi sfilo le cuffie.

    Marta mi guarda con disappunto. «Hai fatto il contrario di quello che dovevi. L’abbonamento va offerto immediatamente, come soluzione al problema. Non devi farlo sembrare una spesa aggiuntiva!»

    «Beh, lo è…»

    «E il cliente non è necessario che lo sappia. Se fai così si fanno una brutta impressione di noi.» Indica con un cenno della testa la scrivania, su cui quelle che dovrebbero essere ordinate pile di materiale si sono trasformate in un cumulo informe di fogli. «Sei così disordinato sempre o solo quando lavori?»

    Guardo sconsolato la collina di carta. «Quanto mi mancano i computer…»

    Marta mi rivolge il suo brevettato sguardo-da-supervisore-che-dovrebbe-essere-incazzato-ma-a-cui-davvero-non-importa. «Dai, veloce a prendere le telefonate oggi, finché regge la linea!»

    Quando si volta lancio un’occhiata alla maschera sulla sua nuca. È da un mese che mi chiedo come faccia a tenerla su, non riesco a vedere lacci, elastici o fermagli. La maschera resta semplicemente lì, sempre, un secondo volto di porcellana bianca, con gli occhi chiusi e le labbra dipinte di porpora atteggiate a un sorriso, che sbuca da quella nuvola di capelli castani…

    …la maschera apre gli occhi e socchiude le labbra, tirando fuori una lunga lingua vermiglia per prendermi in giro con una smorfia…

    Batto le palpebre. No, la maschera è la stessa di sempre. Sono davvero così confuso e suggestionato?

    Mentre mi rimetto le cuffie sfoglio il dépliant sul servizio di scorta e sicurezza per locali pubblici offerto da bande di lemuri. Sulla prima pagina campeggia il ritratto fumettoso del negromante aziendale, che strizza l’occhio al lettore sfoggiando un sorrisone. Nel disegno i denti li ha tutti.

    Ancora due mesi così. Sono quasi contento che non me lo rinnovino, il contratto.

    Fabula IV

    Sami

    L’autobus si è piantato in mezzo all’incrocio, provocando le proteste dei tanti ciclisti che lo devono schivare. L’autista deve aver rinunciato a cercare di farlo ripartire: fuma appoggiato alla fiancata, mentre i passeggeri si allontanano borbottando. Sono soprattutto anziani, ma anche persone più giovani e ben vestite, che forse non volevano sgualcirsi gli abiti pedalando.

    Tra loro una donna bellissima che si muove con cautela, attenta a non sollevare troppo la gonna che arriva fino a terra. Zoppica un po’, e a ogni passo produce un lieve tintinnio metallico.

    Sto attento a non guardarla mentre la supero, svoltando verso il parco.

    I muri degli edifici qui intorno sono ricoperti di graffiti, e la maggior parte raffigurano il simbolo delle Alseidi, l’albero spoglio con le radici che formano un teschio. Ma anche loro si sono date una calmata, dopo le ultime retate contro le bande.

    C’è sempre un po’ di gente, ai margini del parco, che pedala sotto le fronde, o passeggia, o corre. Nessuno si avventura più all’interno, però: lì ci sono i faggi, e le meliadi con le loro lance assetate di sangue. Gli alberi vicini alla strada sono più gentili.

    Il clima ormai è talmente incostante che è impossibile utilizzarlo per distinguere le stagioni, ma le piante continuano a vivere secondo i loro ritmi. Le foglie stanno iniziando a perdere il verde e a tendere al giallo, e le amadriadi appaiono più vecchie e stanche. Il che non impedisce a quella che sono venuto a trovare di essere rumorosa come sempre.

    «Ehi! Cosa mi hai portato?» Non faccio in tempo a fermare la bicicletta sotto il suo albero che la voce mi raggiunge dalle fronde.

    «Ciao anche a te, eh?» Scendo e guardo verso l’alto. Il suo volto compare a mezz’aria, la faccia magra di una ragazzina dalla pelle scura, segnata da solchi e occhiaie. Mi fa una boccaccia.

    Distolgo lo sguardo in fretta, non riesco ad abituarmi alla vista di quella faccia sospesa nel nulla. «Potresti aggiungere anche qualcos’altro, per favore?»

    Lei ride. Quando torno a guardarla la testa è completa, il volto circondato da un’arruffata nuvola di capelli rossastri e giallo sbiadito. C’è persino un accenno di collo. «Così va meglio?»

    No, ma non glielo dico. «Ancora con l’imitazione del gatto del Cheshire?»

    «È divertente! Non capisco come mai nessuno ci abbia pensato prima, a comparire e sparire a pezzi, invece che in un colpo solo! Dovresti vedere quanto gridano quelli che passano qua sotto! Peccato che non possa farlo anche con le altre…» Agita una mano in direzione degli altri alberi.

    Avrei davvero dovuto evitare di leggerle Alice.

    Mi sfilo lo zaino dalle spalle e lo poggio a terra con studiata lentezza. Lei si sporge di più, e le sue mani mi appaiono davanti all’improvviso, si avvinghiano ai miei capelli e iniziano a tirarli. Sono mani grandi ma affusolate, con dita lunghe, sottili e ruvide, e senza unghie. «Dai, è una settimana che aspetto! Fa’ in fretta!»

    «Ahia! Se non mi molli come faccio a prenderlo?» protesto, esagerando una smorfia di dolore. Lei mi lascia andare. Mi metto a sedere sotto l’albero, frugo nello zaino e tiro fuori un libro.

    «È bello come quello che abbiamo finito la volta scorsa, vero?» mi chiede severa. Si era davvero appassionata a Dieci piccoli indiani.

    «È… diverso. È la storia di un ragazzo che decide di passare il resto della sua vita su un albero, ho pensato potesse interessarti.»

    «Mmm…» Mi lancia uno sguardo poco convinto, poi scatta su per il tronco. Per un attimo intravedo l’intera sagoma del suo corpo piccolo e agile, mentre si arrampica come una lucertola, per andarsi a sedere alla biforcazione di un grosso ramo un po’ più in alto. Il posto in cui si mette di solito, quello da cui si è fatta vedere da me la prima volta. «Va bene, sentiamo.»

    Mi metto comodo con la schiena contro l’albero, e inizio a leggere ad alta voce. Mi ascolta in silenzio per quasi due ore, finché non mi interrompo alla fine di un capitolo.

    «Beh?» sbotta stizzita.

    «Beh cosa? È tardi, devo andare. Continuiamo la prossima settimana.» La sento borbottare mentre recupero lo zaino. «Allora, che ne pensi?»

    «È una storia strana, e non è per nulla realistica!»

    «Non è realistico che un umano possa vivere tutto quel tempo su un albero? Vedi, è…»

    «Ma no, mica quello. Ma com’è che non incontra mai nessuna di noi? E come fa a passare sugli alberi tutte quelle notti senza essere mangiato da una strix, o una larva, o un gatto mammone? Non ha nessun senso!»

    Evito a fatica di scoppiare a ridere. «Vuoi che ti porti qualcos’altro?»

    «…no, voglio sapere come va a finire questa stupida storia.»

    Mi alzo in piedi e mi volto. È a testa in giù, accanto a me, di nuovo solo col volto visibile. Salto all’indietro e per poco non grido di spavento. Ghigna, ma non voglio darle soddisfazione e cerco di cambiare in fretta discorso.

    «Sai, forse dovresti imparare a leggere.»

    «Uh? Perché dovrei?»

    «Non avresti bisogno di aspettare una settimana per sapere come proseguono le storie, potresti leggertele quando ti va…»

    «Non saprei dove tenere i libri!»

    «…e potresti continuare anche se io non dovessi più essere in grado di venire, no?»

    È così perplessa che buona parte della testa e delle spalle ridiventano visibili. «Perché non dovresti?»

    «Per tanti motivi… Potrei dovermi trasferire in qualche Municipio molto più lontano, o ammalarmi… E poi, a un certo punto… sai come funzionano gli umani, no?» Mi sento stranamente in imbarazzo a dover spiegare a qualcuno il concetto della mia mortalità. Quando ha smesso di essere una cosa scontata? «Tu sarai qui per molto più tempo di me…»

    Lei aggrotta la fronte, sembra pensarci su. Poi un sorriso le illumina il volto. «Oh no, non devi preoccuparti di quello.»

    «Eh?»

    «Puoi stare tranquillo, non succederà.» Si rialza, rimettendosi a sedere composta sul ramo. Ora vedo anche le sue braccia, e parte delle gambe. Guarda verso la cappa di nubi che ci sovrasta. «Non lo so se il sole è ancora lassù da qualche parte. La luce arriva ancora, è vero, ma non è la stessa di quando non c’erano quelle nuvole. È diventata anemica e sofferente. L’albero lo sente. Ha nostalgia del sole di prima. Io no, sono contenta così, ma lo capisco. E lo sento diventare sempre più debole. Sai cosa succede quando arriva l’inverno?» Scuoto la testa. Non so se mi ha visto, ma prosegue. «Io divento calva e rugosa. Sono davvero spaventosa allora, perfetta per fare scherzi! Ma non ne ho tanta voglia. Mi stanco presto e passo un sacco di tempo a dormire, e mi riprendo solo in primavera. Ma con l’albero in queste condizioni…» Passa una mano sul tronco, con tenerezza. «Forse non sarà quest’anno, o quello dopo, ma presto ci sarà un inverno da cui sarà troppo difficile svegliarsi. E allora continuerò a dormire, chissà per quanto. Forse non mi sveglierò neanche più, perché altri alberi e altre creature prenderanno il nostro posto. Magari mi mangeranno…» Si stringe nelle spalle e torna a guardarmi, sorridendo entusiasta. «Quindi non c’è da preoccuparsi, visto? Possiamo continuare così!»

    La fisso, cercando di far scendere piano il nodo che mi ha improvvisamente serrato la gola. Annaspo un istante per riprendere fiato, mentre mi costringo a sorridere a mia volta. «Hai… hai proprio ragione. Alla settimana prossima, allora!»

    Lei annuisce. Agito la mano per salutarla, e resto a guardarla mentre torna di nuovo invisibile, poco alla volta, partendo dalle estremità degli arti per arrivare al volto. Il suo sorriso indugia qualche istante più a lungo, sospeso da solo a mezz’aria, prima di svanire nel nulla.

    Fabula V

    Agostino

    La Torre delle Grida è altissima, nera e sbilenca, e le preghiere che i tre monaci urlano dalla sua cima riempiono la sera del Rione Tumuli. Uno prega per gli dei morti, uno per quelli addormentati, uno per quelli smarriti o dimenticati. Almeno, così dice il Libro dei Caduti. Non ho mai conosciuto nessuno, neanche un frate, che conoscesse il significato di una sola parola di quelle preghiere.

    Silva mi fa strada tra le vie buie. I lampioni accanto a noi ronzano e scoppiettano, ma non sembrano proprio intenzionati ad accendersi, stasera.

    L’ho trovata ad aspettarmi davanti casa, quando sono rientrato dal lavoro. Mi ha detto solo, a testa bassa, «Salvo non c’è più». Poi ha iniziato a camminare, e io l’ho seguita.

    Osservo le sue spalle larghe sotto la giacca di pelle rossa bruciacchiata, la testa rasata, l’andatura stanca e incerta. Se non avessi continuato a seguire la sua carriera non l’avrei mai riconosciuta, dopo tutti questi anni. Ma io ero amico di Salvatore e Silvia, non di Salvo e Silva, i fratelli cambiati della EXO.

    Nella stradina lastricata di pietre consumate in cui mi guida c’è un locale con l’insegna spenta.

    «È chiuso?» chiedo, ma lei apre la porta e scende gli scalini. La seguo.

    Non è chiuso: la sala in basso è invasa dal ronzio di un gruppo elettrogeno, che tiene in vita le lampade nascoste dietro pannelli di vetro viola. I ragazzi che servono sono tutti vestiti di nero, sul volto un brutto trucco da teschio fatto in fretta. Avevo sentito parlare dei bar da veglia dei Tumuli, ma non avevo mai avuto bisogno di andarci.

    Pochi tavoli occupati, un gruppo di tizi vestiti di pelle nera ne riempie diversi in fondo al locale. Capelli lunghi o rasati, barbe, tatuaggi e decorazioni che mescolano rune, martelli, svastiche e corvi.

    «I Variaghi?» chiedo sottovoce a Silva, mentre ci sediamo. La mia non è una zona di bande.

    Lei annuisce. «Sono andati a fare casino in un locale che usa come security uno dei nostri lemuri. Una bestia più cattiva di loro, con una cazzo di alabarda o qualcosa del genere sempre in mano. Ne ha ammazzati due per convincerli a cambiare aria.»

    Ordina una bottiglia di tequila senza esitazione, anche se costa cara. Ma immagino che per lei non sia un problema. Resto in silenzio, pensando a qualcosa da dire per rompere l’imbarazzo mentre fisso il tavolo. È di legno, pieno di graffiti. Qualcuno ha inciso un grosso 47 proprio davanti al mio posto.

    «I tuoi capelli…»

    «Oh, sì.» Si passa una mano sul cranio. Le sue dita hanno unghie cortissime, e la pelle dei polpastrelli annerita, come bruciata di fresco. «Continuavo a dargli fuoco, ho dovuto tagliarli.» Accenna un sorriso e finalmente mi guarda dritto in faccia. Non mi ero ancora accorto di quelle sfumature arancioni negli occhi. «Quello che si guadagna a lasciarsi coinvolgere in certe stronzate.»

    Una ragazza ci porta bottiglia e bicchieri, cercando di rimanere impassibile sotto il trucco. Il personale dei bar da veglia ha regole severe, a quanto ne so. Niente sorrisi o chiacchiere, minimo rumore, vietate le interazioni non indispensabili coi clienti. Nessuna intromissione nel lutto.

    «Io non ne volevo neanche sapere niente» continua Silva, riempiendo i bicchieri. «Ma Salvo era eccitatissimo per quella storia del sangue di chissà quale cazzo di mostro nella nostra famiglia, anche dopo quello che è successo a mamma. Eccitato per la sua vista, per le indagini e le disinfestazioni… Te lo eri mai fatto un tipo coraggioso?»

    Mentre beve ripenso ai giorni dell’università, alle chiacchierate sui film trash, al suo desiderio di lavorare in radio… «Proprio no!»

    «Neanche io. Se non mi avesse colto di sorpresa magari sarei riuscita a fargli cambiare idea, invece di seguirlo!»

    I Variaghi stanno alzando la voce, attirando gli sguardi spaventati dei camerieri. Hanno fatto salire su un tavolo una ragazza pallida e bionda, in canotta e lunga gonna nera e rossa, che parla concitata ed emozionata in una lingua che non conosco. Dall’orlo della gonna sbuca un ciuffetto di peli che ondeggia da una parte all’altra, ritmicamente.

    «Non guardare l’huldra.» Silva mi schiocca le dita davanti alla faccia. «Ha un brutto carattere, può spezzarti il collo con due dita e non le piace che le si noti la coda.»

    Scuoto la testa e bevo anche io. «Allora…» Inspiro profondamente per farmi coraggio. «Cosa è successo?»

    «Una bambina scomparsa dalla sua camera, di notte. Ci hanno mandati a controllare con una squadra, e Salvo sembrava impazzito. Continuava a parlare senza fermarsi, diceva di vedere qualcosa che era strisciata fuori dal buio, mani d’ombra che trascinavano via la piccola, un delirio. Tremava di paura.»

    L’huldra ha smesso di parlare, ma, seguendo i suoi cenni, i Variaghi hanno iniziato a battere i boccali sul tavolo e i piedi a terra, ritmicamente, accompagnandosi con dei vocalizzi lenti e modulati. AHAHAAAH-AH. Mi suonano familiari.

    «A un certo punto ha cominciato a correre, è entrato nella stanza della bambina, gridava di sapere, di vedere… e poi silenzio. Gli siamo andati dietro, ma quando siamo arrivati nella stanza non c’era nessuno. Solo l’armadio aperto.»

    Sospiro. I Variaghi hanno smesso di fare vocalizzi e hanno aggiunto parole alla melodia, cadenzati e solenni. We come from the land of the ice and snow, from the midnight sun where the hot spring blows… Stanno davvero cantando i Led Zeppelin, quei coglioni?

    «Non era più da nessuna parte. Abbiamo dovuto chiamare i rinforzi. Folco e Davelli, quei due stronzi inquietanti. Ne hai sentito parlare, no?»

    Annuisco in silenzio.

    The hammer of the gods…

    «Il tempo di sentire quello che era successo e ci hanno fatto evacuare. Infestazione da babau. Apri un armadio o guardi sotto il letto quando non sei nel campo visivo di qualcuno, e puoi essere preso e portato… beh, da qualche altra parte.»

    «Porca puttana…»

    Will drive our ships to new lands…

    Riempio di nuovo i bicchieri per tutti e due. «Cos’avete fatto?»

    «Non potevamo fare molto.» Si passa le dita sugli occhi. «Hanno detto che era troppo pericoloso continuare a indagare, e ordinato di sigillare tutto. Ho dovuto bruciare l’intero stabile. Qualunque cosa permettesse l’infestazione, ora è in cenere e sterilizzata spiritualmente.» Le punte delle dita della sua mano destra per un attimo brillano come braci.

    To fight the horde, singing and crying…

    Mi sento stupido a chiederglielo, ma non riesco a trattenermi. «Non c’è proprio niente da fare, quindi? Salvo è morto?»

    Esita, prima di rispondermi. «Spero sia stato così fortunato.»

    Mi ci vuole un po’ per riprendere a respirare. Silva solleva il bicchiere e io la imito. Li svuotiamo tutti d’un fiato.

    Valhalla, I am coming!

    Fabula VI

    Vittoria

    Quando i treni ancora portavano da qualche parte, la stazione del Rione Martelli doveva essere stata anonima, una delle tante. Ma anni di abbandono e incuria le hanno dato una personalità. I muri sporchi, le porte sfondate, le carrozze arrugginite di un treno fermatosi definitivamente appena dopo essere partito, tutto è al tempo stesso suggestivo e spaventoso.

    «C’è mai stato un film horror ambientato in una stazione?»

    «Eh?» Il poliziotto che stava parlando mi guarda confuso.

    «Mi ricordo di qualcosa nella metropolitana, ma in una stazione…»

    «Non interrompere, dai!» Irene mi colpisce con un pugnetto sulla schiena. Lo sento appena, attraverso i pesanti guanti che indossa, come riesco a malapena a intravederle il volto, mentre sta lì accanto a me a testa bassa, infagottata nel suo cappotto col bavero alzato e col grosso cappello floscio di stoffa calcato in testa, fin sopra gli occhiali dalla montatura spessa. «È importante!»

    «Sì, ho capito, tizio cambia inaspettatamente, dà i numeri, fugge qui…»

    «Ha ucciso tre persone, e probabilmente ne ha divorata in parte una. È possibile che almeno due delle vittime fossero suoi parenti» si intromette il poliziotto. Sembra incazzato.

    «L’Ufficio del Tribuno non crede che abbia ucciso qualcuno» faccio notare all’agente, sorridendo. «L’Ufficio del Tribuno pensa che quelle tre persone siano morte in un incidente assolutamente non collegato a quello che sta succedendo qui, e che la situazione dei cambiati sia del tutto sotto controllo. Lei non è d’accordo?» Lo fisso finché non si decide, esitante, ad annuire. «Benissimo! E proprio per questo non c’è bisogno che lei e i suoi colleghi» indico gli altri agenti in tenuta tattica intorno a noi «restiate qui, ad attirare attenzione e a far sospettare cose non vere a chiunque vi noti. Ce ne occupiamo noi.»

    Il poliziotto sposta lo sguardo su Irene. «Voi due? Anche se siete delle Furie…»

    Allargo un po’ di più il sorriso, fingendo di non aver fatto caso a quel maledetto soprannome. «Noi due» annuisco. «Cos’è, fa l’apprensivo solo perché siamo donne? Non si preoccupi, dovesse andare storto qualcosa le assicuro che urlerò talmente forte che qualcuno mi sentirà e vi richiamerà!»

    Borbotta sottovoce qualcosa, giurerei, di poco educato, mentre si volta per parlare ai suoi uomini.

    «Perché fai sempre così?» mi chiede Irene appena gli agenti non sono più a portata di voce.

    «Perché è divertente, e perché così ci lasciano da sole più in fretta.» Le metto una mano sulla spalla, chinandomi su di lei. «Va meglio?»

    Annuisce. Ha già sollevato un po’ il volto, e si muove meno rigidamente. «Ma è comunque maleducato.»

    Con un ghigno poggio la valigetta a terra, la apro e inizio a indossare l’attrezzatura. Le lenti, i guanti… «Allora, abbiamo a che fare con un cambiato impazzito. Da quanto tempo non succedeva una cosa del genere?»

    «Abbastanza, ma non si può mai dire. Una predisposizione latente, un cambiamento ormonale o una fluttuazione nella Frattura, ed ecco un cambiamento improvviso.»

    «Con cosa abbiamo a che fare?» Mi aggancio il cinturone, controllando che le fiale siano tutte al loro posto, e indosso la torcia da testa.

    «Con una persona spaventata e probabilmente non in sé.»

    «Ho capito, voce della coscienza, niente pistola. Qualcosa di più specifico?»

    «Difficile da dire. Qualcuno violento e con istinti antropofagi, stando a ciò che ha detto l’agente.»

    «Tre quarti delle creature che mi vengono in mente, insomma. Va bene, mi tengo sul generico.» Prendo un sacchetto di sale e un robusto coltellaccio di ferro, prima di richiudere la valigetta e consegnarla a Irene. «Tu hai tutto?»

    Annuisce e solleva appena la sacca che porta a tracolla.

    «Va bene. Mi raccomando, resta vicino a me. Se senti un rumore o vedi qualcosa me lo dici e andiamo a controllare insieme, con tutte le precauzioni del caso. Niente errori coglioni da slasher di serie B, eh?»

    «Ma di che parli?»

    Prima di attraversare le porte a vetri distrutte all’ingresso della stazione accendo la torcia per controllare l’interno: calcinacci, buchi nei muri, seggiolini divelti, le pareti imbrattate dagli scarabocchi di quei fanatici seguaci dei 47, puzza di escrementi, topi e piccoli goblin che corrono a nascondersi.

    «Non esattamente King’s Cross…» Abbasso le lenti sugli occhi, lasciando che i sigilli incisi sui cristalli mi aiutino a percepire aure e concentrazioni di energie. Per un attimo, da quello che doveva essere lo sportello della biglietteria, i malevoli occhi scintillanti di una larva incrociano i miei, prima di svanire nel buio. «Bel cesso, ma niente di speciale qui.»

    «Shh…» mi interrompe Irene. «Lo senti?»

    Mi fermo e mi metto ad ascoltare. Sì, c’è una specie di basso mugolio lamentoso. Faccio cenno a Irene di starmi dietro e cerco di seguirlo. Percorro un breve corridoio e avanzo con cautela nella sala d’aspetto, passando accanto a un bar di cui rimangono solo l’insegna e un qualcosa di scuro accovacciato in un angolo, che sussurra di continuo la parola monete.

    Quel che rimaneva della porta che dava sui binari è stato divelto. Poco oltre, davanti ai rottami di un vagone, intravedo una sagoma rannicchiata. Il lamento proviene da lì. Concentrandomi posso percepire un’aura impazzita, un turbine disordinato in cui si rincorrono il rosso cupo della rabbia e quello terroso della malattia, il marrone del dolore fisico e della confusione mentale, il nero del terrore. Sarà complicato parlarci.

    «Dai Irene, cominciamo.» Non oso distogliere lo sguardo dal nostro bersaglio. Anche gettato a terra sembra parecchio grosso. Mi accovaccio a mia volta. Dietro di me sento Irene estrarre qualcosa dalla sacca, e il rumore di un accendino. Poco dopo mi raggiungono gli odori rilassanti della melissa, della lavanda e dell’arancia, accompagnati dalle parole dell’incantesimo di pacificazione della mia compagna. Lo vedo espandersi intorno a me come una sottile rete di filamenti azzurrini e arancione brillante.

    «Buonasera, signore» comincio, non ottenendo nessuna reazione. «Io e la mia collega siamo state inviate dal Tribuno in persona per assicurarci che stia bene.»

    L’uomo continua a gemere, e inizia anche a tremare. Non so se riesce a sentirmi. Mi avvicino a lui di qualche passo.

    «So che in questo momento sta soffrendo e non capisce cosa le stia accadendo. È del tutto normale. Possiamo prenderci cura di lei…»

    La luce della mia torcia lo raggiunge. Vedo abiti a brandelli, sangue, una testa bulbosa chiazzata di capelli, enormi spalle nodose i cui muscoli si contorcono e ingrossano, premendo contro la pelle fino a lacerarla. L’odore è insopportabile, cancella quello delle piante di Irene.

    «Possiamo ridurre il dolore e facilitare la transizione.» Mi avvicino ancora. Che cosa gli sta succedendo? «Se adesso…»

    L’aura trema, il nero e il rosso cancellano tutti gli altri colori, si fondono. Con un urlo l’uomo si solleva e si volta verso di me. Come mi aspettavo la crescita muscolare incontrollata coinvolge tutto il suo corpo, ed è troppo alto persino per i miei standard; ma la testa, quella davvero non l’avevo prevista. La parte superiore del volto si è gonfiata e sporge in avanti, premendo sulle orbite e obbligandolo a tenere gli occhi costantemente strizzati. In compenso, sulla fronte gli si è aperto un largo terzo occhio, una palla nera che galleggia in una sclera giallastra.

    Un ciclope. Cazzo. Dovevo farci venire i poliziotti.

    «Vai via Irene, vai…» riesco a gridare prima che il cambiato mi piombi addosso.

    Mi hanno detto che i guanti che indosso sono fatti con la pelle di creature che un tempo pascolavano lungo fiumi infernali, rinforzati da lamine di ossa benedette e incise con simboli di potere dai sacerdoti di sei o sette divinità guerriere diverse. Artefatti creati per aumentare la forza e la resistenza, per permettere a quelli come me di affrontare alla pari i peggiori mostri. Ma vengo comunque sbattuta via da un solo colpo. Atterro sulla schiena facendomi un male cane, perdo le lenti, la torcia inizia a fare i capricci. Non che sia difficile notare l’uomo gigantesco che avanza ondeggiando verso di me. Dov’è Irene? Mentre prego che sia fuggita e mi rimetto in piedi, sfilo alla cieca una fiala dalla cintura e la scaglio ai piedi del ciclope.

    Rumore di vetro infranto, e una colonna di fiamme esplode verso l’alto. La salamandra intrappolata fino a un attimo prima nella fiala si scatena, bruciando felice nei pochi istanti che ha a disposizione prima di ritornare al suo elemento. Il calore è così intenso che mi devo fare indietro, la luce improvvisa mi acceca. Non riesco a vedere dove sia il cambiato

    Un lamento, ed emerge dalle fiamme, quel poco che rimaneva dei suoi abiti e dei suoi capelli che si riduce rapidamente in cenere. Se gli ho fatto male non lo fa notare. Fanculo Irene, dovevo prenderla la pistola! Perlomeno non la vedo da nessuna parte, forse per una volta mi ha dato retta.

    Cerco di guadagnare spazio per avere tempo di pensare a cosa fare, ma il ciclope mi incalza. Riesco a schivare un altro colpo, ed evito il terzo lanciandomi fuori dalla sala d’aspetto e facendo intercettare il pugno dallo stipite dell’ingresso. Cerca di afferrarmi: mi infilo attraverso un’altra porta sfondata e…

    E mi ritrovo nel bar abbandonato. Mi guardo attorno frenetica, ma negli sprazzi di luce della torcia non riesco a vedere nessuna via d’uscita. Come ho fatto a intrappolarmi da sola?

    Il ciclope si china per attraversare la porta, e nel farlo sembra ancora più grosso.

    Afferro un’altra fiala e le rompo il collo col dito, puntandola contro di lui. L’incantesimo dei telchini, sospeso e intrappolato nel vetro un istante prima del suo completamento, si libera, e insieme al latrato che ne contiene le ultime sillabe viene fuori anche un vento impetuoso e gelido, che trasporta neve e ghiaccio.

    Il ciclope non se lo aspetta. Lo investe in pieno, lo fa esitare, sollevare le braccia per proteggersi il volto. La mia occasione. Getto via la fiala, sguaino il pugnale e colpisco di punta, mirando al suo addome…

    No! La lama affonda appena, i suoi nuovi fasci muscolari sono assurdamente resistenti. Le sue mani si stringono intorno al mio collo, e mi solleva da terra. Mi aggrappo ai suoi avambracci, tiro con tutta la mia forza, ma è impossibile rompere quella presa. Scalcio, annaspo. Mi manca l’aria, mi fa male. Provo a ripensare all’addestramento di autodifesa, ma è inutile. Nella mia testa trova spazio solo un dubbio: mi spezzerà prima qualcosa di importante, o sopravvivrò abbastanza a lungo da soffocare?

    È dura riuscire a zittire l’istinto che mi urla di continuare a cercare di allentare la morsa che mi sta uccidendo, ma riesco a costringere la mia mano sinistra ad arrivare alla cintura. Le mie dita si stringono intorno a qualcosa di soffice, ma granuloso alla pressione. Il sacchetto del sale!

    Lo afferro e glielo sbatto contro l’occhio, premo, strofino con tutte le mie forze. Non gradisce, geme, mi lascia andare per portarsi le mani al volto. Vorrei crollare a terra ad apprezzare il fatto che sono ancora capace di respirare, per quanto sia doloroso, ma non ne ho il tempo. Tossendo afferro il coltello caduto ai suoi piedi. Punto la lama verso il basso, serro le dita intorno all’impugnatura per aumentare la forza d’impatto del mio pugno. Gli tiro un montante all’inguine, e questo lo sente, perché si piega in avanti. Un altro colpo dritto sulla mascella, e poi afferro l’arma anche con l’altra mano e mi lascio cadere in ginocchio, per affondarla con tutto il mio peso attraverso il suo piede destro.

    La lascio piantata lì e salto indietro. Le urla di dolore che esplodono nella stanza suonano promettenti. «Calmati, maledizione, o dovrò farti ancora più male!» grido, sperando di aver spaventato il cambiato abbastanza da fargli passare la voglia di uccidermi.

    Lui abbassa con cautela le dita dall’occhio, ora diventato rosso, e da cui scendono lacrime miste a sangue. Ruggisce e agita le braccia davanti a sé, cercando di afferrarmi. Indietreggio un altro po’ e mi azzardo ad abbassare lo sguardo sulle due fiale che mi sono rimaste. Qual era quella col veleno di drakaina?

    Un crepitio, poi un altro. L’aria si riempie di quell’odore dolciastro e pungente che precede i temporali. Sollevo gli occhi. Il ciclope fissa sorpreso le sue mani. Scommetto che abbiamo la stessa espressione.

    Scariche elettriche bluastre si rincorrono lungo le sue dita, sempre più velocemente. Si sollevano verso l’alto, in un arco. Che cosa…

    Mi ritrovo a terra senza capire come ci sono finita. Le mie orecchie ronzano, davanti agli occhi vedo solo macchie biancastre, qualcosa di appiccicoso mi cola dalla fronte lungo il volto. Il confortante, atroce dolore al lato sinistro del corpo, dove devo aver sbattuto contro il muro, mi rassicura del fatto che sono ancora viva.

    Un fulmine! Ha tirato uno stramaledetto fulmine! 1,21 gigowatt urla per un’inopportuna associazione di idee Doc Brown, da qualche parte nei miei ricordi, e non sembra volersi fermare. Deve avermi mancato di parecchio, o non sarei qui a godermi le mie probabili fratture. Ma cosa cambia? Non so neanche se sono in grado di rialzarmi…

    Le macchie davanti agli occhi ci mettono quella che sembra un’eternità ad attenuarsi, così come il ronzio. Riesco a intravedere il ciclope, a terra anche lui, i suoi profondi lamenti un’eco appena avvertibile oltre il rumore che mi invade le orecchie. Restiamo così per un po’, mentre recupero in parte vista e udito. Ma io sono ancora stesa, il cambiato è già in ginocchio, e sta cercando di rialzarsi. Provo a sfruttare la vicinanza di un muro a cui appoggiarmi per fare lo stesso, ma riesco solo a mettermi seduta.

    L’occhio del ciclope è piantato su di me, la sua bocca è spalancata in una smorfia di… dolore? Rabbia? Non promette bene in entrambi i casi. Poggia il piede sano a terra, e si aiuta con le mani per provare a farlo anche con l’altro.

    Cazzo, è finita. È tempo di morire

    «I ciclopi creano le folgori. Come fai a non conoscere quella storia?» La voce di Irene suona ancora più esile del solito. Entra nella stanza coi suoi brevi, rapidi passi.

    «No che ci fai qui? Vai via!»

    Non mi ascolta. Viene a mettersi tra me e il ciclope, fronteggiandolo. La sua sagoma minuta sembra ancora più piccola di fronte a quella del cambiato che si è faticosamente rimesso in piedi.

    «Sono solo quattro le cose da ricordarsi dei ciclopi. Hanno soltanto un occhio, non reggono l’alcool, mangiano carne umana e creano le folgori, non è difficile!»

    Ha la voce rotta, tremante. Il ciclope si muove verso di lei trascinando la gamba destra. A ogni passo geme pietosamente. Ma, per quanto possa non stare bene, gli basterebbe poggiare una mano su Irene per spezzarla in due.

    Lei si sfila gli occhiali e solleva la testa verso il cambiato. Quando non si costringe a rimanere curva sembra un po’ più alta. Il ciclope fissa l’occhio su di lei. Solleva la mano destra, come a volerla schiaffeggiare. Sto per urlarle di stare attenta, di togliersi da lì, ma il braccio della creatura non si abbassa, resta immobile, mentre lui si china un po’ in avanti, come per guardarla meglio negli occhi.

    Il cappello le scivola a terra. I capelli chiarissimi le ricadono sulla schiena, mentre i corpi grigiastri e striati di nero delle serpi che sbucano dalla sua testa e le si annidano sul capo, ora sveglie, si agitano, si contorcono, le scivolano lungo le guance e sulle spalle. La vedo tremare, ma non cambia posizione.

    Il cambiato si è accorto che qualcosa non va. Anche lui trema, tentando di muoversi, ma senza successo. Prova a urlare, ma riesce a emettere solo un verso strozzato, che si spegne subito anche se la bocca resta spalancata. L’enorme occhio sporgente continua a spostarsi frenetico da una parte all’altra, ma non può sfuggire allo sguardo di Irene. Dopo pochi secondi rallenta, per poi fermarsi completamente.

    Irene abbassa la testa e si lascia cadere in ginocchio. Io resto a fissare il ciclope con attenzione, attendendo un movimento improvviso, una contrazione qualunque.

    Non arrivano. È paralizzato. Paralizzato… ripeto la parola tra me, mentre un’inaspettata euforia mi monta dentro. Ho le lacrime agli occhi, ma scoppio a ridere. «Occazzo, siamo vive! Siamo vive!» urlo con tutte le mie forze. «Non ci credo! Stavolta ero sicura che sarei morta! Ma sicura sicura! E invece guardami qua! Mi fa male anche parlare ma parlo, vaffanculo! Parlo!»

    Continuo a gridare, ridere e piangere per qualche minuto, credo, assaporando la gioia di respirare ancora e di sentire le costole protestare dolorosamente ogni volta che lo faccio. È solo quando mi raggiungono i singhiozzi di Irene che riesco a calmarmi.

    Mi trascino da lei, che è ancora inginocchiata e con le mani premute sul volto.

    «Come stai? Tutto bene?»

    «Mi strisciano addosso, mi strisciano addosso…» mormora. «Fermale, ti prego, fermale!»

    Avevo dimenticato. Afferro le serpi, le raggruppo, le costringo ad arrotolarsi di nuovo tra i suoi capelli. Non è facile, si ribellano e tentano di mordermi, ma i loro denti non riescono a penetrare i miei guanti, e non possono certo scappare da nessuna parte. «Le ho prese, vedi? È tutto sotto controllo. Falle addormentare e le infiliamo nel cappello, va bene?»

    I singhiozzi si calmano un po’. Dopo qualche secondo inizia a mormorare una nenia lenta e dolce, in un dialetto stretto di cui capisco pochissimo. I serpenti smettono di agitarsi nella mia presa, e poco alla volta chiudono gli occhi. La aiuto a raggruppare i capelli come un nido per le serpi, e a infilare di nuovo tutto sotto il suo spazioso copricapo, piantandoglielo bene in testa.

    «Va meglio ora?»

    Annuisce. Ha smesso di piangere, ma continua a tenere gli occhi serrati, mentre fruga il pavimento con le dita. «Lui come sta? È vivo, sì? Non gli ho paralizzato il cuore o i polmoni per sbaglio, vero?»

    Le guido una mano agli occhiali, e osservo il ciclope. È difficile dirlo. Nella penombra, così immobile, sembra un pupazzo o una statua di cera. Mi tendo a tastargli il piede in cui è ancora conficcato il mio pugnale. «Continua a uscire un po’ di sangue dalle ferite, ed è caldo. Penso proprio sia vivo.»

    Sospira di sollievo. «E io?» Si allarga il bavero del cappotto per scoprire il collo. Alla base la pelle è coperta da piccole scaglie di un grigio che ricorda la pietra. «Mi sono spuntate altre squame, vero? O mi sono cresciute ancora le zanne?» Ritrae le labbra, mostrando l’apparecchio che cerca di tenerle in ordine i denti, nonostante la presenza di canini inferiori molto più lunghi e larghi del normale.

    «Mi sembra tutto come prima» la rassicuro. Non ne sono certa, in realtà, ma nel dubbio non c’è nessun motivo di spaventarla.

    Sollevata, poggia la fronte contro la mia spalla sinistra. Trattengo un lamento, e uso il braccio destro per abbracciarla.

    Passano alcuni minuti prima che rompa il silenzio. «E adesso cosa facciamo?»

    «Beh, abbiamo bisogno di aiuto per trasportare il nostro amico in un posto sicuro, io non credo di essere in grado di andarmene sulle mie gambe, e se arrivassero anche un dottore o due non sarebbe male…» Mi fermo a pensarci su. «Hai mica idea di come facciamo a richiamare i poliziotti di prima?»

    Fabula VII

    Agostino

    «Sei davvero sicura che lo possa fare?»

    Silva sbuffa. «Te l’ho già detto, sì. Anche se disoccupato resti un operatore spiritico, no?»

    «Sì, ma…» Ma la mia unica esperienza come operatore è stata fare assistenza e vendere assicurazioni in un call center vorrei aggiungere, ma mi fermo. Non voglio che quelli della EXO mi sentano, e bruciarmi la mia chance.

    La stradina è chiusa al passaggio, ma non da agenti regolari. Non per una cosa del genere. A ogni estremità del vicolo c’è un alichino che monta la guardia. Sono ovunque, nel Rione Spelonca, utilizzati per mantenere l’ordine e proteggere gioiellerie, monti dei pegni e compro-oro in nome del Santuario del quartiere. Troppo alti e troppo magri, una maschera di cuoio nera con nasone e piccole corna a nascondere il volto, un’assurda tuta a losanghe nere e gialle e lunghi, minacciosi bastoni di legno decorato tra le mani. Quando ho chiesto a Silva se fossero umani, mi ha risposto «Forse alcuni».

    Dalle finestre dei palazzi attorno qualcuno scosta le tende per sbirciare, anche se c’è poco da vedere, nella luce incerta della solita alba grigia che si può solo intuire oltre le nubi. Ero a letto fino a tre quarti d’ora fa, quando Silva è venuta a bussare alla mia porta. «Mi serve un operatore. Subito.»

    «Ma non…» Mi sono fermato appena prima di dire la cosa più sbagliata possibile. Il suo operatore era Salvo, ovviamente. Non lo hanno ancora sostituito. «Arrivo subito, il tempo di cambiarmi e prendere la borsa.»

    Un lavoro da freelance con l’EXO. Silva mi ha regalato un’opportunità pazzesca. Cosa importa se non so ancora se, come e quanto sarò pagato, o se sono qui a quest’ora del mattino, davanti a una scena a cui non avrei mai voluto assistere, mentre cerco di tenere a bada la nausea?

    …certo che importa. È uno schifo. Ma non è che abbia chissà quali alternative.

    «Allora, procediamo?» Due tecnici della EXO in tuta scura mi guardano con sospetto. Reggono una grossa scatola di legno nerissimo, sotto la supervisione severa di un frate dei Caduti. Annuisco.

    Il corpo è adagiato sul marciapiede, in una pozza del suo stesso sangue. Da tempo non ero costretto a vedere da vicino la vittima di un atto di violenza. Mi tremano le mani. E quest’odore…

    Mi avvicino. È piccolo come un bambino di pochi anni, ma le proporzioni sono tutte sbagliate. Soprattutto la testa, enorme e calva, con occhi troppo grandi e larghe, liquide pupille nere, il naso appena accennato, la bocca spalancata come a cercare aria che mette in mostra dei dentini conici, da pesce. Il corpicino è coperto da un saio che in origine doveva essere stato marrone, ora diventato praticamente nero dopo essersi impregnato di sangue. Tutto quel sangue…

    Un monacello. Qualcuno gli ha aperto la pancia. E già che c’era gli ha portato via il cappuccio, anche se non capisco il perché, visto che di certo non può più reclamarne l’oro. Sul muro dietro di lui, utilizzando il sangue, è stato imbrattato un manifesto su cui campeggia la foto del Tribuno che invita a votare per le elezioni municipali. Il corno e il numero 47 sono sovrastati dalla scritta Traditore. Questa è nuova.

    «Allora, è proprio morto?» sbotta impaziente Silva. Si guarda intorno, sembra preoccupata per qualcosa.

    Bella domanda. Sembra morto, ma è difficile esserne certi, con un folletto. Fossi un naturale lo capirei solo guardandolo, ma il mio talento è troppo debole per una cosa del genere. Mi serve un catalizzatore.

    Poggio a terra la mia borsa, un tascapane di tela verde militare che usavo ai tempi dell’università per i libri. Quelli dell’EXO mormorano qualcosa, divertiti. Non devo sembrare molto professionale. Di sicuro non mi sento un professionista.

    Frugo tra il mio equipaggiamento, cercando di capire cosa usare: scarto le pietre, i tarocchi, lo specchio, la cera… Estraggo il sacchetto del pendolo, lo strumento più pratico in una situazione del genere. Penso a Salvo, mentre sfilo la catenina da cui pende il cono di ottone. Un operatore con la vista. Una cosa come questa per lui sarebbe stata uno scherzo.

    Cerco di stare attento, mentre mi faccio più vicino al corpo, ma i miei piedi finiscono comunque sul sangue. Dovrebbe essere già secco, ma mi sembra comunque viscido sotto la suola. Me ne porterò dietro un po’? Quest’odore mi resterà attaccato addosso? È vero, come si dice, che il sangue dei folletti causa la follia?

    Infilo il medio nell’anello all’estremità della catenina, e la tendo reggendo il pendolo, per poi lasciarlo andare. Il cono inizia a ondeggiare in modo disordinato in ogni direzione, in balia dei campi di energia mistica che pervadono la città.

    I tecnici non si sforzano neanche più di nascondere le risate. Senza guardarli, sollevo la mano libera per chiedere silenzio. Incredibilmente, si zittiscono.

    Una volta c’era un’arte divinatoria basata sull’interpretazione dei movimenti dei pendoli. Non so se funzionasse, ma di sicuro la Frattura ha eliminato la possibilità di utilizzarla. Ma ne ha aperte altre, anche se meno sottili.

    Regolo la respirazione e chiudo gli occhi.

    Pochi secondi, e il mondo intorno a me cambia. Il pendolo diventa parte di me, un’estensione dei miei organi di senso, un’antenna che avverte cose difficili da inquadrare nella mia percezione limitata. Sento risate miste a urla, rumore di ossa spezzate,

    buio salti eccitazione paura dolore e buio ancora…

    Gli alichini. La loro presenza schiacciante mi ha assalito all’improvviso, mi soffoca. No, non sono umani. Non hanno nulla che possa essere definito umano.

    Resisto all’istinto di respingerli, di tirarmi indietro. Assorbo la percezione della loro essenza e la lascio scivolare via, sullo sfondo. Sotto la mia mano sinistra indugia la sensazione di accarezzare un volto ghignante intagliato nel legno di un pesante bastone, accompagnata dalla voglia di colpire qualcosa. Ma, poco alla volta, riesco a sentire anche altro.

    Calore, odore di fumo, un groppo doloroso e soffocante alla bocca dello stomaco, e poi di nuovo calore… Silva. La riconosco e passo oltre, prima di rimanere ustionato. Il frate, un sentore di incenso misto a muffa di catacombe troppo rumorose, cose affilate che stridono sulla pietra, il retrogusto di una bevanda forte e amara.

    Cos’è questo? Qualcosa di gelido, pericoloso, che puzza di sangue e di chiuso. Cosa sei? Tento di seguirne la traccia che si allontana, ma si confonde, si perde tra le emanazioni della città che si sveglia: il calore di una candela che consuma un desiderio, il contatto urticante della barriera protettiva di un negozio, il sapore del vino lappato da un piatto…

    Mi scappa un versaccio quando mi costringo a tornare indietro, prima di arrivare così lontano da non ritrovare più la strada. Mi strappo il pendolo dal dito e mi ritrovo a barcollare, ed è normale che il mondo giri così in fretta? Quegli stronzi dell’EXO staranno ridendo di nuovo? Sono sicuro di sì.

    Le mani di Silva si stringono sulle mie spalle, mi sostengono. Mi aggrappo a lei, mentre cerco di recuperare l’equilibrio.

    «Allora?» mi chiede, frettolosa.

    Cosa? Oh, giusto! «È morto. Non c’è più nulla di lui qui.»

    Silva fa un cenno al frate, che si avvicina al corpo iniziando a borbottare le formule incomprensibili della preghiera dei Caduti. I tecnici mettono a terra la scatola e la aprono, indossano spessi guanti prima di toccare il cadavere.

    Silva mi fa allontanare da loro, spingendomi per le spalle. «Ora stai attento» mi sussurra. «Pensa bene a cosa hai sentito: c’è qualcosa che può essere utile a capire cosa è successo qui?»

    Mentre cammino raccolgo la borsa da terra. Cerco di divincolarmi, di distanziarmi più in fretta dal fetore e dalla morte. Lei mi trattiene.

    «No, no! Lo so che sul campo è dura, ma devi stare con me. Concentrati!» Mi afferra il volto tra le mani. Sono così calde… «Guardami. Devi parlarne, in fretta, o rischi di dimenticare tutto. Devi…»

    «Deve andare via. Dovreste andare via tutti e due.»

    La voce è aspra, sgradevole. E inaspettata. Spaventa sia me che Silva.

    Sono in due dietro di noi. Quando sono arrivati? Quello che ha parlato è un uomo basso e sovrappeso, sui cinquant’anni. Sotto un vecchio borsalino marrone, la barba non fatta, la giacca e camicia stropicciate e l’aria irritata sono quelle di qualcuno buttato giù dal letto molto prima di quanto avesse previsto. «Poi mi spiegherai come hai fatto ad arrivare così presto, cavolo…»

    Accanto a lui un uomo molto più giovane, alto e distratto. Si abbina male al suo compagno. È impressionante e inconfondibile, con quegli occhi azzurri, i tatuaggi di ratti e serpenti stilizzati sul collo e sulle braccia massicce, i lunghi capelli neri, in maniche corte e bermuda nonostante il freddo, ma con guanti di pelle nera alle mani. Folco, lo sciamano metropolitano dei giornali.

    «Sono arrivata per prima io! È mio!» sbraita Silva.

    «Che sei arrivata prima è sicuro. Sei arrivata addirittura prima della squadra di indagine, insieme agli spazzini!» Indica i tecnici che stanno armeggiando intorno al cadavere. Lui dev’essere per forza Davelli. Viene fotografato molto meno del suo compagno, ma lui e Folco sono citati sempre insieme nelle notizie. La coppia più famosa dell’EXO. «Se il ragazzo qui non avesse sentito qualcosa di strano e insistito per venire immediatamente, chissà che avresti combinato.»

    Folco non ci guarda. Sposta la testa da una parte all’altra, gli occhi vacui, mormorando qualcosa tra sé e sé.

    «Combinato? Io sono un’agente, quanto te!»

    «Sei un’agente a cui non è stato assegnato un nuovo operatore. E anche se hai portato… cos’hai lì, un freelance? Guarda quant’è pallido e magro, dagli qualcosa da mangiare!» Tira fuori dalle tasca della giacca una merendina al cioccolato, e me la porge. Sembra un po’ sciolta. Scuoto la testa. «No?» La scarta e la addenta. «Dicevo» biascica mente mastica, «non lo hai visto il dottore, come ti era stato richiesto, vero?» Mi volto verso Silva. La sua espressione confusa vale un’ammissione. Dottore? «E allora non puoi prendere nessun incarico. Il caso è nostro.»

    «No!» Silva mi spinge di lato e si avvicina a Davelli. Sovrasta l’uomo di tutta la testa. Le sue dita brillano dall’interno, l’odore di bruciato riempie l’aria. Che vuole fare? Persino Folco abbassa gli occhi su di lei, improvvisamente concentrato.

    Questa volta tocca a me afferrarla per le spalle e tirarla via. «Sei impazzita?» le sussurro. Mi lancia un’occhiata rabbiosa, ma non si oppone mentre la faccio allontanare.

    «Ecco, portala via, prima che si metta nei guai» mi grida dietro Davelli. «E ricordati di mangiare!»

    Passiamo a testa bassa accanto a un alichino, attenti a non incrociarne lo sguardo. Persino senza strumenti riesco ancora a sentire la presenza di Folco alle mie spalle, anche se non riesco a capire cosa stia facendo. Bello, famoso, un naturale potentissimo. Penso di odiarlo.

    Svoltiamo in una strada più larga ma deserta, camminiamo fianco a fianco.

    «Allora, cos’è successo?» sbotto. «Ti eri dimenticata di avvisarmi che non puoi lavorare?»

    Silva tira fuori una sigaretta, la accende sfiorandola con l’indice. «Sì che posso. Ma vogliono farmi fare un qualche tipo di valutazione psicologica, dopo quello che è successo a Salvo…»

    «E invece hai deciso di fregartene. E già che c’eri hai tirato in mezzo anche me.»

    «Lo so, avrei dovuto dirtelo prima, ma non ho avuto tempo! Hai visto come sono arrivati in fretta?»

    «Bene, ora ce l’abbiamo il tempo!» Mi fermo al centro del marciapiede. «Spiegami!»

    Si ferma anche lei. «Voglio farli fuori. Folco e Davelli.»

    «Non starai mica dicendo sul serio?»

    «Ma no, che hai capito? È che… hai una vaga idea di che stipendio pazzesco prendano quei due? E ci devi aggiungere gli sponsor, le interviste, i clienti che vogliono lavorare solo con loro. Delle fottute celebrità. Ma sono solo un bluff…» Abbassa la testa. «Hanno chiuso le indagini su Salvo. Subito. Mi hanno tolto il comando e ordinato di bruciare tutto, senza neanche ascoltare quello che avevo da dire. I migliori agenti della città, e non hanno speso un solo fottuto secondo per capire se fosse possibile fare qualcosa, a cercare un modo per recuperarlo…» Ora ha la voce rotta.

    «Mi dispiace, Silvia, davvero, ma non puoi credere che lo abbiano fatto di proposito.»

    «Voglio rovinarli.» Se mi ha sentito, mi ha ignorato. «Farli sbattere fuori dall’agenzia. E per farlo devo fargli perdere credito, far sembrare inutile e immeritato quello che guadagnano e l’attenzione che ricevono. Cominciando col soffiargli i casi grossi, come questo. L’omicidio di un monacello, capisci?»

    Scuoto la testa. «Vedere quel dottore non mi sembra un’idea così brutta, no?»

    «Non cominciare anche tu…»

    «Ti rendi conto di cosa stai dicendo? È assurdo!»

    «Va bene, mettila così. Mi serve un operatore. Uno di cui potermi fidare, come facevo con Salvo, non qualche sconosciuto pescato chissà dove dall’EXO. Qualcuno che mi aiuti a rimanere lucida e razionale,

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1